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    Predefinito Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)




    di Norberto Bobbio – “Mondoperaio”, novembre 1977, pp. 63-72; poi in N. Bobbio, “Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea”, Carocci, Roma 1993 (2001), pp. 113-133.


    Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta da Norberto Bobbio al convegno sul tema “I partiti e la cultura” svoltosi a Milano il 28 e 29 ottobre [1977] per iniziativa della Sezione cultura della Direzione del PSI e del Club Turati.


    La condotta dell’intellettuale dovrebbe essere contrassegnata da una forte volontà di partecipare alle lotte politiche e sociali del proprio tempo che non gli permetta di estraniarsi tanto da non sentire più quello che Hegel chiamava “l’alto frastuono della storia del mondo”, ma nello stesso tempo da quel distacco critico che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte, sino ad essere legato mani e piedi a una parola d’ordine. Volendo definire questo modello ideale con una formula, si può parlare di “autonomia relativa della cultura rispetto alla politica”. La riduzione a politica di tutte le sfere in cui si svolge la vita dell’uomo in società, ovvero la politicizzazione integrale dell’uomo, la scomparsa di ogni differenza fra il politico e – come si dice oggi – il “personale”, è la quintessenza del totalitarismo.

    Di fronte alla perduta credibilità del cosiddetto “socialismo reale”, il socialismo è da inventare. Bisogna ritornare ai princìpi. Ma il ritorno ai princìpi non basta. Occorre fornire gli strumenti necessari per attuarli in un mondo sempre più complicato di fronte al quale ogni semplificazione è un inganno, il puro rifiuto è un vantaggio assicurato all’avversario che si vorrebbe abbattere, l’evasione nel regno di utopia è un tradimento. È un compito immenso e magnifico. Mai come ora, di fronte a una società che corre verso la propria autodistruzione, che sembra affascinata dal desiderio di morte, dobbiamo fare ricorso alla intelligenza creatrice.


    Nell’affrontare ancora una volta il tema degli intellettuali, e in modo particolare il tema del rapporto fra intellettuali e politica, mi pare di essere come quel bambino che gettando un secchiello d’acqua nel mare credeva di farne aumentare il livello. Rispetto all’oceano degli scritti sul tema, la mia relazione è un secchiello. Cominciandone la stesura, dopo essermi costruito per mio uso e consumo una schema degli argomenti da trattate, mi era venuto fatto da pensare che il titolo più adatto sarebbe stato quello che l’amico Giacomo Noventa aveva dato ironicamente ad una sua raccolta di scritti: Niente di nuovo. Del resto credo che lo scopo di una relazione introduttiva sia quello di ordinare il materiale: talora può accadere che mettendo in ordine delle schede, si riesca ad eliminare qualche doppione inutile ed a scartare qualche pezzo di carta che si era infilato nello schedario incidentalmente. Ricordate la storia di quel dotto che aveva studiato tutta la vita e sapeva tutte le risposte possibili, ma era disperato perché nessuno gli faceva delle domande. Io non ho nessuna risposta da dare ma mi auguro che dopo avermi ascoltato qualcuno si ponga delle domande.
    Una delle ragioni per cui gli scritti sugli intellettuali, sulla loro funzione, sulla loro nascita e sul loro destino, sulla loro vita morte e miracoli, sono tanti che solo la memoria di un computer potentissimo potrebbe registrarli tutti, è che una delle funzioni principali degli intellettuali, se non la principale, è quella di scrivere. Naturale che scrivano su se stessi. Se non fossero loro ad occuparsi di se stessi, chi lo farebbe? E se altri scrivesse di loro non diventerebbe, per il solo fatto di scrivere, un intellettuale? Diventa un intellettuale anche se si mette a scrivere sugli intellettuali per dirne tutto il male possibile, anche nel caso in cui scriva – caso oggi non infrequente – che gli intellettuali non esistono, che sono un’invenzione di altri eccetera. È un destino cui non si sfugge, non appena ci si pone il problema di che cosa sono gli intellettuali. Chi si pone questo problema diventa, per il solo fatto di porselo, un intellettuale, cioè uno che non fa cose ma riflette sulle cose, non maneggia oggetti ma simboli, i cui strumenti di lavoro non solo macchine ma idee.
    Proprio perché la congerie delle parole scritte o dette sugli intellettuali è enorme, ritengo che la prima cosa da farsi sia di delimitare il campo della discussione, stabilire di chi e su che cosa vogliamo discutere e in quale modo. Fra l’altro, questa delimitazione di campo è utile per evitare deplorevoli confusioni di piani di discorso che sono così frequenti fra coloro che parlano di questo argomento, e che dipendono spesso dal fatto che i parlanti non si intendono per l’appunto su chi, su che cosa stanno parlando e sul modo di parlarne.
    Comincio dal modo. Vi sono vari modi di affrontare il problema degli intellettuali. I due discorsi più frequenti sono il sociologico e lo storico. La maggior parte degli scritti pubblicati in questi ultimi anni trattano degli intellettuali come classe o come gruppo e del rapporto della classe degli intellettuali con le altre classi, oppure fanno la storia di questa classe o gruppo in un certo periodo o in un certo Paese. Le celebri analisi di Gramsci, dalle quali è stato stimolato in Italia e non solo in Italia il dibattito sul tema, sono analisi in parte sociologiche (la distinzione fra intellettuali organici e intellettuali tradizionali appartiene a questo tipo di discorso), in parte storiche (si pensi ai vari frammenti dedicati alla storia degli intellettuali nei vari Paesi). Quando si dice che la riflessione sugli intellettuali è recente si dice una cosa solo in parte vera. Dalla Repubblica di Platone in poi, i filosofi si sono sempre occupati di che cosa fanno o debbono farei filosofi, cioè loro stessi, nella società. Ciò che è recente, e risale proprio al tempo in cui Gramsci scriveva le sue note dal carcere, è l’analisi sociologica dello strato degli intellettuali: basti pensare a Mannheim e a tutto il dibattito sugli intellettuali come classe dipendente o indipendente che ne è seguito, e che è tutt’altro che esaurito.

