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    Predefinito La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)



    di Daniele Ravenna – “Mondoperaio”, giugno 1979, pp. 127-131.


    Il Partito d’Azione fu la prima e forse l’unica tra le formazioni politiche emerse dalla lotta antifascista a porsi con chiarezza il problema della riforma dello Stato, e fu anche l’unica a proporre, in questo ambito, la repubblica presidenziale. Secondo gli azionisti, infatti, il semplice recupero dei meccanismi istituzionali prefascisti, incluso il sistema parlamentare, era altrettanto inaccettabile quanto la conservazione della monarchia, entrambi ugualmente responsabili, il primo per impotenza e la seconda per complicità, dell’avvento del fascismo.

    È nelle matrici culturali del Partito d’Azione, individuate in un socialismo che guarda alle esperienze contemporanee del laburismo e del New Deal, che vanno ricercate le basi del programma per la Costituente pubblicato il 7 aprile 1946. Esso si apriva con queste parole: “Il Partito d’Azione vuole l’abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica democratica che garantisca le libertà della persona, i diritti delle minoranze e la stabilità del governo. Esso propugna perciò la repubblica presidenziale di tipo americano”.

    Scorrendo l’insieme degli interventi di Calamandrei alla Costituente, ci si rende conto come il tema del presidenzialismo, pur avendo attirato la sua attenzione in modo relativamente marginale, si inserisca coerentemente nel quadro complessivo delle posizioni da lui sostenute. Infatti ogni sua azione, a favore della stabilità del governo come della disciplina costituzionale dei partiti, per l’autogoverno della magistratura come per la creazione della Corte costituzionale, fu ispirata a un lucido pragmatismo, che gli faceva rifiutare le suggestioni delle ideologie e della tradizione prefascista, in favore di soluzioni che consentissero di conciliare democrazia ed efficienza.


    Richiamare oggi gli argomenti sostenuti da Piero Calamandrei, deputato all’Assemblea costituente per il Partito d’Azione, in favore della repubblica presidenziale, non può ovviamente avere lo scopo di schierarli sic et simpliciter a favore dell’opinione che propugna un cambiamento dei meccanismi istituzionali attinenti alla forma di governo. Ma può avere un senso se ci si pone uno scopo insieme più limitato e più serio: quello di fornire una prima documentazione su un aspetto poco noto del dibattito che si svolse su quel tema trent’anni da, richiamandone un filone che ne uscì battuto. E l’interesse di un tale filone, al di là di una rapida verifica della sua maggiore o minore attualità, risiede nel fatto che, integrando il panorama delle forze la cui risultante fu la Costituzione repubblicana quale noi conosciamo, esso consente di valutare in primo luogo la congruità delle risposte che la Costituzione dette ai problemi che venivano già allora prospettati; in secondo luogo, esso consente di confrontare quello “scenario” con quello attuale, e solo alla luce di quel confronto valutare in che misura la Costituzione possa richiedere, o meno, interventi ingegneristici.
    Si vorrebbe cioè offrire un modesto contributo che aiutasse ad interpretare, o al limite a superare, l’alternativa che oggi viene prospettata tra chi sostiene la necessità di agire in direzione di una piena attuazione del dettato costituzionale, ancora non conseguita, e chi prospetta invece un’ipotesi di trasformazione dei maccanismi in esso previsti.
    Lo stesso Amato, del resto, nelle sue incisive proposte di riforma istituzionale, si richiama all’opportunità di attuare norme della Costituzione che, ancora pressoché inattuate, presentino però una carica di potenziale vitalità, come il primo comma dell’art. 57, secondo il quale il Senato è eletto su base regionale[1].

    (...)


