Il socialismo da inventare
Da organizzare: si tratta di sapere come. A questo punto bisognerebbe saper rispondere chiaramente alla domanda: gli intellettuali per che cosa? Per dare un inizio di risposta a questa domanda, ecco che mi pare utile riprendere la distinzione che ho fatta all’inizio fra ideologi ed esperti. Un partito ha bisogno di ideologi e di esperti. Ma le domande che rivolge agli uni sono diverse da quelle che rivolge agli altri. Mi pare evidente che la risposta alla domanda “quale socialismo?” è diversa dalla risposta alla domanda “quale università?”. Certo, entrambe le domande sono connesse, ma i tempi, pur prescindendo dai contenuti e quindi dalle competenze richieste, non sono gli stessi. Vi sono domande a tempi lunghi e domande a tempi brevi o anche brevissimi. Ci sono domande aperte, come certamente sono quelle che riguardano la cosiddetta crisi dei valori dominanti, e domande chiuse, come quelle che riguardano la crisi di questa o di quella istituzione. Ma un partito, per avere delle risposte giuste, dovrebbe saper interrogare, non dare direttive rigide, stimolare la domanda senza sapere in anticipo quale sarà la risposta, indicare la stella polare, provvedere anche la bussola, ma non prestabilire la rotta. Credo che per fare questo occorra un partito, come è, per sua tradizione, il Partito socialista, più spregiudicato rispetto ai testi sacri, meno addottrinato, meno legato a una matrice culturale da cui non ci si può tanto facilmente svincolare senza correre il rischio di essere accusati di revisionismo (accusa, fra l’altro, che io considero niente affatto infamante: chi non è disposto a rivedere le proprie posizioni è puramente e semplicemente uno che ha cessato di pensare con la propria testa), senza tanti “ismi”, che anche quando diventano ruderi sono difficili da rimuovere, ed ingombrano la strada.
Di fronte alla perduta credibilità del cosiddetto socialismo reale, il socialismo è da inventare, o meglio bisogna tornare ai principi (la stella polare che non avrebbe mai dovuto essere perduta di vista). In questi giorni sono stato preso da un moto di stupore (e insieme di amarezza per tutto il tempo perduto), quando ho letto, in un volumetto che raccoglie scritti del dissenso sovietico, un saggio di uno scrittore a me sconosciuto (che mi è venuto incontro come una lieta novella). In questo saggio si sostiene con ferma convinzione (con la convinzione che viene da una dura esperienza) che socialismo e democrazia sono inscindibili, con le stesse identiche parole che risuonano in questi ultimi tempi nei nostri dibattiti. Una frase fra tante: “Sotto il socialismo, la democrazia politica non è una semplice sovrastruttura politica, un’appendice che si possa anche lasciare da parte, ma è invece la base senza la quale la proprietà sociale in quanto essenza del socialismo non è più tale. Di qui: la democrazia autentica e il socialismo non si escludono a vicenda, come taluni si sforzano invano di dimostrare, ma al contrario si presuppongono reciprocamente. Contrariamente a un’opinione diffusa, si escludono invece l’un l’altro il socialismo e la dittatura”. E ancora: “Perché il socialismo sia socialismo, sono necessarie le istituzioni democratiche, che diano alla società, al popolo, garanzie contro la possibilità che a questo venga usurpato il diritto di disporre della sua proprietà, garanzie contro la trasformazione degli organismi rappresentativi in organismi che si pongano al di sopra del popolo e che lo dominino. Solo la completa democrazia può dare simili garanzie. Per conseguenza, dove questa non esiste, non può dirsi che esista il socialismo”[1].
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[1] P. Egorov, Che cosa è il comunismo democratico?, in AA. VV., Discorso e socialismo, con un saggio di V. Strada, Torino, Einaudi, 1977, p. 134 e p. 138.