    (...)
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Cultura e politica

    Qui cade la prima delimitazione. Il nostro dibattito non riguarda né la sociologia né la storia degli intellettuali, anche se presuppone l’una e l’altra. Il discorso che intendiamo fare è un discorso – non dobbiamo avere paura delle parole – di etica o, se volete, di politica degli intellettuali. Non è un discorso analitico. È un discorso non su ciò che gli intellettuali sono e fanno ma su ciò che dovrebbero essere o fare. Questa distinzione di livelli di discorso è, a mio parere, importante perché rispetto ai vari modi con cui si può parlare di questo problema in generale, la maggior confusione deriva generalmente dalla sovrapposizione quasi sempre inconsapevole fra un discorso su ciò che gli intellettuali sono e fanno in una determinata società e un discorso su quello che dovrebbero essere o fare (inconsapevole ma non meno fastidiosa, e tanto più grave in quanto sono proprio gli intellettuali, coloro che fanno il mestiere, spesso anche pagato, di pensare, che dovrebbero essere coscienti delle confusioni che si trascinano dietro e in cui trascinano i loro ascoltatori). Dico questo perché la maggior parte dei discorsi sugli intellettuali che leggiamo ogni giorno su giornali e riviste sono discorsi prescrittivi, sono discorsi che esprimono i desideri o le speranze di chi li fa, ma vengono di solito presentati come discorsi analitici, cioè come discorsi su ciò che gli intellettuali effettivamente fanno, e quindi sono sbagliati da cima a fondo. Per fare qualche esempio, quando uno dice che l’intellettuale è morto, non sai mai se egli creda davvero che sia morto di fatto o se invece, come è più probabile, esprima unicamente il suo desiderio che l’intellettuale cessi di esistere. Oppure, se uno dice che tutti gli intellettuali sono diventati servi del potere, lo dica sulla base di ricerche fatte sulle condizioni dei suoi confratelli in quella determinata società, oppure unicamente perché vuole esprimere l’incomprimibile bisogno di parlare male di tutta la categoria e proporre l’ideale dell’intellettuale libero, ribelle, creativo, eccetera.
    Anche in questo caso dobbiamo delimitare bene il livello di discorso da fare: il discorso su cui siamo chiamati a dire la nostra opinione è certamente prescrittivo. Il nostro problema non è di sapere se gli intellettuali sono ribelli e conformisti, liberi o servili, indipendenti o dipendenti, ma di scambiarci alcune idee su ciò che gli intellettuali che si riconoscono in una determinata parte politica vorrebbero o dovrebbero fare. Beninteso, nessuno pensa di fare un discorso programmatico senza conoscere la realtà dei fatti. Sarebbe un programma velleitario. Ma questa conoscenza deve essere davvero una conoscenza e non una collezione di giudizi sommari, di solito fondati su false generalizzazioni del tipo “Gli intellettuali sono…”, “Gli intellettuali dicono…”. Le false generalizzazioni sono armi polemiche, non sono strumenti di conoscenza, perché sono l’effetto di giudizi di valore introdotti di soppiatto. È evidente che chi afferma che tutti gli intellettuali sono servi del potere vuole semplicemente esprimere il suo disprezzo per gli intellettuali: quando Sorel li definiva il ceto parassitario della società borghese, camuffava un giudizio di valore da giudizio di fatto; prova ne sia che negli stessi anni Lenin, sulle orme di Kautsky, proponeva la tesi degli intellettuali come necessari alla formazione del partito rivoluzionario. Come giudizio di fatto, l’opinione di Sorel sugli intellettuali era puramente e semplicemente sbagliata.
    Dopo la delimitazione rispetto al modo di condurre il discorso, la seconda delimitazione riguarda la materia del discorso. Ho detto che nella grande torta della teoria degli intellettuali la nostra fetta è quella della politica degli intellettuali, o degli intellettuali nella politica, quella che viene pregustata e poi mangiata e digerita sotto il nome di “politica e cultura” (di cui io personalmente ho fatto, per continuare la metafora, indigestione). È una fetta tanto grossa che spesso viene scambiata per il tutto. Qui mi limito ad accennare alla ragione per cui questo tema, pur essendo nell’ambito del discorso generale sugli intellettuali un tema specifico, è enorme. A ben guardare, esso non è altro che un aspetto del tema più vasto del rapporto fra teoria e prassi o, nei termini del materialismo storico, fra struttura e sovrastruttura, o più in generale e in forma più generica, fra il mondo delle idee e il mondo delle azioni. E proprio perché è un aspetto di un tema molto più vasto, oltre che immenso, è difficile. Ho l’impressione che non tutti coloro che parlano del problema degli intellettuali e della loro funzione nella società si rendano ben conto di questa difficoltà. Ne parlano come se fosse pacifico che le idee, che sono le “cose” di cui si occupano gli intellettuali, contino, indipendentemente da chi le produce, verso o contro chi sono rivolte, in quali circostanze sono emesse, senza cioè che si sia stati capaci di rispondere prima alla domanda quale sia l’influenza che le idee esercitano sulle azioni, se questa influenza ci sia, in quale misura. (Capite benissimo che, ad esempio, il problema cruciale, su cui si sono spese tante parole vaghe e appassionate, della responsabilità degli intellettuali può avere diverse soluzioni, o anche nessuna soluzione, secondo l’idea che ci facciamo del modo con cui ciò che si pensa e si dice influisce su ciò che si fa). Ma proprio perché non tutti si rendono conto di questa difficoltà, molte discussioni sul ruolo e sulla responsabilità degli intellettuali sono chiacchiere al vento, sono la manifestazione (anche questa se mai da analizzare con metodo) del piacere, o forse meglio del bisogno, che gli intellettuali hanno di parlare di se stessi.