    [1] V. Giuliano Amato, Democrazia conflittuale e forma di governo, in “Mondoperaio” n. 4, aprile 1979, pag. 65, e specialm. 68.
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    Predefinito Re: La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)

    Il programma del Partito d’Azione

    Come è noto il Partito d’Azione fu certamente le prima, e forse l’unica, tra le formazioni politiche emerse dalla lotta antifascista, a porsi con chiarezza e decisione il problema della riforma dello Stato; e fu anche l’unica a proporre in tale ambito la repubblica presidenziale. Il tema del dibattito di allora fra le forze politiche sulla riforma delle istituzioni è di grande interesse, ma senza dubbio anche estremamente complesso, né è questa la sede per approfondirlo. Basterà ricordare in rapidissima sintesi come per il Partito d’Azione, il quale per primo aveva posto la pregiudiziale antimonarchica, il semplice recupero dei meccanismi istituzionali prefascisti, sistema parlamentare incluso, fosse altrettanto inaccettabile quanto la conservazione della monarchia, entrambi ugualmente responsabili, il primo per impotenza e la seconda per complicità, dell’avvento del fascismo. Significativa al proposito l’accusa rivolta agli altri partiti, nel 1944, di aver “pensato puramente e semplicemente in termini di epurazione delle istituzioni pubbliche esistenti e non in termini di creazioni della basi istituzionali di una vera vita democratica”.[1]
    L’analisi della cause del fascismo era del resto esplicitamente messa a fondamento delle scelte programmatiche del partito, fin dal primo manifesto, cosiddetto dei “sette punti”, pubblicato sul primo numero de “L’Italia libera”. Dopo aver posto la pregiudiziale repubblicana, esso proseguiva: “In base a una rinnovata separazione dei poteri, il potere esecutivo – assiduamente e permanentemente controllato dagli organi rappresentativi che dello Stato repubblicano saranno il fondamento – dovrà godere di autorità e stabilità tali da consentire continuità, efficacia e speditezza di azione, per evitare ogni ritorno ai sistemi di crisi permanenti, risultati fatali ai regimi parlamentari”[2]. La necessità di pensare un sistema di istituzioni tale da garantire la saldezza e l’efficienza del governo viene così posta risolutamente in primo piano.
    Ed è nelle matrici culturali del partito, individuate in un socialismo che guarda alle esperienza contemporanee del laburismo e del New Deal[3], che vanno ricercate le basi da cui scaturì il programma per la Costituente che il Partito d’Azione presentò su “L’Italia libera” del 7 aprile 1946. Quale giorno il quotidiano del partito titolava a tutta pagina “Repubblica presidenziale, autonomie locali – economia di popolo, governo democratico”. Ed è quanto mai significativo il fatto che, nelle tre sezioni in cui il programma si divideva, il “Rinnovamento radicale dello Stato” precedeva “Riforma della società” e “Governo di sinistra per realizzare questo programma”.
    Il programma si apriva con queste parole: “Il Partito d’Azione vuole l’abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica democratica che garantisca le libertà della persona, i diritti delle minoranze e la stabilità del governo. Esso propugna perciò la repubblica presidenziale di tipo americano, cioè una forma di Stato in cui il presidente della Repubblica, direttamente eletto dal popolo, sia ad un tempo presidente del Consiglio dei ministri”.

    (...)


    [1] Lettera aperta del PdA a tutti i partiti aderenti al CLN, pubblicata su “L’Italia libera” del 30/11/1944, riprodotta da E. Aga Rossi, Il movimento repubblicano, Giustizia e Libertà e il Partito d’Azione, Bologna, Cappelli, 1969, pag. 233.

    [2] Anche questo è riportato in Aga Rossi cit., pag. 174.

    [3] Così ad esempio C. L. Ragghianti, sempre in Aga Rossi cit., pag. 205.
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    Predefinito Re: La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)

