di Daniele Ravenna – “Mondoperaio”, giugno 1979, pp. 127-131.
Il Partito d’Azione fu la prima e forse l’unica tra le formazioni politiche emerse dalla lotta antifascista a porsi con chiarezza il problema della riforma dello Stato, e fu anche l’unica a proporre, in questo ambito, la repubblica presidenziale. Secondo gli azionisti, infatti, il semplice recupero dei meccanismi istituzionali prefascisti, incluso il sistema parlamentare, era altrettanto inaccettabile quanto la conservazione della monarchia, entrambi ugualmente responsabili, il primo per impotenza e la seconda per complicità, dell’avvento del fascismo.
È nelle matrici culturali del Partito d’Azione, individuate in un socialismo che guarda alle esperienze contemporanee del laburismo e del New Deal, che vanno ricercate le basi del programma per la Costituente pubblicato il 7 aprile 1946. Esso si apriva con queste parole: “Il Partito d’Azione vuole l’abolizione della monarchia e l’instaurazione di una repubblica democratica che garantisca le libertà della persona, i diritti delle minoranze e la stabilità del governo. Esso propugna perciò la repubblica presidenziale di tipo americano”.
Scorrendo l’insieme degli interventi di Calamandrei alla Costituente, ci si rende conto come il tema del presidenzialismo, pur avendo attirato la sua attenzione in modo relativamente marginale, si inserisca coerentemente nel quadro complessivo delle posizioni da lui sostenute. Infatti ogni sua azione, a favore della stabilità del governo come della disciplina costituzionale dei partiti, per l’autogoverno della magistratura come per la creazione della Corte costituzionale, fu ispirata a un lucido pragmatismo, che gli faceva rifiutare le suggestioni delle ideologie e della tradizione prefascista, in favore di soluzioni che consentissero di conciliare democrazia ed efficienza.
Richiamare oggi gli argomenti sostenuti da Piero Calamandrei, deputato all’Assemblea costituente per il Partito d’Azione, in favore della repubblica presidenziale, non può ovviamente avere lo scopo di schierarli sic et simpliciter a favore dell’opinione che propugna un cambiamento dei meccanismi istituzionali attinenti alla forma di governo. Ma può avere un senso se ci si pone uno scopo insieme più limitato e più serio: quello di fornire una prima documentazione su un aspetto poco noto del dibattito che si svolse su quel tema trent’anni da, richiamandone un filone che ne uscì battuto. E l’interesse di un tale filone, al di là di una rapida verifica della sua maggiore o minore attualità, risiede nel fatto che, integrando il panorama delle forze la cui risultante fu la Costituzione repubblicana quale noi conosciamo, esso consente di valutare in primo luogo la congruità delle risposte che la Costituzione dette ai problemi che venivano già allora prospettati; in secondo luogo, esso consente di confrontare quello “scenario” con quello attuale, e solo alla luce di quel confronto valutare in che misura la Costituzione possa richiedere, o meno, interventi ingegneristici.
Si vorrebbe cioè offrire un modesto contributo che aiutasse ad interpretare, o al limite a superare, l’alternativa che oggi viene prospettata tra chi sostiene la necessità di agire in direzione di una piena attuazione del dettato costituzionale, ancora non conseguita, e chi prospetta invece un’ipotesi di trasformazione dei maccanismi in esso previsti.
Lo stesso Amato, del resto, nelle sue incisive proposte di riforma istituzionale, si richiama all’opportunità di attuare norme della Costituzione che, ancora pressoché inattuate, presentino però una carica di potenziale vitalità, come il primo comma dell’art. 57, secondo il quale il Senato è eletto su base regionale[1].
(...)
[1] V. Giuliano Amato, Democrazia conflittuale e forma di governo, in “Mondoperaio” n. 4, aprile 1979, pag. 65, e specialm. 68.