    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Ideologi ed esperti

    La terza delimitazione riguarda i soggetti stessi del nostri discorso: che sono gli intellettuali. Inutile dire che molte incomprensioni fra coloro che parlano di questo argomento dipendono dalla maggiore o minore estensione che viene data al concetto. Vi faccio grazia delle definizioni che ne sono state date. Tutte le definizioni sono convenzionali, cioè dipendono dall’uso che il parlante o lo scrivente intende fare di questo concetto. Si va da un’accezione larghissima che comprende nella definizione tutti coloro che svolgono un lavoro intellettuale distinto dal lavoro manuale ad un’accezione ristrettissima che comprende soltanto i grandi intellettuali, i cosiddetti “maitres penseurs”. Entrambe le accezioni sono poco utili al discorso su intellettuali e politica. Bisogna attenersi (ma anche questa è una convenzione) a una accezione intermedia. Fortunatamente la delimitazione del concetto ci viene in qualche modo imposta dalla delimitazione del tema. Non c’è dubbio che in un’accezione ragionevolmente vasta di intellettuali rientrano gli artisti, i poeti, i romanzieri. Ma nel momento stesso in cui ci si pone il problema del rapporto fra politica e cultura, e la mente corre alle discussioni fatte su questo tema, all’impegno o al non impegno, al tradimento o al non tradimento, insomma al compito degli intellettuali nella vita civile e politica, il campo diventa necessariamente più ristretto. O per lo meno, non tutti coloro che possono essere chiamati intellettuali in un’accezione generica e comune costituiscono una categoria rilevante per il nostro discorso.
    Dico subito, per evitare alla discussione inutili disgressioni e per indicare con la maggiore approssimazione possibile in discussioni di questo genere l’oggetto del mio discorso, che in un dibattito che ha per tema fondamentale il rapporto fra politica e cultura i tipi rilevanti di intellettuali sono soprattutto due: che chiamo, tanto per intenderci, gli ideologi e gli esperti. Ritengo questa distinzione importante, indipendentemente dal fatto che una stessa persona possa essere tanto un ideologo quanto un esperto, ma la distinzione vuole essere oggettiva e non soggettiva, perché gli uni e gli altri svolgono rispetto alla dimensione politica che è quella che qui ci interessa una funzione diversa. Non ho bisogno di aggiungere che questa distinzione non corrisponde alla nota distinzione gramsciana fra intellettuali organici e tradizionali né alla distinzione corrente fra umanisti e tecnici (secondo la celebre tematica delle due culture). Il criterio in base al quale faccio questa distinzione non è la dipendenza e l’indipendenza rispetto alle classi sociali in lotta per il predominio, e non è neppure la diversa formazione o competenza, anche se può esserci una certa parentela tra l’ideologo e l’intellettuale tradizionale, e fra l’esperto e l’intellettuale organico, e spesso l’ideologo è un umanista e l’esperto è un tecnico. Il criterio della distinzione che propongo, e su cui correrà il filo del mio discorso, è l’unico criterio che ritengo valido in un dibattito che ha per oggetto il compito politico dell’intellettuale. Ciò che infatti distingue l’uno dall’altro è proprio il diverso compito che essi hanno in quanto creatori o trasmettitori di idee o conoscenze politicamente rilevanti, è la diversa parte che essi sono chiamati a svolgere nel contesto politico.
    Aggiungo che l’impressione che spesso fa ogni discorso sul tema di essere generico dipende proprio dalla mancanza di questa distinzione. Uno dei luoghi comuni sul ruolo degli intellettuali è quello che li definisce spregiativamente come gli addetti alla creazione del consenso (s’intende del consenso ai potenti del giorno). A parte il fatto che una definizione di questo genere sembra dimenticare, ancora una volta per un errore di falsa generalizzazione, che vi sono intellettuali addetti al consenso così come ve ne sono altri addetti al dissenso (proprio oggi nei Paesi del consenso manipolato e forzato gli unici dissenzienti sono intellettuali, questa funzione non dovrebbe essere dimenticata), val la pena osservare che gli intellettuali cui chi ha il potere o vi aspira attribuisce il ruolo dei promotori di consenso (che non si può mai separare dal dissenso verso la parte opposta), sono gli ideologi, non gli esperti. Un altro luogo comune è quello che definisce gli intellettuali (anche in questo caso negativamente) come consiglieri del principe. Anche qui, a parte il fatto che vi sono intellettuali che consigliano il principe ad altri che consigliano il nemico del principe (che potrà diventare – ma non è detto – il principe futuro), occorre far notare che coloro che ricoprono questo ruolo sono gli esperti, non gli ideologi.
    Non mi perdo in definizioni. Credo possa bastare il dire che per ideologi intendo coloro che forniscono principi-guida, per esperti coloro che forniscono conoscenze-mezzo. Ogni azione politica, come del resto ogni altra azione sociale, e qui per azione politica possiamo convenire di intendere l’azione del soggetto principale dell’agire politico nelle società di massa, che è il partito, ha bisogno, da un lato, di idee generali sugli scopi da perseguire (che possono essere gli scopi ultimi ma sono generalmente scopi intermedi), che poc’anzi ho chiamato “principi” e potrebbero essere chiamati anche valori”, “ideali”, o addirittura “concezione del mondo”; e, dall’altro, di conoscenze tecniche che sono assolutamente necessarie per risolvere (o per proporre soluzioni di) problemi per la soluzione dei quali non basta l’intuizione del politico puro, ma occorrono conoscenze specifiche che solo competenti nei singoli campi del sapere utile sono in grado di offrire. (Il bisogno di conoscenze tecniche è aumentato nella società moderna, specie da quando lo Stato interviene in tutte le sfere della vita, particolarmente in quella dei rapporti economici e dei rapporti sociali: è evidente che uno Stato non può prendere provvedimenti contro l’inflazione senza il parere di economisti e predisporre una riforma sanitaria senza il parere dei medici. Gli Stati hanno sempre avuto i loro esperti: basti pensare ai legisti e ai militari. Ne avevano meno unicamente perché si limitavano a dirimere conflitti di potere, conflitti che si risolvevano o con il diritto o con la guerra).

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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    I mezzi e i fini

    Non sarà sfuggito agli ascoltatori che la distinzione fra ideologi ed esperti ricalca la distinzione weberiana fra azioni razionali secondo il valore ed azioni razionali secondo lo scopo. Gli ideologi sono coloro che elaborano i principi in base ai quali un’azione si dice razionale in quanto coerente, in quanto si giustifica e viene giustificata e quindi accettata, in senso forte “legittimata” per il fatto di essere conforme ai valori accolti come guida all’azione; gli esperti sono coloro che, indicando le conoscenze più adatte per raggiungere un determinato fine, fanno sì che l’azione che vi si conforma possa essere chiamata razionale secondo lo scopo. Una discussione come quella ben nota su democrazia e socialismo è una tipica discussione ideologica, una discussione che verte sui principi primi: se in base ad una discussione del genere un partito dichiara che non verrà mai meno ai principi della democrazia così e così e definita, pur non rinunciando al perseguimento di una società socialista, vuol dire che cerca di presentarsi come un agente che è razionale rispetto al valore. Una discussione, non meno fervida ed attuale, come quella sulla opportunità o meno di costruire centrali nucleari, verte sulla maggiore o minore adeguatezza di certi mezzi piuttosto che di altri per raggiungere un fine prestabilito (che è, in quanto fine, fuori discussione): chi, tenendo conto di tutte le informazioni che gli esperti possono offrire, sceglie questo mezzo piuttosto che un altro, compie un’azione razionale rispetto allo scopo.
    Come sempre, la realtà sociale non è una bella sfera così perfetta e rotonda che si lasci dividere in due emisferi tali che quello che entra nel primo non entra nel secondo e viceversa. La distinzione fra principi che vengono accolti indipendentemente dalle conseguenze immediate e conoscenze tecniche che vengono accolte soltanto in vista del risultato non è così netta da permettere una separazione altrettanto netta nelle discussioni relative. Generalmente l’ideologo non è tanto immerso nel cielo dei principi da non rendersi conto che deve ogni tanto scendere in terra per vedere che cosa vi succede: un satellite artificiale che non riuscisse più a dare comunicazioni a chi l’ha spedito lassù, girerebbe a vuoto, sarebbe da considerare perduto. A dire il vero, c’è l’ideologo che non mette mai i piedi per terra: ed è l’utopista. Nell’utopista la separazione fra fini e mezzi è assoluta; come, all’inverso, nel puro tecnico che mette la propria competenza al servizio del potente senza porsi il problema della legittimità dei fini. L’utopista è colui che tutto preso dal fine trascura i mezzi; il puro tecnico è colui che tutto preso dai mezzi trascura il fine. Ma allo stesso modo che generalmente in una disputa ideologica il discorso sui fini non è separato dal discorso sui mezzi, in una discussione tecnica il problema dei mezzi non è generalmente separato dalla discussione sui fini. Ad ogni modo, i casi-limite, dell’ideologo allo stato puro, l’utopista e dell’esperto allo stato puro, il tecnico, esistono. E sono i casi-limite che ci permettono di renderci conto dell’utilità della distinzione. Del resto questi due casi-limite sono benissimo rappresentati dalla contrapposizione violenta cui stiamo assistendo nello sviluppo contraddittorio, tanto drammatico da lasciare intravvedere una possibile catastrofe finale, della società industriale, fra la rinascita dell’utopismo che è il trionfo della ideologia allo stato puro e all’estremo opposto la dichiarazione della fine delle ideologie, che è il trionfo del puro tecnicismo.