    La commissione dei 75

    Calamandrei aderì in pieno a questa linea del Partito d’Azione, al quale lo univano il comune slancio morale, la formazione culturale e anche solidi legami personali. Dalla Consulta (1945-46) alla Costituente (1946-48) alla prima legislatura (1948-53), in cui fu deputato di Unità socialista dopo la scomparsa del Partito d’Azione, fino alla morte, fu attivissimo protagonista della vita pubblica, lasciando numerosi scritti, discorsi, saggi di argomento politico-costituzionale a testimoniare il suo impegno. Ma sull’argomento che ora ci interessa, tolti pochi sparsi accenni, Calamandrei manifestò il proprio pensiero solo una volta, in occasione del dibattito sulla forma di governo alla Costituente. Ciò è probabilmente dovuto in primo luogo all’immediato rifiuto che i costituenti opposero all’ipotesi presidenzialista del Partito d’Azione, e secondariamente al fatto che in quella sede Calamandrei si occupò principalmente di altri problemi.
    Come è noto, infatti, le linee maestre della nuova Costituzione furono tracciate da una commissione di 75 costituenti; e questa commissione per adempiere il proprio incarico si suddivise in tre sottocommissioni, rispettivamente competenti per i diritti e i doveri dei cittadini, per l’organizzazione costituzionale dello Stato e per i lineamenti economici e sociali. Calamandrei fu membro della seconda sottocommissione, e in tale veste partecipò alla discussione che vi ebbe luogo sulla forma di governo; ma poi, quando tale sottocommissione si ripartì ulteriormente in due sezioni, la prima per il potere esecutivo e la seconda per il giudiziario e la Corte costituzionale, fu ai lavori di questa che prese parte, giocandovi anzi un ruolo di protagonista come relatore ed estensore di un progetto di testo costituzionale.
    Peraltro, scorrendo l’insieme degli interventi di Calamandrei alla Costituente, ci si può rendere conto di come il tema del presidenzialismo, pur avendo attirato la sua attenzione in maniera relativamente marginale, si inserisca in maniera del tutto coerente nel quadro complessivo delle posizioni da lui sostenute. Infatti ogni sua azione, a favore della stabilità del governo come della necessità di disciplinare nella Costituzione i partiti[1], per l’indipendenza e l’autogoverno della magistratura come contro le giurisdizioni speciali, fino alla decisiva battaglia per la Corte costituzionale, o per l’inserimento dei cosiddetti “diritti sociali” in un preambolo separato, nel timore che la loro evanescenza finisse col contagiare il resto della Costituzione, fu ispirata ad un medesimo rigore scientifico, ma anche ad un lucido pragmatismo, che gli facevano rifiutare le suggestioni delle ideologie o della tradizione prefascista (che si presentava come la via più agevole da seguire) in favore delle soluzioni che meglio promettessero di conciliare democrazia ed efficienza.

    (...)


    [1] V. Atti dell’Assemblea costituente, Seconda sottocommissione, 25/10/1946, pag. 426, e Chiarezza nella Costituzione, discorso pronunciato all’Assemblea Cost. il 4/3/1947, in Calamandrei, Scritti e discorsi politici, Firenze, La Nuova Italia, 1966, Vol. II, pag. 42.
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    Predefinito Re: La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)

