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Discussione: Anglica catholica

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDI’ DI PADRE BROWN] “La croce azzurra”: la prima volta del sacerdote investigatore



    di Luca Fumagalli

    Inizia con questo articolo una nuova rubrica infrasettimanale dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo al seguente link: https://www.radiospada.org/2018/11/padre-brown-il-grande-sacerdote-investigatore-ideato-da-chesterton/

    Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto: http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/narrativa/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    La prima raccolta dedicata al famoso prete detective, L’innocenza di Padre Brown[1] (The Innocence of Father Brown, 1911), si apre con La croce azzurra (The Blue Cross), uno dei racconti più conosciuti ed emblematici di tutta la produzione chestertoniana, dallo stile effervescente, infarcito di arguzia e saturo di paradossi.

    Oltre a presentare per la prima volta la figura di Padre Brown e le sue peculiari risorse investigative, la storia è una piccola miniera di aforismi che rivelano il genio umano dello scrittore inglese. Un esempio su tutti è la toccante riflessione sulla possibilità del miracolo e sul valore dell’imprevisto, intuizioni che anticipano quelle espresse da Montale nei suoi versi migliori: «Il fatto più incredibile dei miracoli è che essi accadono veramente. Alcune nuvole in cielo si fondono veramente insieme e si trasformano in un occhio umano che guarda fisso. Un albero sorge nel paesaggio di un viaggio incerto nella forma precisa e complicata di un punto interrogativo. Io stesso ho visto entrambe queste cose in questi ultimi giorni. Così Nelson muore proprio al momento della vittoria; un uomo chiamato William uccide per puro caso un altro chiamato Williamson, il che sembra come una specie d’infanticidio. Insomma, c’è nella vita un elemento di magica coincidenza che la gente che fonda tutto sulla realtà normale può anche non rilevare mai. Come è stato magistralmente espresso nel paradosso di Poe, la saggezza deve pur fare i conti con l’imprevisto».

    Non mancano nemmeno considerazioni pungenti del tipo «Egli non era “una macchina che pensa”, perché questa è una frase stupida del fatalismo e materialismo moderno. Una macchina è tale appunto perché con può pensare»; oppure «I francesi elettrizzano il mondo non col dar vita a un paradosso, ma presentando semplicemente una verità di per se stessa evidente; e spingono una verità alle estreme conseguenze, come nella rivoluzione francese»; c’è pure spazio per un certo retrogusto lirico: «La gloria del cielo s’addensava e diveniva sempre più profonda attorno alla sublime volgarità dell’uomo».

    Tornando alla trama, i protagonisti de La croce azzurra sono tre, ed è forse parte del piglio paradossale di Chesterton la scelta di narrare la vicenda a partire dalla prospettiva angolare di quello che si può considerare il “minore”, ovvero Aristide Valentin (mentre Padre Brown e Flambueau faranno la loro comparsa praticamente solo nel finale). Valentin è il capo della polizia di Parigi, «uno dei più poderosi cervelli d’Europa», «il più famoso indagatore del mondo», ed è sulle tracce del famigerato Flambeau, il temutissimo ladro gentiluomo. Per quanto quest’ultimo sia scomparso da diversi anni – «ai suoi giorni migliori (intendo dire, naturalmente, i suoi giorni peggiori) era un personaggio monumentale e internazionale» – ora è tornato sulla scena con l’intenzione di rubare la preziosa croce azzurra, una reliquia d’argento adornata di pietre preziose che Padre Brown reca con sé per mostrarla ai confratelli riuniti a Londra in occasione del Congresso Eucaristico.



    I tre uomini non potrebbero essere più diversi: se Valentin – per cui «il criminale è l’artista creatore; l’investigatore il critico» – «era uno scettico nel severo stile francese e non poteva avere alcuna simpatia per i preti», Flambeau, «di statura gigantesca e di grande coraggio fisico» nonché «acrobata straordinario», nonostante i numerosi crimi commessi conserva un fondo di bonarietà: «Bisogna riconoscere, però, ch’egli usava questa sua fantastica forza fisica quasi sempre in tali scene incruente sebbene poco dignitose; i suoi veri delitti erano principalmente furti ingegnosi e su vasta scala. […] Però, caratteristica di molti dei suoi espedienti, era un’incredibile semplicità». Padre Brown, al contrario, sembra in apparenza non possedere alcuna dote eccezionale, nulla che sia paragonabile all’intuito di Valentin o alla furbizia di Flambeau. Anzi, la sua prima descrizione, filtrata dal giudizio (pregiudizio?) dell’investigatore francese, è un vero e proprio monumento alla mediocrità: «Era un prete cattolico-romano di statura bassissima, che veniva da un villaggio dell’Essex [Cobhole, “foro di pannocchia”, come è rivelato nel racconto successivo, Il giardino segreto ndr]. Quel pretucolo era proprio l’essenza delle pianure dell’Essex: aveva un viso rotondo e inespressivo come gnocchi di Norfolk, gli occhi incolori come il mare del Nord, e recava parecchi involti di carta scura, che non riusciva a tenere riuniti. Il Congresso Eucaristico aveva senza dubbio tratto fuori dalla morta gora locale molte di quelle creature, cieche e inutili come povere talpe dissotterrate. […] Ma gli potevano far compassione, specialmente quello che aveva davanti, che avrebbe destato la compassione di chiunque. Aveva un grosso ombrello malandato che gli cadeva di continuo; e pareva che non sapesse quale fosse la parte del biglietto da serbare per il ritorno». Qualche riga dopo Valentin lo definisce una «curiosa mescolanza di stupidità essexiana con la santa semplicità».

    Tuttavia, come recita l’adagio, mai giudicare dalle apparenze: difatti nel corso della storia Padre Brown si rivela poco alla volta per quello che realmente è, ossia un ometto perspicace, capace come pochi altri di cogliere la verità al di là delle menzogne. Tale talento è frutto delle lunghe ore passate al confessionale, il luogo perfetto per fare esperienza di tutto il male che l’uomo è in grado di commettere: «Non possiamo fare a meno di imparare, noi preti. La gente ci racconta queste cose». Ancora: «Non avete mai pensato che un uomo che non fa mai altro che ascoltare i peccati commessi dagli uomini, non ha probabilità di rimanere ignaro del male umano?». Padre Brown riesce a smascherare Flambeau – travestito da sacerdote e con lui a passeggio per le vie della città – e a evitare il furto della croce azzurra proprio mettendo in atto quei trucchi che furfanti e truffatori pentiti gli hanno confessato. Addirittura alcuni di questi sono sconosciuti persino al grande ladro: «Non importa, non importa che vi dica. Sono contento che non siete ancora sceso proprio in fondo alla china del male, altrimenti sapreste di che parlo».



    A convincere Padre Brown che sotto la talare del compagno si nasconda in realtà Flambeau è però un argomento religioso: «Voi attaccaste la ragione. Questa è cattiva teologia». Poco prima i due si erano trattenuti in una vivace discussione in cui Flambeau aveva sostenuto un approccio irrazionale alla Fede, cosa che naturalmente Padre Brown non poteva condividere. La sua replica è una breve ma brillante difesa della ragionevolezza del cristianesimo, con tanto di stoccata finale al povero ladro: «No, la ragione è sempre ragionevole, anche nell’ultimo limbo, anche al limite ultimo delle cose. So bene che si accusa la Chiesa di abbassare la religione, ma è proprio il contrario, invece. Sola, sulla terra, la Chiesa fa la ragione veramente suprema. Sola, sulla terra, la Chiesa afferma che Dio stesso è legato alla ragione […] La ragione e la giustizia comprendono in modo inscindibile anche le stelle più remote e solitarie. […] Ma non crediate che una così fantastica astronomia possa influire momentaneamente sulla ragione e sulla giustizia della condotta umana. Su pianure di opale, sotto declivi tagliati nella pura perla, trovereste ancora un cartello con la scritta: “Tu non devi rubare!”».

    Valentin è invece un devoto seguace della deduzione, profondamente francese nella sua intelligenza che è «specialmente e solamente intelligenza», e «tutti i suoi meravigliosi successi, che sembravano miracolosi, erano puro frutto e risultato di tenacissima logica e di chiaro e ragionevole pensiero». Ciononostante, anche al netto del suo ateismo, Valentin non è un bieco razionalista, non nutre una fiducia illimitata nella ragione: «Ma, appunto perché conosceva il valore della logica, ne sapeva anche i limiti. Come chi non conosce nulla di motori, può parlare di farli andare senza petrolio, così solo chi si intende di logica può sostenere di essere ragionevolmente logico senza saldi e incontestabili fondamenti». Non avendo alcuna pista sicura da battere, si affida quindi all’imprevisto – «Egli difendeva in modo rigorosamente logico questo suo illogico procedimento» – e grazie ai vari indizi disseminati lungo la via da Padre Brown, indizi pensati dal sacerdote pure per smascherare Flambeau, l’ispettore giunge infine ad acciuffare il ladro.