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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    I chierici e i mandarini

    La migliore illustrazione di queste due figure di intellettuale e dei problemi diversi che l’una e l’altra suggeriscono mi viene offerta da due libri fondamentali, o che io credo fondamentali, nella storia del problema: il Tradimento dei chierici di Benda e I nuovi mandarini di Chomsky. Sono due libri polemici: l’oggetto della polemica è in entrambi i casi il comportamento di un certo ceto di intellettuali in una determinata circostanza storica. Ma gli intellettuali traditori di cui parla Benda sono degli ideologi (in particolare, com’è ben noto, i dottrinari fanatici che hanno dato vita all’Action française, e che hanno messo la loro intelligenza al servizio di passioni terrestri, come la patria, la nazione, la volontà di potenza dello Stato). Gli intellettuali cui si riferisce Chomsky sono degli esperti, in particolare sono scienziati e sociologi che hanno dato il loro contributo di competenti (o di presunti tali) alla prosecuzione ed all’inasprimento della guerra del Viet Nam, accolta come guerra liberatrice, civilizzatrice o comunque necessaria alla sopravvivenza dello Stato. I primi sono soprattutto umanisti, manipolatori di idee, i secondi sono soprattutto scienziati, manipolatori di dati. (Alla differenza fra i due tipi di intellettuali corrisponde abbastanza bene la distinzione fra le due culture ed il diverso modo con cui le due culture possono essere adoperate in modo distorto).
    Nulla rivela meglio la differenza fra i due tipi di imputati che l’accusa diversa che Benda e Chomsky muovono rispettivamente agli uni ed agli altri. I chierici di Benda sono accusati di essere venuti meno ai principi che dovrebbero ispirare l’azione del chierico, di aver scambiato i principi della giustizia e della verità con l’utilità della patria o della fazione, di aver tradito la loro missione in quanto sono diventati adoratori di falsi principi. Gli esperti di Chomsky sono accusati di non aver rispettato la regola fondamentale dell’agire razionale secondo lo scopo, che è quello di provvedere l’uomo di azione di mezzi adeguati al risultato: la loro scienza non è servita ai nobili fini per i quali era stata richiesta, ma a fini perfettamente opposti, di distruzione e di morte (non è neppure servita allo scopo meramente politico della vittoria, scopo che potrebbe essere giustificato dal punto di vista della ragion di Stato). La diversità della accusa dipende dal fatto che gli ideologi, che hanno a che fare con i principi, e gli esperti, che hanno a che fare con le conseguenze utili, ubbidiscono o dovrebbero ubbidire a due etiche diverse, gli uni all’etica della buona intenzione, gli altri all’etica della responsabilità. Il dovere dei primi è di essere fedeli a certi principi, costi quel che costi; il dovere dei secondi è di proporre mezzi adeguati al fine, e, quindi di tener conto delle conseguenze che possono derivare dai mezzi proposti. Se i primi vengono meno al loro dovere sono cattivi ideologi, se vengono meno i secondi sono tecnici irresponsabili. Il giudizio sui primi è di carattere puramente etico (e infatti il libro di Benda è stato accusato di essere un’astrattezza un po’ gelida); il giudizio sui secondi è prammatico (o per lo meno è dato in base ad un’etica utilitaristica).
    Una delle manifestazioni caratteristiche degli intellettuali come gruppo a se stante è, come tutti sanno, i manifesti. L’intellettuale che non abbia firmato un manifesto a torto o a ragione, sponte o spinte, alzi la mano. Ebbene, chi un giorno volesse fare la storia dei manifesti, a cominciare dal primo della serie, quello in occasione dell’Affaire Dreyfus, si accorgerebbe che si possono dividere in manifesti ideologici e manifesti di esperti. Anzi, ho l’impressione che un tempo fossero prerogativa dei primi, ed ora, dopo i misfatti del progresso tecnico che nessuno può più ignorare, sono passati ai secondi. Il Manifesto degli intellettuali antifascisti, scritto da Croce (come del resto quello degli intellettuali fascisti scritto da Gentile), era un tipico manifesto ideologico. I vari manifesti dei fisici contro il pericolo della proliferazione delle armi atomiche, i vari manifesti ecologici emessi da gruppi di scienziati che si sentono responsabili delle conseguenze distruttive dell’uso eticamente incontrollato della scienza, sono documenti che traggono la loro forza dall’essere sottoscritti da esperti. Se li si esamina attentamente, ci si accorgerà che i primi fondano la loro capacità persuasiva sul richiamo a valori (il che è proprio di un’etica della pura intenzione), i secondi richiamando l’attenzione sulle conseguenze (il che è proprio di un’etica della responsabilità).

