di Norberto Bobbio – “Mondoperaio”, novembre 1977, pp. 63-72; poi in N. Bobbio, “Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea”, Carocci, Roma 1993 (2001), pp. 113-133.
Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta da Norberto Bobbio al convegno sul tema “I partiti e la cultura” svoltosi a Milano il 28 e 29 ottobre [1977] per iniziativa della Sezione cultura della Direzione del PSI e del Club Turati.
La condotta dell’intellettuale dovrebbe essere contrassegnata da una forte volontà di partecipare alle lotte politiche e sociali del proprio tempo che non gli permetta di estraniarsi tanto da non sentire più quello che Hegel chiamava “l’alto frastuono della storia del mondo”, ma nello stesso tempo da quel distacco critico che gli impedisca di identificarsi completamente con una parte, sino ad essere legato mani e piedi a una parola d’ordine. Volendo definire questo modello ideale con una formula, si può parlare di “autonomia relativa della cultura rispetto alla politica”. La riduzione a politica di tutte le sfere in cui si svolge la vita dell’uomo in società, ovvero la politicizzazione integrale dell’uomo, la scomparsa di ogni differenza fra il politico e – come si dice oggi – il “personale”, è la quintessenza del totalitarismo.
Di fronte alla perduta credibilità del cosiddetto “socialismo reale”, il socialismo è da inventare. Bisogna ritornare ai princìpi. Ma il ritorno ai princìpi non basta. Occorre fornire gli strumenti necessari per attuarli in un mondo sempre più complicato di fronte al quale ogni semplificazione è un inganno, il puro rifiuto è un vantaggio assicurato all’avversario che si vorrebbe abbattere, l’evasione nel regno di utopia è un tradimento. È un compito immenso e magnifico. Mai come ora, di fronte a una società che corre verso la propria autodistruzione, che sembra affascinata dal desiderio di morte, dobbiamo fare ricorso alla intelligenza creatrice.
Nell’affrontare ancora una volta il tema degli intellettuali, e in modo particolare il tema del rapporto fra intellettuali e politica, mi pare di essere come quel bambino che gettando un secchiello d’acqua nel mare credeva di farne aumentare il livello. Rispetto all’oceano degli scritti sul tema, la mia relazione è un secchiello. Cominciandone la stesura, dopo essermi costruito per mio uso e consumo una schema degli argomenti da trattate, mi era venuto fatto da pensare che il titolo più adatto sarebbe stato quello che l’amico Giacomo Noventa aveva dato ironicamente ad una sua raccolta di scritti: Niente di nuovo. Del resto credo che lo scopo di una relazione introduttiva sia quello di ordinare il materiale: talora può accadere che mettendo in ordine delle schede, si riesca ad eliminare qualche doppione inutile ed a scartare qualche pezzo di carta che si era infilato nello schedario incidentalmente. Ricordate la storia di quel dotto che aveva studiato tutta la vita e sapeva tutte le risposte possibili, ma era disperato perché nessuno gli faceva delle domande. Io non ho nessuna risposta da dare ma mi auguro che dopo avermi ascoltato qualcuno si ponga delle domande.
Una delle ragioni per cui gli scritti sugli intellettuali, sulla loro funzione, sulla loro nascita e sul loro destino, sulla loro vita morte e miracoli, sono tanti che solo la memoria di un computer potentissimo potrebbe registrarli tutti, è che una delle funzioni principali degli intellettuali, se non la principale, è quella di scrivere. Naturale che scrivano su se stessi. Se non fossero loro ad occuparsi di se stessi, chi lo farebbe? E se altri scrivesse di loro non diventerebbe, per il solo fatto di scrivere, un intellettuale? Diventa un intellettuale anche se si mette a scrivere sugli intellettuali per dirne tutto il male possibile, anche nel caso in cui scriva – caso oggi non infrequente – che gli intellettuali non esistono, che sono un’invenzione di altri eccetera. È un destino cui non si sfugge, non appena ci si pone il problema di che cosa sono gli intellettuali. Chi si pone questo problema diventa, per il solo fatto di porselo, un intellettuale, cioè uno che non fa cose ma riflette sulle cose, non maneggia oggetti ma simboli, i cui strumenti di lavoro non solo macchine ma idee.
Proprio perché la congerie delle parole scritte o dette sugli intellettuali è enorme, ritengo che la prima cosa da farsi sia di delimitare il campo della discussione, stabilire di chi e su che cosa vogliamo discutere e in quale modo. Fra l’altro, questa delimitazione di campo è utile per evitare deplorevoli confusioni di piani di discorso che sono così frequenti fra coloro che parlano di questo argomento, e che dipendono spesso dal fatto che i parlanti non si intendono per l’appunto su chi, su che cosa stanno parlando e sul modo di parlarne.
Comincio dal modo. Vi sono vari modi di affrontare il problema degli intellettuali. I due discorsi più frequenti sono il sociologico e lo storico. La maggior parte degli scritti pubblicati in questi ultimi anni trattano degli intellettuali come classe o come gruppo e del rapporto della classe degli intellettuali con le altre classi, oppure fanno la storia di questa classe o gruppo in un certo periodo o in un certo Paese. Le celebri analisi di Gramsci, dalle quali è stato stimolato in Italia e non solo in Italia il dibattito sul tema, sono analisi in parte sociologiche (la distinzione fra intellettuali organici e intellettuali tradizionali appartiene a questo tipo di discorso), in parte storiche (si pensi ai vari frammenti dedicati alla storia degli intellettuali nei vari Paesi). Quando si dice che la riflessione sugli intellettuali è recente si dice una cosa solo in parte vera. Dalla Repubblica di Platone in poi, i filosofi si sono sempre occupati di che cosa fanno o debbono farei filosofi, cioè loro stessi, nella società. Ciò che è recente, e risale proprio al tempo in cui Gramsci scriveva le sue note dal carcere, è l’analisi sociologica dello strato degli intellettuali: basti pensare a Mannheim e a tutto il dibattito sugli intellettuali come classe dipendente o indipendente che ne è seguito, e che è tutt’altro che esaurito.
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