    La scena finale, che vede tutti e tre i protagonisti per la prima volta insieme, ha il sapore di un’ironica allegoria, quasi a voler mostrare l’ingiustizia (Flambeau) e la giustizia umana (Velentin) che si sottomettono alla verità e alla misericordiosa di Dio (Padre Brown): «Inchiniamoci entrambi al nostro maestro. E tutt’e due si scoprirono il capo per un momento davanti al piccolo prete dell’Essex, che cercava con occhi semichiusi il suo ombrello».

    [1] La traduzione targata Morganti del 2007 propone il titolo alternativo Il candore di Padre Brown.

  2. #152
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Il dottor Fischer a Ginevra”: il peccato, il potere e l’avidità secondo Graham Greene




    Per chi è avvezzo alla prosa del Greene più celebrato, quello delle spy stories o quello dei racconti a sfondo religioso, Il dottor Fischer a Ginevra ovvero la cena delle bombe (Doctor Fischer of Geneva or The bomb party) risulterà una lettura a dir poco spiazzante. Già all’epoca della pubblicazione, nel 1980, il breve romanzo raccolse pareri contrastanti, riuscendo persino complessa la sua collocazione entro i confini di un genere preciso: la storia, infatti, un sorta di apologo satirico e surreale sul potere che corrompe e sull’avidità, mischia con disinvoltura elementi del thriller a elementi tipici della fiaba, l’allegoria al passionale, la parabola al dramma, offrendo a chi legge diverse possibilità interpretative. Il libro, infarcito di richiami teologici, è attraversato da un humor nero che fa del grottesco e dell’urticante la sua cifra distintiva, evocando la medesima atmosfera che si respira in romanzi come Il caro estinto di Waugh o in pellicole quali Il dottor Stranamore di Kubrick. Vi è inoltre un tocco di inquietante mistero, un po’ ironico e un po’ sardonico, alla maniera del chestertoniano L’uomo che fu Giovedì.

    Il protagonista, che racconta i fatti ex post, è il cinquantenne Alfred Jones, impiegato in qualità di traduttore presso una fabbrica di cioccolato in Svizzera. Jones è un uomo rassegnato, ferito, incompleto sia moralmente che fisicamente: la moglie e la figlia che questa aveva in grembo sono morte entrambe vent’anni prima, mentre i suoi genitori sono rimasti uccisi durante il Blitz di Londra del 1940, la stessa notte in cui lui ha perso la mano sinistra prestando servizio come pompiere.



    Un giorno incontra in un bar Anna-Luise, una ragazza dolce e sensibile, di cui si innamora; lei ricambia contro ogni previsione, data la sua avvenenza e la considerevole differenza d’età. C’è però un problema: Anna-Luise è l’unica figlia del famigerato dottor Fischer di Ginevra, divenuto milionario grazie all’invenzione del Dentophil Bouquet, un dentifricio portentoso, capace di tenere a bada le infezioni causate dall’eccessivo consumo di cioccolata (la Svizzera è perfettamente efficiente pure nel curare da sé i mali che essa stessa provoca). Fischer è un uomo odioso, che disprezza tutto e tutti, figlia compresa. Sua moglie, Anna, è morta di dolore tempo prima, quando il marito l’ha costretta a separarsi dall’unico amico che condivideva con lei la passione per la musica (Fischer è incapace di apprezzarla, così come non sa apprezzare nessuna cosa bella). Le uniche persone con cui si intrattiene sono gli “scracconi” – soprannominati così, con manifesta storpiatura, da Anna-Luise – ovvero un campione eterogeneo della upper-class elvetica che comprende il signor Kips, un avvocato di fama internazionale, Monsieur Belmont, un consulente fiscale, la signora Montgomery, una ricca americana dai capelli azzurri, Richard Deane, famoso attore cinematografico troppo avvezzo all’alcol, e il Divissionaire Krueger, un ufficiale dell’esercito. Periodicamente gli “scracconi” si ritrovano nella splendida villa del dottore per prendere parte alla sue particolari cene, in cui, in cambio di un premio finale, gli ospiti sono costretti a subire continue umiliazioni da parte del padrone di casa, amante degli insulti e degli scherzi crudeli: «Si burla degli altri ma nessuno può burlarsi di lui. Ha il monopolio dello scherno».

    Dopo una breve frequentazione, Alfred e Anna-Luise decidono di sposarsi civilmente, senza prete né dottor Fischer. Il senso del profondo amore che li lega è sintetizzato dalla ragazza con parole analoghe a quelle utilizzate da Gesù nel Vangelo di Marco: «Sei il mio amante e mio padre, mio figlio e mia madre, sei l’intera famiglia… la sola famiglia che io voglia». Secondo Michael G. Brennan, «ancora una volta l’anziano Greene dipinge il matrimonio tra amanti come l’unico argine contro un mondo crudelmente indifferente e distruttivo», un’essenza marcia ben rappresentata dal padre di lei, campione della natura umana corrotta. Nelle sue vesti di anfitrione Fischer non è solo una parodia del Cristo dell’ultima cena, ma le sue grandi possibilità economiche lo fanno somigliare anche a una satanica inversione di Dio Padre; quando Alfred fa notare alla moglie che parla del proprio genitore come se fosse il Padreterno, lei si limita a rispondere: «La situazione è pressappoco questa». Qualche pagina dopo l’uomo ritorna col pensiero al dottore: «Senza dubbio avrebbe disprezzato anche Gesù Cristo perché era il figlio di un falegname, se il Nuovo Testamento non fosse divenuto con il tempo un così clamoroso successo commerciale».



    Nonostante le raccomandazioni di Anna-Luise – «E così, lasci che ti conduca in un luogo elevato e ti mostri tutti i regni del mondo» – Alfred finisce per divenire parte del giro degli “scracconi”, ma già dopo la prima cena se ne torna a casa disgustato: è troppo orgoglioso per poter sopportare gli insulti di un suocero che, in vena di confidenze, gli ha rivelato che le sue serate sono parte di un esperimento per dimostrare fino a che punto possa spingersi l’avidità dei ricchi. Tormentato da un «orgoglio infernale» simile a quello del Satana di Milton, Fischer arriva all’estremo di paragonarsi a Dio, o meglio, a un’immagine blasfema del Dio cristiano dal retrogusto manicheo: «Oh, non pensi nemmeno per un momento che io creda in Dio, non più di quanto credo nel demonio, ma ho sempre trovato la teologia un divertente gioco intellettuale» (esattamente come Greene). Quindi prosegue: «Bene, i credenti e i sentimentali dicono che è avido del nostro amore. Io preferisco pensare, a giudicare dal mondo, in teoria creato da lui, che possa essere soltanto avido della nostra umiliazione, e tale avidità come potrebbe mai esaurirsi? È senza fondo. Il mondo diviene sempre e sempre più orribile mentre egli continua a girare e girare le vite senza fine, sebbene ci faccia doni – altrimenti un suicidio universale gli impedirebbe di raggiungere il suo scopo – per alleviare le umiliazioni che subiamo. […] E io non voglio forse umiliare? E dicono che egli ci ha creato a sua immagine. Forse si è reso conto che è un pessimo artigiano ed è deluso dai risultati». Perché poi non rinunci a tentare Alfred è presto detto: «La signora Montgomery, Belmont, Kips, Deane, erano pressapoco come sono adesso, quando li conobbi. Ma lei l’avrò creata. Né più né meno come Dio creò Adamo».

    Fischer decide allora di organizzare un ultimo banchetto, ribattezzato “la cena delle bombe”, che si svolge nel giardino innevato della sua villa, una variante svizzera della terra di Narnia così com’è descritta ne Il leone, la strega e l’armadio, condannata dal male a un inverno perenne. Il ricevimento si risolve in una roulette russa, con gli ospiti che devono pescare il premio della serata – un cospicuo assegno da due milioni di franchi – da un barile di petardi: uno di questi, però, non contiene il premio ma una vera bomba. Sebbene Kips si rifiuti di stare al gioco, gli altri, accecati dall’avidità, si avventano sul barile. In realtà si tratta di un clamoroso scherzo, per giunta rovinato dall’istinto suicida di Alfred, desideroso solamente di ricongiungersi nell’aldilà con la sua Anna-Luise, da poco morta in un incidente sciistico. Al dottor Fischer, che non è riuscito a far cadere il genero in tentazione, non resta che togliersi la vita con un colpo di pistola: «Osservai il cadavere, e mi parve insignificante come un cane morto. Ecco, pensai, il mucchio di immondizia che avevo paragonato un tempo, nella mia mente, a Jehova e a Satana».