    Il modello dell’alternanza

    Un primo illuminante accenno dell’opinione di Calamandrei sul problema in esame si trova in un discorso pronunciato il 14 ottobre 1945[1], in cui denunciava le forze che si opponevano ad una sollecita convocazione della Costituente. Egli affermò che il governo di coalizione in carica in quel momento (il governo Parri) era un espediente di emergenza, certo necessario per riempire il vuoto lasciato dal fascismo, ma dai difetti evidenti. Una rapida convocazione della Costituente era necessaria perché solo attraverso di essa si poteva avere “un governo robusto, che possa governare, che sia espressione sicura di una maggioranza liberamente contata, che possa avere un programma orientato in una direzione sola, che abbia in sé una omogeneità politica che gli consenta quelle riforme audaci senza le quali nessun problema economico e sociale… si può risolvere”. Si può notare che per Calamandrei la stabilità dell’esecutivo non va ricercata in nome di un’efficienza fine a se stessa, bensì è chiaramente finalizzata alla capacità di realizzare un incisivo programma di riforme.
    Nel luglio dell’anno successivo, in uno scritto sul “Ponte”, manifestava il timore che i tre partiti di massa potessero paralizzarsi a vicenda, litigandosi i ministeri-chiave allo scopo di “assicurarsi nella compagine ministeriale posizioni di predominio destinale a neutralizzare il predominio degli altri due”[2]. Calamandrei sembra dunque individuare la malattia della democrazia italiana in quel suo carattere che sarà poi definito come “multipartitismo estremo”. Si pone allora il problema di se e come l’intervento sulle istituzioni possa incidere su tale realtà: e di ciò Calamandrei dette una compiuta esposizione nel suo intervento del 5 settembre 1046 alla seconda sottocommissione[3].
    La discussione sulla forma di governo era iniziata da due giorni con le relazioni di Mortati (DC) e Conti (repubblicano), che avevano prospettato le varie soluzioni possibili. Ma in realtà, quando Calamandrei prese la parola, i giochi erano già fatti, ed egli fu costretto a rilevare di essere il solo a difendere la soluzione presidenziale[4]. Ma poiché Calamandrei stesso ha riferito il proprio intervento in un articolo comparso su “L’Italia libera” tredici giorni dopo[5], senza altri mutamenti se non un miglioramento nella forma, è opportuno fare riferimento a questa fonte.
    Alcuni pensano, egli rileva, che in una situazione politica fluida e instabile come quella italiana, caratterizzata da un irrequieto multipartitismo, i costituzionalisti, non siano in grado di fornire una formula che garantisca la stabilità e l’efficienza di un governo di coalizione; non resterebbe allora che “confessare la impotenza degli espedienti costituzionali a disciplinare la irrequietezza e la mobilità delle forze sociali, che si urtano nella realtà senza obbedire alle formule dei giuristi”. Peraltro, pur ammettendo che “i conflitti sociali non si risolvono colle classificazioni formali dei costituzionalisti”, si può pensare che le leggi, e in particolare le costituzioni, “possano esercitare sulla realtà politica una certa efficacia orientatrice e per così dire pedagogica che aiuti le coalizioni di più partiti politici a rimanere unite accrescendo la loro forza di coesione, e che, spingendole a fondersi in un grande partito, possa così favorire il formarsi di un costume politico che gradualmente avvicini il passaggio del governo di coalizione ad un governo di maggioranza, basato su due grandi coalizioni lentamente trasformate in due grandi partiti di destra e di sinistra”.
    Il modello ideale da perseguire è dunque per Calamandrei l’alternanza al potere di due grandi formazioni, una progressista ed una conservatrice, entrambe ugualmente legittimate all’esercizio del potere, secondo i più canonici modelli inglese ed americano, verso i quali, soprattutto per il secondo, Calamandrei manifesterà spesso il suo entusiasmo[6].

    (...)


    [1] Calamandrei, Scritti cit., vol. I/1, pag. 166.

    [2] I primi passi, ne “Il Ponte” n. 7-8, luglio-agosto 1946, riportato in Scritti cit., vol. I/1, pag. 272.

    [3] Atti dell’Assemblea costituente, Seconda sottocommissione, 5/9/1946, pag. 114.

    [4] Enzo Cheli ha chiaramente messo in luce come molte delle scelte che spettavano alla Costituente, compresa appunto quella della forma di governo, fossero in realtà già state pregiudicate ancor prima della sua convocazione: v. il suo Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, pag. 20.

    [5] Valore e attualità della repubblica presidenziale, riprodotto in Scritti cit., vol. I/1, pag. 276.

    [6] E, in particolare, all’interno di questo ancor di più per il laburismo, per la sua “rivoluzione sociale compiuta col solo esercizio del voto e col presidio della legalità”: v. Scritti cit., vol. I/2, pag. 535.
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    Predefinito Re: La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)