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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Tradimento e diserzione

    Comune all’atto di accusa di Benda contro i chierici traditori e di Chomsky contro gli esperti irresponsabili era comunque la convinzione che la sfera della cultura ove si muovono gli intellettuali e la sfera della politica sono diverse, e che svolge male il proprio compito l’intellettuale che, mettendo il proprio sapere al servizio dei detentori del potere, serve non la giustizia ma la potenza. Beninteso, l’accusa poteva essere ritorta. Con un altro termine del linguaggio militare (anche questo uso di metafore militari per rappresentare gli atteggiamenti degli intellettuali di fronte al potere sarebbe da analizzare) gli accusati di tradimento accusano a loro volta gli accusatori di diserzione. La risposta più dura al saggio di Benda venne da Paul Nizan con i Cani da guardia apparso nel 1932. Nizan irrideva ai puri filosofi per il loro spiritualismo insulso, per il loro umanitarismo falso-sublime, per quella filosofia edulcorata, che Hegel avrebbe chiamata la “pappa del cuore”, che cela la realtà della miseria, dello sfruttamento, della desolazione, stendendovi sopra una nube di elevati pensieri. A proposito di Benda scriveva: “il signor Benda non può fare a meno di una certa ipocrisia. Più scaltro dei suoi confratelli, non nega, come essi fanno, di avere cessato di interessarsi degli uomini, ma insegna che il modo migliore per servirli è proprio quello di ‘disertarli’”[1].
    Riteniamo questi due termini: tradimento e diserzione. Gran parte della controversia sull’etica degli intellettuali si muove fra l’uno e l’altro. Tradire significa passare al nemico; disertare significa abbandonare l’amico. Più grave certo il tradimento della diserzione; ma anche la diserzione è una colpa. Altro è servire la parte sbagliata (i potenti anziché i puri di cuore); altro non servire la parte giusta (per Nizan gli oppressi, i diseredati, gli afflitti). Ma allora l’intellettuale non può sfuggire all’una o all’altra di queste due condanne: se parteggia tradisce, se non parteggia diserta. Ma è proprio vero? Seguiamo ancora per un momento la storia esemplare di questi due chierici in polemica fra loro. Nizan, comunista fervente e combattivo quando scrisse il libello, abbandonò il partito furibondo al momento del patto russo-sovietico e fu accusato dai suoi ex- compagni di essere una spia del nemico (nell’universo staliniano non c’era posto che per il servo o la spia, due diverse forme di annientamento dell’uomo). Isolato e abbandonato, morì al fronte a 35 anni; prima di morire scrisse parole che avrebbero potuto essere scritte da Benda: “Coi tempi che corrono, non riconosco che una virtù: non il coraggio, né la volontà di martirio, né l’abnegazione, né l’accecamento, ma solo la volontà di capire. Il solo onore che ci resta è quello dell’intelletto”[2]. D’altra parte Benda (che fra l’altro fu uno dei firmatari del manifesto di Sartre per la riabilitazione di Nizan, dopo la liberazione), nonostante la sua difesa del chierico disinteressato ed incontaminato, non era mai stato nella torre d’avorio, e tanto meno era stato impassibile di fronte all’avanzata del fascismo e del nazismo. Prese parte ai movimenti di intellettuali in favore della Repubblica spagnola, difese sempre con forza la democrazia (ricordo il suo libro La democrazia alla prova, tradotto in Italia subito dopo la guerra), considerata come l’unica forma politica per la quale il chierico può parteggiare senza venir meno alla propria missione. Ma allora anche Benda, come Nizan, è stato incoerente? Questi, dopo aver bollato di infamia la diserzione, giunge, alla fine della vita, ad esaltare la volontà di capire ed a prendere le difese dell’onore dell’intelletto. Quegli, dopo aver coperto del proprio disprezzo i chierici partigiani, parteggia, quando lo crede necessario, egli pure. Disertore: ma si tratta di sapere da quale battaglia. Cane da guardia: ma si tratta di sapere: a guardia di chi?
    Mi sono soffermato su questo caso esemplare per mostrare la complessità del problema e per invitare coloro che parlano del “ruolo” degli intellettuali a evitare le semplificazioni, che nascono da umore polemico piuttosto che da una pacata riflessione. Parteggiare o non parteggiare? A me pare evidente che Benda fece benissimo a parteggiare quando prese la parti della democrazia contro il fascismo; così come fece benissimo Nizan a non parteggiare quando si rese conto che l’Unione Sovietica conduceva una politica di potere come tutti gli altri Stati. Si tratta di una contraddizione apparente: parteggiare non è un tradimento quando la parte da cui mi metto è quella che realizza meglio i principi in cui credo; non parteggiare non è un diserzione quando nessuna delle parti li realizza. Aveva perfettamente ragione Giaime Pintor a parteggiare nel senso più pieno della parola, cioè a farsi partigiano, quando aveva ritenuto di non avere altra scelta, perché la posta in gioco era o la fine del nazismo o la fine della civiltà. Diceva che le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti ed i pittori purché poeti e pittori sappiano quale deve essere la loro parte. Ma qual è questa parte? Chi decide quale sia? Decide lo Stato, la mia chiesa, la mia setta, il mio partito, o devo decidere io e assumermi tutte le responsabilità della mia scelta, compresa quella di essere considerato un traditore o un disertore?

    (...)


    [1] P. Nizan, I cani da guardia, con presentazione di R. Rossanda, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 49.

    [2] Dalla presentazione di R. Rossanda, cit., p. XXIV.
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    L’autonomia relativa della cultura