    L’epilogo vede uno sconfortato Alfred accontentarsi del ricordo della moglie di cui conserva gelosamente due istantanee e un biglietto da lei scritto, «reliquie come i frammenti di ossa che conservano nelle chiese cattoliche». La vita per lui ora non ha più alcuno scopo, è un succedersi di eventi fondamentalmente privi di significato: «Il male era morto come un cane, e perché il bene avrebbe dovuto avere più immortalità del male?». Ed è così, nel segno dell’amarezza, che si chiude il romanzo, da cui nel 1984 è stato tratto pure un film TV diretto da Michael Lindsay-Hogg – già regista dei videoclip dei Rolling Stones e di alcuni episodi della fortunata serie Brideshead Revisited – con l’attore James Mason nei panni del mefistofelico dottore.

    Valga come epigrafe conclusiva, a suggello della vorticosa avventura di Alfred, una sua riflessione sulla filosofia cristiana, brillante compendio del credo greeniano: «Sembra esserci una sorta di compiacimento orribile nella saggezza orientale. […] Un filosofo cinese [è] benestante, altamente stimato, in pace col mondo, e soprattutto al sicuro, a differenza del filosofo cristiano che prospera col pericolo e col dubbio. […] Preferisco Pascal: “Tutti sanno che la vista di gatti o topi, lo sgretolarsi di un tizzone, eccetera, possono scardinare la ragione”».

  3. #153
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Quante volte figliolo?”: un romanzo di David Lodge per capire l’attuale crisi della Chiesa



    In verità Quante volte figliolo? è una lettura poco consigliabile. Difatti il romanzo, pur essendo tecnicamente un “Catholic Novel”, ovvero, con buona approssimazione, un’opera narrativa che affronta esplicitamente temi legati alla Fede, è impregnato di una sensualità troppo ridondante ed esasperata (sebbene spesso impiegata con intento meramente satirico). Del resto l’autore, l’inglese David Lodge, non ha nulla del fedele ortodosso, men che meno del “tradizionalista”: lui stesso preferisce ambiguamente definirsi un «agnostico cattolico».

    Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1980, ha però almeno il pregio di descrivere lucidamente i drammatici cambiamenti avvenuti in seno alla Chiesa tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del XX secolo. Lodge regala al lettore una disamina certo cinica, a tratti spietata, di quello che era il credo cattolico prima del Concilio Vaticano II, ma allo stesso tempo è abilissimo nel mostrare i danni causati dal progressismo teologico, danni di cui lui stesso, essendo nato nel 1935, è stato testimone diretto. Anche questo è uno dei motivi per cui l’inglese sceglie di non nascondere la propria presenza dietro il testo, intervenendo spesso a commento degli accadimenti e svelando i meccanismi che determinano le scelte creative del romanziere. Le sue costanti sottolineature rimangono preziose pure per cogliere il filo rosso della rivoluzione ecclesiastica che si dipana attraverso le storie confuse dei vari personaggi.



    Quante volte figliolo? è un’opera corale che tratta le vicende di un gruppo di amici cattolici a partire dal 1952, anno che coincide con l’inizio dei loro studi universitari a Londra, fino al 1978, quando viene eletto al soglio pontificio Giovanni Paolo II. Se il periodo dell’università è caratterizzato da un’osservanza rigorosissima delle regole della Chiesa, con conseguente cascame di ossessioni e frustrazioni, la maturità dei protagonisti coincide con la loro graduale emancipazione da quelle che prendono a essere considerate dalla maggior parte dei loro correligionari nulla più che ridicole superstizioni del passato. L’epoca di mons. Knox, dei vari Waugh e Greene, lascia spazio poco alla volta a una modernità sulle prime intrigante, che offre ampi margini di libertà ai fedeli, ma che alla fine svela nella sua volgare orizzontalità un fondo di disperazione. Per quanto la visione metafisica dei protagonisti, al tempo della scuola, fosse piuttosto ridicola – «Era un po’ come il gioco dell’oca: il peccato ti faceva retrocedere verso l’abisso infernale; i sacramenti, le buone azioni, gli atti di mortificazione, ti permettevano di avanzare verso la luce» – la loro vita adulta pare essersi arenata in un deserto spirituale: «A un certo momento degli anni Sessanta scomparve l’inferno. Nessuno sarebbe in grado di dire con certezza quando questo avvenne. Prima era lì, poi non c’era più. […] A conti fatti fu un grande sollievo […] pur causando nuovi guai». Minimizzati i dogmi, si innesca un effetto domino che vede la religione cattolica crollare pezzo dopo pezzo fino a ridursi a una vaghissima aspirazione spirituale, dai contorni tutt’altro che definiti (una smaliziata Polly a questo punto non può fare a meno di domandarsi: «Perché essere proprio cattolico, anziché qualcos’altro, addirittura niente?»).



    Teologia della liberazione, femminismo, confessioni di gruppo, messe beat, “genitorialità responsabile” ed estasi pentecostali sono solo alcuni degli ingredienti che caratterizzano una Chiesa che al fondo non sa più di nulla, tanto fumo e poco arrosto, con vocazioni ovunque in drammatico calo e con sacerdoti e religiosi che volentieri abbandonano l’abito per ritornare allo stato laicale (e magari trovare moglie). Anche i protagonisti appaiono sempre più allo sbando: Miles, ad esempio, dopo decenni di castità si abbandona alle sue pulsioni omosessuali, ritornando infine nella Chiesa anglicana – che meglio si confà al suo conservatorismo liturgico – mentre altri, come Violet o Dennis, rimangono invischiati in matrimoni infelici, tra occasionali scappatelle e figli indesiderati. Naturalmente c’è anche chi riesce in qualche modo a cavarsela, ma l’atmosfera che si respira nell’epilogo del libro è quella di una disfatta spirituale completa, sia personale che collettiva.

    Il titolo originale del romanzo, How Far Can You Go?, a differenza di quello italiano – che allude alla tradizionale formula usata dal sacerdote durante la confessione – riecheggia la domanda «Fino a che punto?» che ritorna con insistenza nel corso della storia, marcando all’inizio gli scrupoli sessuali dei protagonisti adolescenti per poi diventare una preoccupazione radicale sul senso profondo delle trasformazioni teologiche in corso. E Lodge, con acume, individua all’origine della rivoluzione conciliare l’inversione dei tradizionali fini del matrimonio, con il piacere che sopravanza la procreazione, consegnando di conseguenza ai laici una rischiosa indipendenza morale: «E’ chiaro che lo spirito edonistico e progressista si è imposto con forza travolgente sia all’interno sia all’esterno della Chiesa: i giovani cattolici, diventati ormai adulti, hanno più o meno le stesse opinioni dei loro coetanei non cattolici sull’importanza della soddisfazione sessuale e del controllo della fertilità, e si tratta solo di una questione di tempo se non è ancora stato concesso ai preti di sposarsi e alle donne di diventare sacerdoti».



    Difficile prevedere cosa riserverà il futuro, quali altre tempeste dovrà affrontare la barca di Pietro. Al netto dei limiti, un romanzo come Quante volte figliolo? offre comunque una splendida diagnosi dei mali che hanno condotto la Chiesa fino alla crisi attuale. Ora l’unica cosa che resta da fare è pensare alla cura più efficace.

  4. #154
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “Il passo strano”: quando il sacerdote investigatore «evitò un delitto e forse salvò un’anima»



    Continua con questo articolo la nuova rubrica infrasettimanale dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo al seguente link: https://www.radiospada.org/2018/11/padre-brown-il-grande-sacerdote-investigatore-ideato-da-chesterton/

    Per le precedenti puntate: “La Croce azzurra” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-la-croce-azzurra/?preview_id=68448&preview_nonce=0e78c0ea50&preview =true&_thumbnail_id=68461 “Il giardino segreto” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-giardino-segreto-storia-di-un-fondamentalista-ateo/

    Il passo strano (The Queer Feet), terzo racconto della raccolta L’innocenza di Padre Brown (1911), è probabilmente «la più singolare avventura della lunga e avventurosissima vita» del sacerdote investigatore, «dove egli evitò un delitto, e forse salvò un’anima».

    Padre Brown, il «mite e infaticabile pretino» dagli occhi grigi, sempre armato di «placida pacatezza» e di «candido ardore», si ritrova nuovamente faccia a faccia con Flambeau, il celeberrimo ladro in cui si era già imbattuto in un precedente racconto, La croce azzurra. Anche questa volta, grazie al suo intervento, viene sventato un furto e Flambeau pare finalmente intenzionato a imboccare la strada del riscatto personale: «So qualche cosa della sua forza nel lottare e molto della sue difficoltà spirituali. Potei giudicare della sua forza fisica quando mi afferrò per la gola, e della sua forza morale quando si pentì». Il ladro fugge dalla finestra, ma il fatto che abbia restituito spontaneamente la refurtiva, ossia le preziose posate d’argento del Circolo “I Dodici Veri Pescatori”, fa intuire a Padre Brown che la Grazia divina, come avviene nella magnifica poesia Il Segugio del Cielo di Francis Thompson, sia ormai sulle sue tracce: «L’ho preso con un invisibile amo e con una invisibile lenza, che è lunga abbastanza per lasciarlo vagare sino ai confini del mondo, e, tuttavia, riportarlo indietro con un solo strappo del filo». Queste parole sono famose pure per essere state ripresa da Evelyn Waugh nel suo Ritorno a Brideshead (“Uno strappo al filo”, tra l’altro, è il titolo della terza parte del romanzo).