    La stabilità dell’esecutivo

    Affinché la nuova Costituzione possa avere quest’efficacia “formatrice”, non è necessario, secondo Calamandrei, che essa ricalchi in toto il sistema presidenziale americano: “ma basterebbe che alla repubblica presidenziale ci si avvicinasse su un punto, cioè nello innalzare e rafforzare l’autorità del capo del governo, facendo sì che la sua nomina fosse la conseguenza dell’approvazione solenne, data preventivamente dal popolo o almeno dalle Assemblee legislative riunite, di un ‘piano’ in cui fosse fissata la politica che il governo intende seguire”. Questo punto merita di essere sottolineato: troviamo infatti enunciata con la massima chiarezza la necessità di ancorare la coalizione di governo (un male non evitabile) ad un programma preciso, attraverso l’investitura popolare o delle Camere riunite. In tal modo si consegue un duplice obiettivo: in primo luogo, verrebbe meno quel carattere radicato nel nostro sistema politico che è stato definito come “mediatizzazione”: il fatto, cioè, che “la titolarità dell’esecutivo dipende in prevalenza da combinazioni partitico-parlamentari, al di fuori di ogni scelta diretta del corpo elettorale”[1].
    Ma la proposta di Calamandrei è interessante sotto un ulteriore aspetto: essa sembra anticipare in nuce quello che sarebbe stato, all’inizio degli anni ’60, uno dei più autorevoli progetti per eliminare l’instabilità propria del sistema parlamentare: il “contratto di maggioranza” di Mendès-France. Esso prevede che il “‘voto di investitura’ [cioè di fiducia al governo] dovrebbe essere dato su un programma preciso e dettagliato, subito dopo le elezioni, creando un vero impegno per il suo compimento da parte sia del governo che dei partiti di maggioranza; di guisa che, se, per avventura, siffatto impegno non fosse mantenuto e si avesse comunque una crisi, le dimissioni del governo comporterebbero ineluttabilmente con sé lo scioglimento delle Camere, immediate elezioni e la stipulazione di un nuovo ‘contratto di maggioranza’”[2].
    Tornando a Calamandrei, egli, di fronte a chi avversa la concentrazione nelle mani di una sola persona delle due cariche di capo dello Stato e capo del governo (così come voleva l’originario programma azionista), ammette la convenienza a lasciarle separate, così da attribuire al primo un carattere di organo di equilibrio costituzionale super partes; ma ciò che conta è che il secondo, “capo di una stabile coalizione di partiti”, si avvicini a quel prestigio che negli Stati Uniti d’America o in Inghilterra deriva al presidente o al primo ministro dall’essere il capo del partito di maggioranza”. Si tratta, insomma, di dare rilevanza costituzionale alla coalizione di partiti e al suo capo. A questo fine, secondo Calamandrei, sono tutto sommato inefficaci quei vari accorgimenti, alcuni dei quali saranno poi effettivamente accolti nella nostra Costituzione, che configurano l’istituto della “sfiducia razionalizzata”, che servono cioè a rendere più difficile per il Parlamento votare la sfiducia ad un governo in carica. Infatti egli osserva acutamente che ben di rado un governo di coalizione cade in seguito a un conflitto con le Camere manifestato col voto di sfiducia; in realtà le crisi sono il prodotto del dissolvimento interno della coalizione, che fa venir meno la coesione del governo e ne provoca lo sgretolamento. E qui che è stato veramente profetico, se si considera che in trent’anni di repubblica nessun governo in carica ha ricevuto la sfiducia secondo il meccanismo regolato dall’art. 94 della Costituzione.
    Il fine da raggiungere è dunque quello di rendere “stabile, continuativa e sincera” la coalizione; e ciò può essere conseguito “stabilendo istituti costituzionali che, al momento della formazione del governo, favoriscano o magari rendano indispensabile la cooperazione iniziale dei partiti e la loro reciproca chiarificazione su una piattaforma comune”. “Bisogna insomma dare importanza costituzionale, e non soltanto politica, al ‘piano’, in modo che la scelta del primo ministro significhi necessariamente l’approvazione del piano che è destinato a garantire la continuità del governo”. In tal modo, spera Calamandrei, si dovrebbero combinare i vantaggi propri della repubblica presidenziale con quelli della forma di governo parlamentare. I costituenti, per svolgere il loro compito con successo, devono infatti combinare due virtù: “la saggezza che cerca i modelli nelle esperienze del passato e la fantasia che trova i nuovi meccanismi giuridici per aprire le strade all’avvenire”.

    (...)


    [1] Così Duverger, richiamato da L. Elia, voce “Governo (forme di)”, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1970, vol. XIX, pag. 654, nota 86.