    Sono domande cui nessuno può dare una risposta definitiva una volta per sempre. Ripeto, la risposta dipende dalle circostanze e dalla interpretazione che ognuno dà delle medesime circostanze. Se io dovessi designare un modello ideale di condotta, direi che la condotta dell’intellettuale dovrebbe essere contrassegnata da una forte volontà di partecipare alle lotte politiche e sociali del proprio tempo che non gli permetta di estraniarsi tanto da non sentire più quello che Hegel chiamava “l’alto frastuono della storia del mondo”, ma nello stesso tempo da quel distacco critico che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte sino ad essere legato mani e piedi a una parola d’ordine. Indipendenza ma non indifferenza. Il libro di Benda comincia con il riportare a guisa di apologo l’aneddoto raccontato da Tolstoi, dell’ufficiale che vedendo un altro ufficiale malmenare un soldato gli dice: “Ma non hai letto il Vangelo?” e l’altro gli risponde: “Ma tu non hai letto il regolamento militare?” Ecco: essere tanto dentro al mondo da rendersi conto che sono necessari i regolamenti militari, ma non così dentro da aver dimenticato che i regolamenti militari non bastano. Guai se l’umanità fosse retta soltanto dai regolamenti militari. Il ricordare che non bastano i regolamenti, non è questo il compito degli intellettuali?
    Volendo ridefinire questo modello ideale con una formula (con tutti i limiti inerenti a una formula), mi pare si potrebbe parlare di “autonomia relativa della cultura rispetto alla politica”. Uso questa espressione più o meno nello stesso senso in cui si parla oggi insistentemente di autonomia relativa della politica. Oggi si parla di autonomia relativa della politica rispetto alla sfera dei rapporti economici per affermare che la sfera del politico non si può né si deve ridurre, sic et simpliciter, contrariamente al marxismo volgare, all’economico. Così, parlando di autonomia relativa della cultura, intendo dire che la cultura (nel senso più ampio, nel senso cioè della sfera in cui si formano le ideologie e si producono le conoscenze) non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico. La riduzione di tutte le sfere in cui si svolge la vita dell’uomo in società a politica, ovvero la politicizzazione integrale dell’uomo, la scomparsa di ogni differenza tra il politico e – come si dice oggi – il “personale”, è la quintessenza del totalitarismo. Non si tratta di respingere la politica (è ciò che ho chiamato la non indifferenza), ma si tratta di non esaltarla sino al punto da cantare: “Torto o ragione è pur sempre la mia patria” o, che è lo stesso, “Torto a ragione è pur sempre il mio partito” (o peggio ancora la mia setta). Non vedo alcune differenza fra il dire “Tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato” e dire “Tutto nel partito, nulla fuori del partito, nulla contro il partito” soprattutto quando un partito è diventato Stato.
    Può darsi che sia questa la visione di un non politico, quale io sono (ma non politico non significa apolitico e tanto meno politofobo: il sedicente apolitico, il se-vantante politofobo, è sempre un reazionario), ma è una visione confortata dall’autorità di una lunga tradizione di pensiero e dall’esperienza storica. Hegel, cui si attribuisce, del resto a ragione, la dottrina dell’eticità dello Stato, poneva al di là dello spirito oggettivo, che culmina nello Stato, lo spirito assoluto, entro cui si manifestano e si svolgono i tre momenti più alti dello spirito umano, l’arte, la religione e la filosofia. Quanto alla lezione della storia, una delle poche cose su cui sarei disposto a mettere la mano sul fuoco, tanto mi pare certa e continuamente verificata, è che la politica è la sfera dei rapporti umani in cui si esercita la volontà di potenza, anche se coloro che la esercitano credono che la loro potenza, non quella degli altri, sia a fin di bene. Già, ma il fatto che ogni parte politica ritenga che la potenza che essa serve sia a fin di bene e quella dell’avversario a fin di male – pensate alla proclamazione degli scopi di guerra dei diversi contendenti o alla proclamazione degli scopi di lotta rispettivamente dei rivoluzionari e dei controrivoluzionari -, ci dovrebbe mettere in sospetto. Non si tratta, ripeto, di respingere la politica, ma si tratta, se mi è permessa questa espressione, di trascenderla continuamente, pur riconoscendone la funzione indispensabile. Le idee senza forza, lo so, sono fantasmi. Ma anche i fantasmi hanno talora la loro forza. “Un fantasma di aggira per l’Europa”: chi lo ha dimenticato? E perché non ricordare quel re barbaro che sul letto di morte continuava a ripetere: “Ci sono cinquanta giusti che mi impediscono di dormire”? La forza è tanto necessaria che senza quel processo di monopolizzazione della forza in cui consiste lo Stato, le società umane, almeno sino ad ora, non potrebbero sopravvivere. Ma l’unico monopolio che spetta allo Stato è il monopolio della forza (è sempre meglio una sola forza pubblica che tante forze private in contrasto fra loro). Il primo compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità.

    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Lavoro intellettuale e lavoro politico

    A favore dell’autonomia relativa della cultura si possono addurre alcuni argomenti. Il primo riguarda gli stessi soggetti dell’attività culturale, per l’appunto gli intellettuali. Checché se ne dica, gli intellettuali costituiscono sinora, nella nostre società caratterizzate dalla divisione del lavoro, un gruppo con caratteristiche ben definite di persone che si riconoscono fra di loro anche quando si insultano, e parlano soprattutto le une con le altre anche quando presumono o pretendono di parlare al cosiddetto pubblico. Hanno problemi comuni che li contraddistinguono: penso, per esempio, a una discussione recente che ha fatto scrivere tanti articoli (non tutti chiari, a dire il vero) sul modo di scrivere chiaro. Non escludo che l’intellettuale come individuo a sé stante, con le sue caratteristiche e con i suoi privilegi, sia destinato a scomparire, in una società in cui vengano meno le forme più aberranti di divisione del lavoro, e tutti sappiamo scrivere e scrivere in modo chiaro. Ma ora esistono e parlano “tanto di sé” (e fanno parlare di sé, aiutati dalla loquacità incontenibile delle comunicazioni di massa). E non fanno che interrogarsi sul proprio “ruolo”, attraverso una serie di atteggiamenti che vanno dall’autocommiserazione all’autoflagellazione, dall’autoesaltazione all’autodistruzione. Vi sono anche coloro che proclamano il suicidio dell’intellettuale: in un momento in cui dobbiamo ad un pugno di intellettuali le uniche vibrazioni che scuotono l’universo sovietico, una dichiarazione di suicidio dell’intellettuale, che dovrebbe sacrificarsi sull’altare del dio movimento o del dio partito o del dio massa indifferenziata, è o insensata o sinistra. Prepara i gulag del futuro.
    Constato un fatto: nelle nostre società gli intellettuali, come ceto che ha o si attribuisce un proprio ruolo, esistono. Ed esistono proprio in quanto, almeno nella maggioranza dei casi, non s’identificano tout court con la classe politica anche quando dedicano la maggior parte della loro attività allo studio e all’analisi di problemi strettamente connessi con la sfera politica, e anche se vi sono casi in cui vi è perfetta identificazione nella stessa persona dell’intellettuale e del politico. Che sia desiderabile la fine di questa separazione fra intellettuale e politico è un altro discorso. Nella storia delle riflessioni sul problema del rapporto fra intellettuali e politica non è nuova la figura del filosofo re, cui corrisponde quella uguale e contraria del re filosofo (che fu propria del dispotismo illuminato). Oggi questa separazione è un fatto, tanto più evidente e difficilmente modificabile da quando esiste e sino a quando esisterà la figura, per ora tutt’altro che declinante, del politico per professione, che non può provocare la sopravvivenza al proprio fianco e quasi di riflesso dell’intellettuale per professione.
    Il secondo argomento a favore dell’autonomia relativa della cultura si può trarre da un confronto anche questo puramente fattuale (purché i fatti siano osservati con onestà e senza preconcetti) fra il mondo delle idee ed il mondo delle azioni politiche, in una condizione di libertà d’opinione, e quindi di consenso e di dissenso. Il primo è molto più vario, articolato, complesso, differenziato, problematico del secondo. La spiegazione di questa differenza è molto semplice: il compito dell’intellettuale è di agitare delle idee, sollevare problemi, elaborare programmi o anche soltanto teorie generali; il compito del politico è di prendere delle decisioni. Ogni decisione implica una scelta fra diverse possibilità, e ogni scelta è necessariamente una limitazione, è insieme una affermazione e una negazione. Il compito del creatore (o manipolatore) di idee è di persuadere o dissuadere, di incoraggiare o di scoraggiare, di esprimere giudizi, di dare consigli, di fare proposte, di indurre le persone cui si rivolge a farsi un’opinione sulle cose. Il politico ha il compito di trarre da questo universo di stimoli diversi, talora opposti, contraddittori, una linea di azione. La pratica ha le sue ragioni che la teoria può anche non conoscere. Anche la teoria più perfetta, completa e coerente per trasformarsi in una decisione deve essere adattata alle circostanze. Non parliamo delle idee multiformi, proteiformi, fra loro difformi, che ogni giorno escono a migliaia dalle comunicazioni di massa. Sono tali da neutralizzarsi a vicenda e da indurre chi le volesse ascoltare alla paralisi, da impedire ogni sorta di azione. Una delle metafore più correnti del linguaggio politico attuale, del cosiddetto “sinistrese”, è quella dei “nodi da sciogliere”. Lungo la corda che dovrebbe farci uscire dal labirinto, incappiamo continuamente in nodi. Ebbene: l’intellettuale è colui che può permettersi il lusso di esercitare la propria pazienza ed il proprio acume per scioglierli. Ma il politico è costretto qualche volta a tagliarli. Rispetto a questo divario non c’è differenza fra il caso dell’ideologo e quello dell’esperto. Le ideologie sono sempre delle nebulose formate da un pulviscolo di idee di cui non è facile definire la forma e la sostanza. Possono ispirare, magari guidare, l’azione ma non la determinano mai compiutamente. Ciò che spesso scambiamo per ideologie portanti, traenti, non sono altro che derivazioni nel senso paretiano della parola, cioè giustificazioni postume di un’azione già decisa. Le conoscenze fornite dall’esperto sono o dovrebbero essere meno nebulose. Ma non c’è problema, anche circoscritto, per la soluzione del quale non vengano affacciate diverse proposte, entro le quali si dovrà pure scegliere quando si voglia scendere dal cielo delle idee alla terra dei fatti.