    Il racconto, diviso in due sezioni che corrispondono grosso modo al furto sventato e alla spiegazione di come Padre Brown sia riuscito a capire le intenzioni di Flambeau e a fermarlo, svela tutta l’avversione di Chesterton per la plutocrazia britannica e per certa nobiltà decadente. Non solo sono frequenti i riferimenti ai piani alti e bassi della società – naturalmente i più infimi, «tra gente perduta e delinquenti», sono quelli con cui Padre Brown, per vocazione, ha più spesso a che fare – ma pure il luogo che fa da sfondo alle vicende, l’Albergo Vernon, è «un’istituzione che può soltanto esistere in una società borghese oligarchica, divenuta quasi pazza per le “buone maniere”». Gestito da Lever, caricatura inoffensiva dell’avido ebreo che sguazza nelle fetide paludi dello strozzinaggio, l’albergo è la quintessenza di un furbo capitalismo che punta tutto sulle ridicole pretese elitarie della gente: «Era una di quelle strane imprese commerciali conosciute col nome di “esclusive”; cioè una di quelle case che fruttano non con l’attrarre gente ma proprio col mandarla via. In piena plutocrazia, gli esercenti diventano così furbi da essere più difficili dei loro stessi clienti. Essi creano a bella posta degli ostacoli, affinché i loro ricchi e annoiati clienti spendano denaro e diplomazia per vincerli. Se vi fosse a Londra un albergo alla moda nel quale non potesse entrare gente che non fosse alta almeno due metri, si formerebbero subito delle compagnie di persone alte due metri che lo frequenterebbero. Se esistesse un ristorante costoso che per puro capriccio del proprietario fosse aperto solo nel pomeriggio del giovedì, si sarebbe certi di trovarlo, in tale giorno, affollatissimo».



    Ma in fondo, pare suggerire Chesterton, al netto delle smanie di casta, la verità è che tutti gli uomini sono uguali, democraticamente uniti dalla morte: «C’è al mondo un antico ribelle demagogo che penetra nei ritiri più raffinati per porgere la spaventevole novella che tutti gli uomini sono fratelli; e in qualsiasi luogo questo eguagliatore andasse sulla sua triste cavalcatura, Padre Brown sentiva il dovere di seguirlo».

    Il sacerdote, che «ha l’apparenza dimessa» e «gli abiti infangati», si trova all’Albergo Vernon proprio per dare l’estrema unzione a uno dei camerieri. Lever non è molto contento della cosa dal momento che sta aspettando ospiti illustri, ma non è così crudele da negare a un suo dipendente la consolazione finale dei sacramenti cattolici (come sottolinea l’autore, Lever era «dotato di quella brutta copia della bontà che è la remissività, o ripugnanza a crear difficoltà o contrasti»). Padre Brown viene poi fatto accomodare in uno stanzino laterale, dove poter appuntare su carta le ultime volontà del defunto. Nel mentre giungono i membri del Circolo “I Dodici Veri Pescatori” che danno inizio alla loro cena annuale caratterizzata da una maestosa portata a base di pesce da consumarsi con le posate cerimoniali, dal valore inestimabile. Flambeau, travestito per l’occasione – «l’abito da sera di un gentiluomo non si distingue da quello di un cameriere. […] I signori non avrebbero osservato un cameriere, i camerieri non potevano sospettare un signore distinto che passeggiava» – riesce a intrufolarsi indisturbato alla cena e a sottrarre le posate dalla cucina. È Padre Brown a intercettarlo, allertato dal rumore di una strana camminata, al contempo lenta e veloce, proveniente dal corridoio. Quando si trova davanti al ladro, il sacerdote non esita, limitandosi a ricordargli il destino che attende il peccatore: «Voglio minacciarvi col verme che non muore e col fuoco che non si estingue […] e sono pronto ad ascoltare la vostra confessione».

    Per quanto l’ispirazione sia una via tutt’altro che sicura e sia certamente meno ortodossa della ragione, se il prete riesce infine a recuperare il maltolto lo deve anche all’inquietudine che qualche minuto prima gli aveva provocato la visione, attraverso la finestra, di un tramonto «malefico»: «In quel momento aveva perduto la testa; e la sua testa acquistava il massimo del suo valore allorché la perdeva. In momenti simili, egli sommava due più due e formava quattro milioni. Spesso, la Chiesa Cattolica (che è sposa del buon senso comune) non approva una cosa simile; ed egli stesso non ne era soddisfatto, ma quelli erano veri casi d’ispirazione, importantissimi in certe crisi. Eppoi, chi perde la testa sa ritrovarla».



    Nella seconda parte del racconto, quella che svela i retroscena degli accadimenti, Chesterton dedica parecchie righe a descrivere e a prendere bonariamente in giro quegli aristocratici insulsi che sono i membri del Circolo “I Dodici Veri Pescatori”, una «società che usava un gran numero di cerimonie e di regole, ma non possedeva né storia né scopo; per questo era tanto aristocratica». Un gruppo che vive, insomma, di sole apparenze (e appartenenze); lo stesso menù della serata è scritto nell’«ultra-francese usato dai cuochi, ma completamente illeggibile per dei francesi» Il Presidente del Circolo, il signor Audley, «non aveva mai fatto nulla, né di bene né di male. […] Apparteneva a quella società, e bastava. Nessun partito politico poteva ignorarlo; e se egli avesse desiderato di far parte del Governo, l’avrebbero posto al Governo […] Visto da dietro, aveva l’aspetto dell’uomo di cui ha bisogno l’Impero. Visto di faccia, aveva l’aria di un celibe mite, indulgente con se stesso, con un appartamento nel quartiere Albani; e così era, infatti». Il Duca di Chester, il Vicepresidente, era invece «un giovane che faceva strada in politica. Cioè, era un giovane piacevole, dai capelli biondi, lisci, il volto lentigginoso, con una moderata intelligenza e proprietà immense».

    Ma i difetti non si esauriscono qui: i “Dodici Veri Pescatori” seduti attorno alla tavola hanno l’anima affine a «un pisello secco» e per loro «gli spiriti erano qualcosa di imbarazzante, come i mendicanti». Inoltre simili «plutocrati moderni non potevano sopportare accanto a loro un povero, né come schiavo né come amico. Una disgrazia che accadesse ai servi non era per essi una cosa molto noiosa e imbarazzante. Non volevano essere brutali, e temevano che ci fosse la necessità di essere benevoli».

    La loro pochezza umana e la loro carenza di umiltà è ribadita pure da Padre Brown nell’epilogo. A proposito del travestimento adottato da Flambeau, il sacerdote commenta seraficamente: «Dev’essere una cosa molto difficile sembrare un signore; ma ho pensato talvolta che deve essere altrettanto difficile sembrare un cameriere». Ancora: «Strano che un ladro e vagabondo si penta, mentre tanti che sono ricchi e sicuri di sé rimangono duri e frivoli e senza alcun frutto né per Iddio né per l’uomo. […] Loro sono i Dodici Veri Pescatori, e qui hanno le loro posate d’argento. Ma Egli mi ha fatto pescatore d’uomini».

  5. #155
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [PRESENTAZIONE VIDEO] “Dio strabenedica gli inglesi!”: il nuovo saggio cattolico integrale sulla letteratura cattolica britannica


    Per il Venerdì Santo 2017 fu tenuta all'Università Cattolica del Sacro Cuore la 436° conferenza di formazione militante dal tema "Itinerari corviniani: il desiderio e la ricerca del Tutto", oggi quattro anni dopo, una conferenza video che continua la numerazione della conferenze di formazione militante (sarà la numero 642) ma dal respiro assai più ampio e omnicomprensivo. Eccola!



    Dio strabenedica gli inglesi! è una collezione di diversi articoli apparsi sulle pagine culturali del blog Radio Spada, rivisti, ampliati e giustapposti con l’intento di fornire spunti critici per tracciare una storia della letteratura cattolica britannica degli ultimi due secoli (con particolare attenzione all’Inghilterra, ma pure alla Scozia e all’Irlanda). Il risultato è una vasta galleria di nomi e opere che comprende autori quali J. H. Newman, G. K. Chesterton, J. R. R. Tolkien, R. H. Benson, Hilaire Belloc, Evelyn Waugh, Bruce Marshall, Graham Greene e molti altri ancora, un tesoro artistico e religioso che viene per la prima volta svelato al lettore italiano. Il volume è ulteriormente impreziosito da una prefazione di Paolo Gulisano, medico e scrittore, e da una postfazione di Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana.

    Il libro: Luca Fumagalli, Dio strabenedica gli inglesi! Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo, Radio Spada, Cermenate, 2021, 416 pagine, 15 Euro.