    [2] P. Biscaretti di Ruffa, La forma di governo parlamentare dell’Italia alla luce di un ventennio d’attuazione costituzionale, in AA. VV., Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, Firenze, Vallecchi, 1969, pag. 62.
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    Predefinito Re: La repubblica presidenziale nel pensiero di Calamandrei (1979)

    Mancanza di coraggio e di fantasia

    Invece, il giorno stesso dell’intervento di Calamandrei la seconda sottocommissione approvò il famoso ordine del giorno Perassi: “La seconda sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”[1].
    Contro tale soluzione, che risente fin troppo del vaccino anti-autoritario inoculato nei costituenti dal fascismo, si indirizzarono pungenti gli strali di Calamandrei, che scrisse di lì a poco: “La struttura degli organi centrali non si allontanerà di molto dagli schemi tradizionali del sistema parlamentare, quale è nato e cresciuto (e ormai invecchiato) nelle costituzioni europee del secolo scorso: e proprio su questo punto c’è da temere che i preparatori della nuova Costituzione abbiano mancato di coraggio e di fantasia, e forse anche, sotto qualche aspetto, di sensibilità storica, quando hanno preferito orientarsi sui modelli costituzionali di cento anni fa, piuttosto che sulla realtà politica dell’Europa e dell’Italia di oggi”[2]. Altrove denunciò la “moderazione, in certi punti quasi la timidezza conservatrice della nuova Costituzione”[3]. Del resto il giudizio iniziale di Calamandrei sulla Costituzione non fu tenero: “Costituzione tripartita, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi”[4], contenente “precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni…, camuffati da norme giuridiche, ma che norme giuridiche non sono”[5], salvo poi diventarne il più acceso difensore di fronte alle provocazioni del regime democristiano.
    Gli atti della Costituente forniscono ancora un breve cenno della visione di Calamandrei su quali siano gli strumenti impiegabili per ottenere governi stabili: allorché si discute del sistema elettorale, egli dichiara di astenersi dal prendere posizione sull’argomento, mettendo però in luce come la scelta del sistema proporzionale implichi che i futuri governi saranno necessariamente di coalizione, per ciò stesso intrinsecamente fragili[6].


    Una democrazia zoppa

    Terminata la fase della Costituente, Calamandrei, come si è accennato, fu eletto deputato nelle liste di Unità socialista. E subito dovette rilevare[7] che, certo, nel Parlamento uscito dalle elezioni del 18 aprile c’erano una maggioranza al governo e una minoranza all’opposizione; ma quel “fronteggiarsi di due intransigenze religiose”, tra la “sprezzante noncuranza” della DC, pronta a seppellire ogni contestazione con la massa schiacciante dei suoi voti, e la vociferante opposizione delle sinistre, che contestavano la legittimità stessa del governo De Gasperi, sventolando atteggiamenti buoni più a fomentare un’agitazione rivoluzionaria che non ad esercitare un’azione parlamentare, poco aveva a che fare con il normale funzionamento del sistema parlamentare. Al punto che richiamò a paragone la paralisi avvenuta in Parlamento fra il 1924 e il 1927, allorché la maggioranza – fascista – copriva abitualmente di contumelie gli oppositori, e questi – gli aventiniani – avevano abbandonato la Camera proprio per non avere più contatti con la maggioranza al governo.
    Ebbe inizio allora per Calamandrei una diversa battaglia, il cui primo bersaglio era quell’ “ostruzionismo di maggioranza” (è sua la felicissima definizione) del regime democristiano che rifiutava di attuare la Carta costituzionale; ma che aveva come bersaglio non secondario quella minoranza che, autoesiliandosi nelle plaghe dell’estremismo, rendeva impossibile ogni alternativa a quel regime[8].



    Daniele Ravenna



    [1] Atti dell’Assemblea costituente, Seconda sottocommissione 4/9/1946, pag. 102.

    [2] Come nasce la nuova Costituzione, ne “Il Ponte” n. 1, gennaio 1947, in Scritti cit., vol. I/1, pag. 293.

    [3] Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Scritti cit., vol. II, pag. 454.

    [4] Chiarezza nella Costituzione, discorso cit. in Scritti cit., vol. II, pag. 22.

    [5] Chiarezza cit., ibid. vol. II, pag. 24.

    [6] Atti dell’Assemblea costituente, Seconda sottocommissione 7/11/1946, pag. 456.

    [7] In Maggioranza e opposizione, ne “Il Ponte”, n. 7, luglio 1948, ora in Scritti cit., vol. I/1, pag. 368.

    [8] Cfr. Maggioranza e opposizione, cit., pag. 379.
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