    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Un rapporto che si inverte

    Ho detto che questo accade in condizioni di libertà. Il problema che ci interessa è il problema del rapporto fra intellettuali e politica in una società libera. Questa non perfetta corrispondenza fra sfera delle idee e sfera delle azioni che io ho addotto come prova della irriducibilità della cultura alla politica, e quindi della autonomia relativa della cultura, esiste in una società relativamente libera. Dove vi è perfetta corrispondenza fra la direzione politica e la ideologia, oppure dove l’esperto è chiamato ad offrire i propri servizi per una soluzione già determinata in anticipo, siamo certi che ci troviamo di fronte ad una società non libera, della quale uno dei connotati più caratteristici è il primato della politica sulla cultura, la riduzione totale della sfera dove si svolgono le battaglie ideali alla volontà di dominio di chi detiene il potere, con la conseguente riduzione degli ideologi a indottrinatori e degli esperti a mandarini.
    Con questo non voglio affatto negare che in una società dove è garantita la libertà d’opinione l’intellettuale non sia sottoposto a condizionamenti. Non vi sono soltanto i condizionamenti che provengono dal potere politico. E del resto nessuno può vivere nel vuoto. Ciascuno è condizionato a suo modo. Ma vi deve pur essere una differenza fra il condizionamento che proviene dalle varie fonti del potere sociale e quello che proviene dall’unica fonte di un potere politico monocratico, se il primo permette la formazione di opinioni diverse, il secondo no. A me pare che questa differenza significhi che tutti siamo condizionati, ma c’è condizionamento e condizionamento. O mi sbaglio? Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: non c’è peggior condizionato di chi affermando che tutti sono condizionati allo stesso modo crede in una società in cui tutti saranno liberi. (Di questa società futura mi vien fatto di pensare talvolta che sia l’antitesi di quella cui mirava Rousseau. Il quale diceva che ciascuno, obbligandosi verso tutti, sarebbe stato più libero di prima. La società di certi ideologi potrebbe essere definita al contrario come quella in cui ciascuno una volta liberato da tutti sarà più schiavo di prima).
    Ad ogni modo l’argomento più forte, quello decisivo, per sostenere e difendere l’esistenza dell’intellettuale come personaggio che forma, insieme con altri suoi simili (anche se molto dissimili nelle prese di posizione rispettive), un gruppo a se stante, è questo stesso convegno, che fra l’altro succede ad altri convegni analoghi e s’inserisce in un dibattito da qualche tempo più acceso che mai. Un convegno sugli intellettuali e i partiti presuppone che al di là dei partiti, che oltretutto sono diretti da intellettuali, ci siano intellettuali che non sono direttamente coinvolti con i partiti, e non sono coinvolti perché svolgono una funzione che non è riducibile a quella dei partiti. Del resto non passa giorno che non appaia su qualche giornale un appello o un manifesto di persone che si qualificano in quanto firmatari di quell’appello o di quel manifesto, come intellettuali (questi appelli o manifesti sono per definizione azioni da intellettuali, da intellettuali in quanto tali, tanto è vero che la loro caratteristica essenziale è proprio quella di raccogliere firme di persone appartenenti a gruppi politici diversi che si ritrovano insieme per sottoscrivere quella protesta perché si riconoscono come intellettuali al di là della loro appartenenza politica o partitica). Semmai, se di un mutamento o di una novità oggi si può parlare (parlo sempre malvolentieri di novità nelle cose della politica perché là dove la memoria è corta sembra nuovo quello che è semplicemente il vecchio di cui si è perduto il ricordo), questa consiste in ciò che sinora sono stati gli intellettuali che con i loro manifesti o appelli si sono rivolti alle forze politiche, ora sono le forze politiche che si rivolgono insistentemente agli intellettuali. Una rivincita? Non voglio porre la questione in questi termini. Ancora una volta constato un fatto: un fatto che porta acqua al mulino della tesi che gli intellettuali esistono come gruppo indipendente e contano, o si crede che contino, nella sfera propria della azione politica, che è quella che spetta propriamente ai partiti. Sono gli stessi partiti che lo riconoscono.