  6. #156
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “Le stelle volanti”: il pericolo del socialismo e il pentimento di un criminale



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo quarto articolo la nuova rubrica infrasettimanale dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo al seguente link: https://www.radiospada.org/2018/11/padre-brown-il-grande-sacerdote-investigatore-ideato-da-chesterton/

    Per le precedenti puntate: “La Croce azzurra” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-la-croce-azzurra/?preview_id=68448&preview_nonce=0e78c0ea50&preview =true&_thumbnail_id=68461 “Il giardino segreto” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-giardino-segreto-storia-di-un-fondamentalista-ateo/ “Il passo strano” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-passo-strano-quando-il-sacerdote-investigatore-evito-un-delitto-e-forse-salvo-unanima/

    Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto (il libro è attualmente in ristampa): http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/narrativa/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    Tra i racconti che compongono L’innocenza di Padre Brown (1911), Le stelle volanti (The Flying Stars) è uno di quelli più deboli dal punto di vista della scrittura, almeno in rapporto al canone del “giallo”. L’investigazione di Padre Brown, infatti, grazie a una fulminea intuizione si esaurisce nel giro di una manciata di righe , e pure la spiegazione finale di come il sacerdote sia riuscito a risolvere il caso, per quanto coerente, nel complesso suona abbastanza farraginosa. Poco importa, anche perché basta la scena del pentimento di Falmbeau, nell’epilogo, a donare un sicuro fascino alla storia.

    E’ lui stesso, il famoso ladro già protagonista dei precedenti racconti La croce azzurra e Il passo strano, ad aprire in prima persona la vicenda con un lungo flashback che, oltre a dare un contesto all’azione, ne anticipa il finale: «“Il più bel delitto ch’io abbia mai commesso”, soleva dire Flambeau nella sua moralissima vecchiaia, “fu anche, per singolare coincidenza, l’ultimo. Lo commisi a Natale. Come artista ho sempre cercato di intonare i delitti alla particolare stagione o paesaggio in cui mi trovavo, scegliendo questo giardino o quella terrazza per una catastrofe, come per un gruppo statuario” […] “Ebbene, il mio ultimo delitto fu un delitto natalizio, un delitto cordiale, familiare, da borghesia inglese: un delitto alla Charles Dickens. Lo commisi in una buona vecchia casa borghese nei pressi di Putney, una casa con un bell’ingresso carrozzabile, una scuderia, e il nome scritto sul cancello, una casa con un’araucaria: avete capito il tipo. Penso proprio che la mia imitazione dello stile di Dickens fu abile e letteraria; è quasi un peccato che mi sia pentito quella stessa sera”».

    Poche righe ancora e Chesterton interviene per strappare a Flambeau lo scettro del narratore, ricollocando l’episodio in sintonia stilistica con i precedenti: «Flambeau procedeva quindi nel raccontare la storia da un punto di vista interiore; e anche così era strana. Vista dal di fuori era assolutamente incomprensibile, e gli estranei debbono esaminarla dal di fuori».

    Si entra quindi nel cuore della trama che ruota attorno a una pantomima goliardica organizzata nella sua dimora dal Colonnello Adams con l’aiuto della figlia Ruby, del cognato James Blount – giunto di recente dal Canada – e dei loro ospiti, ovvero il giovane giornalista John Crook, Sir Leonard Fischer, ricco padrino di Ruby, e Padre Borwn, di cui si sottolinea ancora una volta l’aspetto dimesso: «C’era anche la meno cospicua figura del prete della vicina chiesa cattolica; infatti la defunta moglie del Colonnello aveva appartenuto a tale religione, e i figli, come spesso accade, vi erano stati allevati anch’essi. Tutto sembrava insignificante nel prete, financo il nome, che era Brown, eppure il Colonnello aveva sempre trovato in lui qualcosa di socievole, e lo invitava spesso a quelle riunioni familiari» (addirittura nelle ultime righe del racconto si accenna nuovamente, con ironia, alla falsa convinzione che i preti siano ignari delle cose del mondo, quando invece, come dimostra il buon sacerdote detective, conoscono gli uomini meglio di chiunque altro).



    Solo a spettacolo iniziato si scoprirà che sotto gli abiti di Blount si nasconde in verità Flambeau, intenzionato a rubare tre preziosi brillanti africani, “le stelle volanti” del titolo, che Sir Leonard ha portato in dono alla figlioccia.

    Se nel precedente Il passo strano Chesterton aveva aspramente criticato l’aristocrazia plutocratica d’Inghilterra, ora è il socialismo ad essere messo alla berlina, accusato di attentare alla proprietà privata, uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano. Dopo che Crooke si è lasciato sfuggire una considerazione poco garbata a proposito delle “stelle volanti”, Ruby, che pure è innamorata di lui, è costretta a intervenire. Dal dialogo concitato emerge a mo’ di parabola evangelica la divertente similitudine dello spazzacamino e della cenere, uno dei passaggi più citati di tutta la bibliografia chestertoniana: «“Lei parla così solo da quando è diventato un orribile… come si dice… sa quel che voglio dire. Come si chiama un uomo che vuole abbracciare uno spazzacamino?” “Un santo”, disse Padre Brown. “Credo”, disse Sir Leopold, con un sorriso superiore, “che Ruby voglia dire un socialista”. “Un radicale non vuol dire un uomo che vive di radici”, osservò Crook, con un po’ d’impazienza, “e un conservatore non significa una persona che fa le conserve. E un socialista, vi assicuro, non vuol dire una persona che desidera passare la sera in compagnia di uno spazzacamino. Un socialista vuol dire una persona che vuole che tutti i camini siano spazzati e tutti gli spazzacamini siano pagati”. “Ma che non ti permette”, osservò il prete a bassa voce, “di possedere la tua fuliggine”. Crook lo guardò con interesse e anche con rispetto. “Chi vuol possedere della fuliggine?”, chiese. “Potrebbe accadere”, rispose Padre Brown, pensoso. “Ho sentito dire che i giardinieri se ne servono. E io una volta resi felici sei bambini, un Natale che il prestigiatore non era venuto, soltanto con della fuliggine… applicata esternamente”».

    Nonostante l’intervento del sacerdote, fino all’inizio dei preparativi per la pantomima – un’idea suggerita da Blount-Flambeau al fine di garantirsi le migliori condizioni per un furto che intende essere spettacolare – Sir Leonard e Crook continuano imperterriti a scambiarsi frecciatine; questa volta l’ago della bilancia chestertoniana sembra però pendere di più a favore del socialista che del capitalista: «L’antipatia che provava per il giovane dalla cravatta rossa, per le sue opinioni di predatore, e per i suoi evidenti buoni rapporti con la graziosa figlioccia, fece dire a Fischer, nel suo tono più sarcastico e magistrale: “Senza dubbio lei ha trovato qualcosa di peggior gusto che sedersi sopra un cappello duro. Che cos’è, per favore?”. “Starci sotto, per esempio”, disse il socialista». Più avanti, a furto ormai compiuto, per allontanare da Crooke ogni sospetto Padre Brown rincara la dose: «“Coloro che vogliono rubare dei diamanti non parlano di socialismo. È più probabile”, aggiunse gravemente, “che lo denuncino”».

    Nel frattempo tutti si applicano con passione affinché lo spettacolo riesca al meglio. La descrizione dei preparativi è la quintessenza di quella caotica giovialità tipica del “Chesterbelloc”: «Come fu che in così poco tempo misero insieme un tal festino di paccottiglia rimase un mistero. Ma vi si adoperarono tutti con quel miscuglio di impazienza e di attività che si ha quando in una casa c’è la giovinezza; e la giovinezza c’era quella sera, anche se non tutti avrebbero saputo individuare i due volti e i due cuori da cui essa fiammeggiava. Come sempre succede, la fantasia si fece tanto più sbrigliata quanto più modeste erano le possibilità a sua disposizione». Anche la servitù di casa fa la sua parte: «Pagliaccio e Pantalone divennero bianchi con la farina data dalla cuoca, e rossi col rosso dato da un altro domestico che rimaneva (come tutti i benefattori cristiani) anonimo». Dal canto suo Padre Brown «che pur conosceva ogni particolare dei preparativi dietro le quinte, e aveva anche suscitato applausi trasformando un cuscino in un bambino da pantomima, andò a mettersi ai primi posti e si sedette fra il pubblico con tutta la solenne aspettazione di un ragazzino alla sua prima matinée».

    La pantomima finalmente comincia e a dominare la scena è Crooke, nel ruolo del Pagliaccio: «Egli era generalmente una persona intelligente, e quella sera era ispirato da una impetuosa onniscienza, una follia più saggia del mondo, come viene a un giovane che ha visto per un istante una certa espressione su un certo viso».



    Terminato lo spettacolo e scoperto il furto, Padre Brown si getta all’inseguimento di Flambeau intercettandolo poco prima che questi possa fuggire dal giardino: «Ebbene, Flambeau, sembri davvero una stella volante; ma questo finisce sempre per voler dire una stella cadente». Il ladro è nascosto tra gli alti rami di un albero, sembra vacillare, incerto se scappare o se rimanere ad ascoltare il sacerdote: «Voglio che tu li renda, Flambeau, e voglio che smetta questa vita. C’è ancora gioventù, onore, e spirito in te; ma non pensare che durino a lungo in codesto mestiere. Gli uomini riescono a mantenere una specie di livello medio nel bene, ma nessuno è mai riuscito a restare su un livello medio nel male. È una strada che scende sempre di più. L’uomo buono beve, e diventa crudele; l’uomo franco uccide, e si mette a mentire. Ne ho conosciuti molti che hanno incominciato come te, come onesti fuorilegge, rubando solo ai ricchi, e sono finiti nel fango. Maurice Blum incominciò come un anarchico, come un Robin Hood dei poveri, e finì come un’ignobile spia di cui entrambe le parti si servivano, disprezzandolo. Harry Burke iniziò a elargire gratuitamente denaro abbastanza sinceramente, e ora vive alle spalle di una sorella mezza morta di fame, facendosi continuamente pagare da lei da bere. Lord Amber si mise a frequentare gente equivoca per un malinteso spirito cavalleresco, e ora si fa ricattare dai più spregevoli avvoltoi di Londra; il Capitano Barillon era il più grande bandito- gentiluomo della generazione prima della tua, e morì in manicomio, gridando per paura dei ricettatori che l’avevano tradito e perseguitato. So che i boschi si stendono liberi dietro di te, Flambeau; e so che in un lampo potresti scomparirvi come una scimmia. Ma un giorno sarai una vecchia scimmia grigia, Flambeau, e starai seduto nella tua libera foresta, a morire di freddo, e gli alberi saranno molto squallidi». Dopo aver evocato l’immagine dell’«invisibile filo» già impiegata ne Il passo strano, Padre Brown si avvia alla conclusione: «La tua parabola discendente è già iniziata. Ti vantavi di non fare mai nulla di meschino, ma questa sera stai facendo una cosa meschina. Stai lasciando sospettare un bravo ragazzo che ha già molte cose contro; lo stai separando dalla donna che ama e che lo ama. Ma farai cose anche più meschine prima di morire».

    A questo punto, colpito dalle parole del prete, Flambeau lascia cadere i brillanti e fugge via col favore delle tenebre. E’ la terza volta che Padre Brown manda all’aria i suoi piani. L’ultima.

  7. #157
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Henry Edward Manning: le opere e i giorni di un grande cardinale vittoriano (Prima parte: il periodo anglicano)



    di Luca Fumagalli

    Inizia con questo articolo una breve biografia in quattro parti del cardinale inglese Henry Edward Manning (1808-1892), l’amico-nemico di J. H. Newman, famoso per le posizioni dottrinali intransigenti e per essere stato con le sue opere a sostegno dei più poveri e degli emarginati uno degli ispiratori dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII.

    Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire la figura di Manning e quella di molti altri intellettuali del cattolicesimo britannico si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto (il libro, attualmente in ristampa, tornerà disponibile tra una paio di settimane): http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/narrativa/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    «Manning mi sembrava (e ancora mi sembra) di gran lunga l’inglese migliore del suo tempo»

    (H. Belloc, Cruise of the Nona, 1925)

    1. La “leggenda nera”

    Che i cattolici britannici ammirassero il carisma e le personalità di Henry Edward Manning lo dimostra la folla enorme che si riversò per le strade di Londra nel 1892 in occasione della sua morte e del funerale. Nonostante Manning fosse scomparso il 14 gennaio, lo stesso giorno del principe Alberto Vittorio, il dolore del popolo pareva tutto per il Cardinale: decine di migliaia di persone, perlopiù irlandesi ma anche inglesi di ogni estrazione sociale e credo religioso, vollero portare l’estremo saluto alla sua salma, consapevoli di aver perso una delle più grandi personalità dell’epoca (persino Oscar Wilde, durante l’università, conservava nelle sue stanze una fotografia del porporato). Il fatto è ancora più sorprendente se si pensa che Manning, Arcivescovo di Westminster e Primate della Chiesa cattolica in Inghilterra, incarnava agli occhi dei protestanti la quintessenza di quel “papismo” e di quel “clericalismo” che tanto disprezzavano. Secondo Gladstone la sua morte fu un colpo molto più duro per i cattolici rispetto a quella di J. H. Newman, avvenuta solo un anno e mezzo prima: «La cosa mi ha sorpreso». Se G. K. Chesterton ha lasciato una descrizione commossa di quando, da giovane, fu folgorato dalla visione di Manning, e il poeta Francis Thompson volle dedicargli un’ode funebre, Hilaire Belloc ne fu uno zelante figlio spirituale, e pure il controverso Baron Corvo nel suo Chronicles of the House of Borgia (1901) descrisse quella del Cardinale come una «vita di santa abnegazione, di umiltà intensissima, di mortificazione ascetica, di lavoro incessante per il bene spirituale e temporale di tutti gli uomini, senza distinzione di Fede».

    Nessuno pareva quindi in grado di minacciare una reputazione così solida. Anche se non tutti erano disposti a considerare Manning un santo, intorno alla sua figura si concentrava l’affetto della maggior parte dei fedeli britannici. Peccato, però, che nel 1895 il giornalista Edmund Sheridan Purcell diede alle stampe una biografia in due volumi, Life of Cardinal Manning, in cui il cardinale era ritratto come un ecclesiastico consumato dall’ambizione, privo di scrupoli, disposto a tutto per ottenere ciò che voleva. Purcell non aveva una grande simpatia per Manning e si sentiva più affine a Newman, tanto che all’«illustre oratoriano» assegnò il ruolo di vero eroe del cattolicesimo inglese, costantemente impegnato a mandare in fumo i loschi piani dell’Arcivescovo di Westminster. Malgrado Life of Cardinal Manning fosse un lavoro raffazzonato, pieno di trascrizioni erronee e strutturalmente debole, aveva il pregio di essere una lettura estremamente godibile, tanto che in poco tempo divenne un best-seller (con malcelata soddisfazione di quell’establishment britannico contro la cui ipocrisia e indifferenza Manning si era più volte scagliato).



    A rincarare la dose ci pensò nel 1918 Lytton Strachey che nel suo Eminent Victorians incluse una breve vita di Manning, frutto di un taglia e cuci delle parti più interessanti del lavoro di Purcell, insaporita con l’acidità demitizzante e antireligiosa del Bloomsbury Group. Tra indiscrezioni e supposizioni più o meno fantasiose, anche il libro di Strachey fu un successo, contribuendo a radicare definitivamente nell’immaginario collettivo lo stereotipo di un Manning quale ecclesiastico carrierista, spregiudicato e autoritario (un simile individuo è protagonista pure del romanzo di Robert Player Let’s Talk of Graves, of Worms, and Epitaphs, del 1975, maliziosamente dedicato proprio alla memoria del Cardinale inglese). Pure Arnold Lunn, prima di convertirsi al cattolicesimo, pubblicò nel 1924 un libro, Roman Converts, in cui non si faceva alcuno scrupolo a reiterare la “leggenda nera” su Manning.

    D’altronde la reazione da parte cattolica fu inizialmente timida e poco incisiva: al pari di Purcell quasi tutti gli intellettuali inglesi legati a Roma avevano infatti scarsa simpatia per le posizioni intransigenti di Manning, preferendo piuttosto la moderazione di un Newman. Ecco perché oltre a Cardinal Manning: His Life and Labours (1921), di Shane Leslie, Cardinal Manning: A Biography (1985), di Robert Gray, e The Convert Cardinals: Newman and Manning (1993), di David Newsome, non sono molti i libri scritti allo scopo di ristabilire la verità a proposito della vita e delle opere di un Cardinale che seguita purtroppo a essere vittima di un giudizio scandalosamente distorto.

    2. La formazione

    Nato il 15 luglio 1808 a Copped Hall, una splendida magione di Totteridge – oggi nella cintura periferica di Londra – Henry Edward Manning era l’ultimo di otto figli. Il padre, William Manning, non solo era a capo di una fortunata impresa commerciale, ma sedeva anche tra i banchi del parlamento come deputato conservatore. Poco dopo la venuta al mondo dell’ultimogenito, frutto del secondo matrimonio con Mary Hunter, la sua carriera politica raggiunse l’apice quando, per un paio d’anni, tra il 1812 e il 1813, ricoprì il prestigioso incarico di governatore della Banca d’Inghilterra. Dal punto di vista religioso i Manning erano evangelici e William era uno degli uomini più in vista di quella upper-class che spendeva denaro ed energie per sostenere la causa della “Low Church”.