    (...)
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    Predefinito Re: Bobbio - Gli Intellettuali e il potere (1977)

    Spirito laico e area socialista

    A questo punto si apre il problema del tipo di rapporto che esiste o meglio dovrebbe esistere fra gli intellettuali e i partiti. Anche questo problema non può avere una risposta univoca. Viviamo fortunatamente ancora in un regime di libertà d’opinione: ogni partito faccia le proposte che crede più conformi alla propria storia e alla propria ideologia e gli intellettuali facciano le loro scelte. Ma poiché qui siamo stati invitati dal Partito socialista, la proposta specifica, quella che dovrebbe essere discussa, è quella che riguarda la politica culturale del partito socialista.
    Come ho già avuto occasione di dire molte volte, ritengo che nel nostro Paese gli intellettuali che appartengono a quella che abitualmente si chiama “area socialista” siano molti. La ragione per cui sono molti è che il Partito socialista è considerato un partito laico, o meglio l’area socialista viene considerata come l’area della sinistra laica. E la cultura italiana è, checché se ne dica, una cultura prevalentemente laica. Oggi di fronte alla presenza di soli due grandi partiti, di cui uno si richiama al marxismo e l’altro al cristianesimo, si va dicendo che la cultura laica è in declino. Ma così dicendo si commette l’errore di trasferire il significato di “laico” che vale in politica al significato di “laico” che vale nella storia del pensiero. Nella politica italiana si parla di partiti laici per indicare i partiti piccoli che stanno in mezzo, quasi soffocati, tra due colossi. Ma quando si parla di “spirito laico” nella storia del pensiero si parla di tutt’altro, di una cosa ben più importante, che mostra quanto sia ristretto e riduttivo l’uso di “laico” in politica. Per “spirito laico” (espressione che io preferisco a quello di “cultura laica”) si intende l’atteggiamento mentale e morale da cui è nato il mondo moderno, le filosofie mondane, la scienza volta al dominio della natura, l’idea del progresso attraverso il sapere e la diffusione dei lumi, e soprattutto l’idea della tolleranza delle diverse fedi, tra cui anche le diverse fedi politiche.
    Attraverso queste idee generali che si sono tradotte in pratiche istituzionali di cui non abbiamo dimenticato i benefici, lo spirito laico ha permeato tutta la società moderna e civile. Vi rendono omaggio le carte dei diritti che costituiscono la base irrinunciabile degli Stati in cui preferiamo vivere. Vi si oppongono tutte le forme di indottrinamento e di spietata negazione del dissenso che caratterizzano i regimi in cui non vorremmo ricadere. Preferisco parlare di spirito laico piuttosto che di cultura laica. Se per cultura laica si dovesse intendere una cultura che, come i partiti laici, sta in mezzo fra marxismo e cristianesimo, una cultura di queste genere non esiste. O per meglio dire tra marxismo e cristianesimo, intesi come due poli, ci stanno molte cose, tanti altri “ismi”, come idealismo, positivismo, pragmatismo, e via enumerando. Al contrario, se per spirito laico si intende lo spirito critico contro lo spirito dogmatico, non vedo alcuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di marxisti laici accanto a marxisti rigidi, di cattolici laici accanto a cattolici settari. In questo senso, che è poi l’unico senso storicamente corretto, ho affermato che la cultura laica è tuttora dominante in Italia (e voglio crederlo sino a prova contraria).
    Ripeto: gli intellettuali dell’area socialista sono molti. Ma quanti siano nessuno lo sa. Nessuno lo sa perché non sono organizzati. Naturalmente qualcuno potrebbe sostenere che non sono organizzati perché sono inorganizzabili, e non sono organizzabili perché per natura sono disorganici. Direi che più che disorganici sono dispersi, e sono dispersi perché forse non hanno trovato sinora nel partito, nelle iniziative culturali del partito, una ragione sufficiente per trovarsi insieme (anzi, hanno spesso trovato in iniziative contrastanti dello stesso partito una ragione di più per disperdersi).
    Beninteso, quando dico che dovrebbero essere organizzati, non voglio dire che debbano essere trasformati in intellettuali organici nel senso stretto ed angusto della parola. Sulla categoria gramsciana degli intellettuali organici ci sarebbero tante cose da dire (oltre quelle, moltissime, che sono già state dette). In un certo senso, che era in parte anche il senso gramsciano, tutti quanti, per il fatto stesso di vivere in una società alle cui lotte partecipiamo, siamo organici, nel senso che siamo portatori di certi valori contro altri, difendiamo certi interessi contro altri (stiamo attenti che quando crediamo di difendere soltanto gli interessi degli intellettuali, difendiamo in realtà un certo tipo di società in cui gli intellettuali godono di certi diritti e magari anche di certi privilegi). Mi pare chiaro che secondo Gramsci anche gli intellettuali tradizionali sono stati a loro volta organici di classi ora in declino: sono ex-organici, ora non più organici unicamente perché la società nella sua evoluzione li ha messi a poco a poco fuori gioco. Disorganico in questo senso può essere considerato soltanto l’intellettuale che rifiuta totalmente il mondo della politica, si chiude sdegnosamente e rabbiosamente, come ha fatto recentemente qualcuno dei “nuovi filosofi”, nella propria solitudine. (Sono parole di Bernard-Henri Lavy: “Non ci restano, contro il processo verso la barbarie, che le armi della nostra lingua e il luogo della nostra dimora, le armi dei nostri musei e il luogo della nostra solitudine. Testimoniare l’indicibile e ritardare l’orrore, salvare il salvabile e rifiutare l’intollerabile: noi non rifaremo più il mondo, ma almeno possiamo vegliare a che non si disfaccia…”)[1]. Peraltro, se per intellettuale organico si intende, in un senso angusto e peggiorativo, l’intellettuale che, anziché chiudersi nel proprio isolamento, si chiude nella prigione non meno isolante di una ideologia dogmaticamente assunta e pedissequamente servita, la distinzione fra intellettuali organici e disorganici diventa necessaria. Ma bisogna anche riconoscere che oggi questa figura dell’intellettuale organico nel senso angusto delle parole è in declino. Nessuno ci crede più sul serio. A me pare che la differenza oggi corra, piuttosto che fra intellettuali organici e non organici, fra intellettuali organizzati e da organizzare.

    (...)


    [1] B. H. Levy, La barbarie à visage humain, Paris, Grasset, 1977, p. 223.
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