    Nel 1815 la famiglia si trasferì a Sundridge, nel Kent, e nel 1822 il giovane Henry venne iscritto ad Harrow, una delle scuole più prestigiose del Paese. Di indole schiva e solitaria, non ottenne risultati rimarchevoli, se non nelle attività sportive, ma i suoi voti furono comunque abbastanza buoni per valergli, nel 1827, l’ammissione al Balliol College di Oxford.

    Henry, poco incline all’ascetismo, alternava volentieri lo studio al divertimento e allo sport, trascorrendo ore in sella al cavallo, giocando a cricket o prendendo a pugni il sacco con i guantoni da boxe. Nonostante fosse un tipo solare, apprezzato sia dai compagni che dalle donne – pare fosse uno degli studenti più belli di Oxford – l’unica vera amicizia che il ragazzo strinse negli anni dell’università fu quella con il futuro primo ministro William Gladstone, destinata, pur tra alti e bassi, a durare per tutta la vita.

    Nel 1829, in virtù delle sue apprezzatissime qualità oratorie, Henry venne eletto presidente della Union Debating Society. Rifiutò la nomina, preferendo prepararsi al meglio per gli esami finali, che affrontò ottenendo il massimo dei voti. In quanto figlio minore di un noto esponente del laicato anglicano, il giovane Manning sapeva di essere quasi di certo destinato a una carriera in ambito ecclesiastico, eppure, almeno per qualche tempo, fu seriamente tentato dalla politica. Nel 1831, però, la bancarotta del padre – che sarebbe scomparso quattro anni dopo – troncò sul nascere ogni sua velleità: «Chissà», scrive Robert Gray,«come sarebbe stata diversa l’Età Vittoriana se Gladstone avesse perseverato nella sua iniziale ambizione di diventare sacerdote e Manning fosse stato eletto in parlamento».

    A questo punto, con l’azienda familiare in liquidazione, Henry fu lasciato libero di scegliere la propria strada. La famiglia vantava ancora importanti legami nella City e venne pure presa in considerazione l’ipotesi di una laurea in legge. Infine, dopo lunga e sofferta meditazione, il giovane si risolse definitivamente a prendere gli ordini anglicani: al suo tutore confidò che maturò la decisione mentre si trovava in una libreria, intento a sfogliare una raccolta dei sermoni di Wesley.



    3. Marito e Arcidiacono

    Al Merton College Manning ricevette un’educazione teologica confusa ed eterogenea, costretto a leggere «acri di autori anglicani» che mostravano più che altro l’incertezza dottrinale che regnava nella Chiesa d’Inghilterra. A questo periodo, data la vicinanza tra il Merton e l’Oriel, risale anche l’inizio dell’amicizia con John Henry Newman.

    Nel gennaio del 1833, dopo l’ordinazione al diaconato, Manning venne mandato ad Upwalden, in Sussex, ad assistere John Sargent, già Rettore di Lavington e Graffham. In primavera si fidanzò con la figlia di quest’ultimo, Caroline, e quando il reverendo morì improvvisamente a maggio, la vedova fece di tutto affinché Henry potesse ereditarne l’incarico: fu così che il 9 giugno venne ordinato sacerdote dal Vescovo Maltby di Chichester, succedendo a Sargent come nuovo Rettore di Lavington. Una manciata di mesi più tardi, il 7 novembre, si sposò con Caroline.



    Il loro felice matrimonio durò fino alla prematura scomparsa della ragazza, avvenuta il 24 luglio 1837 a causa della tubercolosi. Manning, che mantenne fino alla fine dei suoi giorni il più stretto riserbo su Caroline, volle dedicarle come ultimo omaggio una vetrata della cattedrale di Chichester. Fortunatamente non ha più alcun seguito l’illazione di Strachey secondo il quale il futuro cardinale col tempo arrivò a salutare la morte della moglie come una provvidenziale liberazione da un fardello che gli avrebbe impedito l’accesso al sacerdozio cattolico.

    Il lavoro a Lavington mostrò immediatamente a Manning i limiti dell’impostazione evangelica, che dava eccessivo risalto all’individuo e alla sue emozioni. Questo fatto, in aggiunta alla pubblicazione del primo Tracts for the Times e alla nascita del Movimento di Oxford, lo spinse poco alla volta verso l’anglo-cattolicesimo di Newman e sodali. Manning condivideva il fervore con cui l’amico rivendicava per l’anglicanesimo un’autentica successione apostolica e il suo disprezzo per quelle idee liberali che si stavano diffondendo a macchia d’olio, permeando di relativismo e di caos morale la stessa Chiesa d’Inghilterra. Essendo lontano da Oxford, il Rettore di Lavington non fu mai una figura centrale del Movimento, limitandosi a sbrigare dei lavori di traduzione per Newman; ciononostante, oltre ad approfondire il pensiero cristiano dei primi secoli e a riscoprire l’importanza della tradizione per una corretta interpretazione delle Sacre Scritture, fece di tutto per diffondere le idee anglo-cattoliche nella sua parrocchia e in quelle vicine.

    Ricordato per la profonda spiritualità e le sue meravigliose prediche, Manning ristabilì a Lavington la celebrazione liturgica quotidiana, visitava di frequente le case dei parrocchiani e non era raro vederlo passeggiare per il paese vestito in abito talare, a rimarcare la dignità del sacerdote. Inoltre si impegnò parecchio anche in campo educativo, ribadendo più volte, pubblicamente, che solamente alla Chiesa anglicana spettava il diritto di gestire il sistema scolastico del Paese (un’educazione senza religione gli sembrava una contraddizione in termini).

    Nel 1938 compì il primo dei suoi numerosi viaggi a Roma. Ebbe occasione di incontrare Nicholas Patrick Wiseman, allora rettore del Collegio Inglese, ma non fu particolarmente colpito né dalla città né dai fasti del cattolicesimo. Se ne tornò a casa solamente col desiderio di contribuire al Colonial Bishoprics Fund per creare nuove diocesi anglicane nel resto del mondo.



    Due anni più tardi Manning venne nominato Arcidiacono di Chichester per aiutare il Vescovo Shuttleworth nella gestione del clero diocesano e per supervisionare lo stato degli edifici ecclesiastici. Da allora prese l’abitudine di pubblicare annualmente una lettera aperta, denominata “Charge”, in cui metteva nero su bianco le sue riflessioni sullo stato della Chiesa inglese. I testi, brillanti e ben curati, iniziarono a circolare rapidamente facendogli guadagnare un numero crescente di estimatori in tutto il Paese.

    Dal punto di vista teologico Manning fu debitore di Newman e del Movimento di Oxford, ma da nessuno, se non dal suo cuore, imparò la compassione per gli ultimi e gli emarginati: «La sua lotta contro il mondo», nota ancora Gray, «non fu condotta, come quella di Newman, a una distanza confortevole dalle sofferenze che il mondo stesso causava». Spirito troppo pratico ed empatico per ignorare il problema della povertà dilagante – lo ricorda anche Evelyn Waugh nella sua biografia di mons. Ronald Knox – il nuovo Arcidiacono diede il via a varie opere di carità, facendo della questione sociale uno dei suoi campi di battaglia prediletti.

    Non per questo ignorava le polemiche teologiche che all’epoca stavano attraversando il mondo anglicano sul problema del rapporto tra Stato e Chiesa nazionale, le medesime polemiche che avrebbero portato, nel 1843, alla pubblicazione dell’ultimo Tract di Newman e all’allontanamento di quest’ultimo da Oxford (sebbene non ne condividesse le scelte, Manning andò spesso a visitarlo nel suo ritiro a Littlemore, convinto che le divergenze d’opinione non dovessero mai ostacolare una sincera amicizia). Conformemente al suo spirito pugnace, l’Arcidiacono entrò comunque a gamba tesa nel dibattito con un grosso tomo, The Unity of the Church (1842), dedicato a Gladstone. Il libro, un prodotto decisamente mediocre, rifletteva la confusione dottrinale dell’autore: se gli argomenti erano tutti contro l’anglicanesimo e, anzi, sembravano dare ragione alla Chiesa cattolica, le conclusioni erano invece misteriosamente a suo favore…

    La vita di Manning prosegue domenica 18 aprile 2021, con la Seconda Parte, intitolata La conversione.

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “L’uomo invisibile”: l’ombra inquietante della tecnologia



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo al seguente link: https://www.radiospada.org/2018/11/padre-brown-il-grande-sacerdote-investigatore-ideato-da-chesterton/

    Per le precedenti puntate: “La Croce azzurra” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-la-croce-azzurra/?preview_id=68448&preview_nonce=0e78c0ea50&preview =true&_thumbnail_id=68461 “Il giardino segreto” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-giardino-segreto-storia-di-un-fondamentalista-ateo/ “Il passo strano” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-passo-strano-quando-il-sacerdote-investigatore-evito-un-delitto-e-forse-salvo-unanima/ “Le stelle volanti” https://www.radiospada.org/2021/04/il-mercoledi-di-padre-brown-le-stelle-volanti-il-pericolo-del-socialismo-e-il-pentimento-di-un-criminale/

    Prima di iniziare, per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di G. K. Chesterton e quella di molti altri scrittori cattolici britannici si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto (il libro è attualmente in ristampa, tornerà disponibile tra un paio di settimane): http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/narrativa/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    Tra i racconti meno memorabili della raccolta L’innocenza di Padre Brown (1911), L’uomo invisibile (The Invisible Man) è tuttavia il primo in cui Flambeau appare negli inediti panni del detective e non più in quelli del ladro gentiluomo. E’ lasciato quindi intendere che il francese, nello spazio intercorso tra questa storia e la precedente, intitolata Le stelle volanti, si sia finalmente deciso a dare ascolto alle parole di Padre Brown e a fare opera di riparazione agendo a favore della giustizia e non più contro di essa (giustizia, e non legge, che per Chesterton sarebbe parola troppo orizzontale e scialba per restituire appieno la radicalità della conversione di Flambeau). L’ex ladro – «benché la sua giovinezza sia stata burrascosa si può dire che ora sia un uomo assolutamente onesto, con un cervello che vale oro» – esercita la professione di investigatore privato ad Hampstead, presso un appartamento nel caseggiato Lucknow Masions.

    L’uomo invisibile ha dalla sua un brillante inizio, saturo del funambolico surrealismo del miglior Chesterton, e una svolgimento concitato che cattura l’attenzione di chi legge. La vicenda prende infatti le mosse dalla proposta di matrimonio che un giovane artista scozzese, Angus, fa a Lucy, cameriera in una pasticceria («“Lei non mi dà il tempo di pensarci”, disse lei. “Non sono così sciocco”, rispose lui, “la mia è umiltà cristiana”»). La ragazza vorrebbe accettare, ma qualche tempo prima, per pura civetteria, aveva promesso la sua mano a chi, tra due buffi spasimanti, fosse tornato da lei dopo un anno dimostrando di aver fatto fortuna. Il suo era solo uno scherzo bonario, eppure i due hanno preso la cosa molto sul serio: di James Welkin, un tipo solitario, orribilmente guercio, Lucy non ha più alcuna notizia, mentre l’altro, Isidore Smythe, piccolo e buffo, è diventato sorprendentemente ricco a causa dell’invenzione di un automa meccanico in grado di sbrigare tutte le faccende di casa e ora sta per giungere alla pasticceria per averla in sposa. La fanciulla è comprensibilmente turbata, anche e soprattutto perché, a quanto pare, Welkin, nell’ombra, sta tramando per uccidere Smythe. Nonostante l’intervento di Angus – «si guardarono l’un l’altro con quella strana fredda generosità che è l’anima della rivalità» – non è possibile evitare il delitto e sarà ancora una volta Padre Brown, al seguito di Flambeau, a risolvere una vicenda oltremodo intricata.

    Il racconto, contraddistinto da svolazzi lirici sulla «muta poesia di Londra» e sull’ «aura cristiana» che avvolge la pasticceria, nonché dai soliti aforismi paradossali – «Se egli era Satana in persona, egli ora è finito perché ha raccontato la cosa. Si diventa pazzi da soli, figliola mia» – vanta pure momenti particolarmente divertenti: come non sorridere, ad esempio, leggendo gli slogan pubblicitari di Smythe – «Premete un bottone ed ecco: un cameriere astemio», «Girate una manovella: ed ecco le cameriere che non fanno mai all’amore», «Una cuoca che non è mai bisbetica» – oppure passaggi come quello in cui le curve della strada sono descritte quali «spirali trascendentali, come dicono le religioni moderne».





    Anche Padre Brown è nuovamente presentato nei toni dimessi di una figura apparentemente insignificante, tanto da sembrare uno dei mobili dell’appartamento rococò di Flambeau (descritto per apparire la quintessenza della vitalità, ovvero l’esatto opposto della dimora di Smythe, abitata da orde di inquietanti servitori meccanici): «L’alloggio, quasi ufficio, di Flambeau, era al pianterreno, e presentava sotto ogni aspetto un netto contrasto con i meccanismi e il freddo lusso alberghiero dell’alloggio dal “Servizio Silenzioso”. Flambeau, che era amico di Angus, lo ricevette in un bizzarro covo artistico dietro al suo studio, ornato di sciabole, archibugi, curiosità orientali, fiaschi di vino italiano, pentole di selvaggi, un vaporoso gatto persiano, e un piccolo prete cattolico dall’aspetto impolverato, che appariva particolarmente stonato». Più avanti il prete viene ritratto mentre «trotterellava dietro di loro con la docilità di un cagnolino», con lo sguardo assente «come se non nutrisse alcun interesse per l’inchiesta». Nell’epilogo, però, come di consuetudine i ruoli si ribaltano ed è Flambeau a implorare il sacerdote «con una strana e grave semplicità, come di fanciullo», di rivelargli la soluzione del caso.

    Non si fanno attendere nemmeno le immancabili stoccate allo spirito francese, un misto di «ragione e violenza», e un benevolo rimprovero rivolto ad Angus e alla sua troppo fervida fantasia celtica – sebbene contenga sempre un’intuizione di verità – come era già successo ne Il giardino segreto per il personaggio del Colonnello O’Brien: «Angus guardò intorno per la stanza oscura piena di manichini, e da qualche angolo celtico della sua anima scozzese sentì venire un brivido. […] La materia si era ribellata, e quelle macchine avevano ucciso il loro padrone. Ma fosse anche vero, che cosa e avevano fatto poi? Mangiato! gli mormorò l’incubo all’orecchio».

    All’inquietudine di Angus si lega la polemica tutta chestertoniana – qui in verità appena accennata – sui limiti di un tecnologia disumana che, paradossalmente, vuole presentarsi come alternativa all’uomo, una polemica che ha come bersaglio proprio i curiosi robot di Smythe: «Si aprì su una lunga e spaziosa entrata, in cui i soli oggetti che colpissero, parlando da un punto di vista normale, erano le alte figure meccaniche semi-umane, allineate da entrambi i lati, simili ai manichini dei sarti. Come i manichini, erano senza testa, avevano una notevole gibbosità sulle spalle e il petto protuberante; ma, a parte questo, non somigliavano a figure umane più di quanto non vi somigli un qualunque distributore automatico alto pressappoco come un uomo. Avevano due grossi uncini, a guisa di braccia, per portare i vassoi, ed erano verniciati in verde pisello, o rosso vermiglio, o nero, per evitare confusioni. Sotto ogni altro aspetto non erano che meccanismi come gli altri, e nessuno li avrebbe guardati due volte. […] Gli parve una fatalità lasciare l’omino solo tra questi domestici morti, che si animavano mentre la porta si chiudeva». Poco prima è lo stesso inventore ad ammettere gli «svantaggi» delle sue creazioni: sebbene efficientissime, non hanno la benché minima facoltà intellettiva, non hanno nemmeno la parola, e perciò «non mi possono dire chi abbia portato queste lettere minacciose nel mio appartamento».



    Se, nell’epilogo, la soluzione del caso appare un po’ troppo semplicistica, il lieto fine rimane comunque stupendo, a sottolineare come la misericordia, pur non escludendo la giustizia, le sia infinitamente superiore: «Padre Brown camminò su quelle colline coperte di neve, sotto le stelle, per molte ore, con un assassino; e quello che si dissero i due non sarà mai risaputo».

  9. #159
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Henry Edward Manning: le opere e i giorni di un grande cardinale vittoriano (Seconda parte: la conversione)






    Per chi si fosse perso il primo articolo, intitolato Il periodo anglicano: https://www.radiospada.org/2021/04/henry-edward-manning-le-opere-e-i-giorni-di-un-grande-cardinale-vittoriano-prima-parte-il-periodo-anglicano/

    Prima di iniziare, per approfondire la figura di Manning e quella di molti altri intellettuali del cattolicesimo britannico, si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto: http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/narrativa/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    4. La mancata polemica con Newman

    Manning era in cerca di certezze dottrinali e, allo stesso tempo, iniziava ad accorgersi di come la Chiesa d’Inghilterra fosse impotente, ormai ridotta a mero strumento politico nella mani del governo. Per il momento, comunque, si rifiutava di accettare la conclusione di Newman che la lotta per dimostrare la cattolicità dell’anglicanesimo fosse una causa persa. Come confidò per lettera al suo nuovo mentore, il Reverendo Robert Wilberforce – che sarebbe morto nel 1857 da cattolico, poco prima dell’ordinazione sacerdotale – «Mi pare che la nostra teologia sia nel caos, non abbiamo principi, nessuna forma, nessun ordine, o struttura, o scienza. Mi sembra inevitabile che ci debba essere una tradizione evangelica intellettualmente vera ed esatta, e che la teologia scolastica costituisca (più o meno) una simile tradizione. Noi l’abbiamo rigettata e non l’abbiamo sostituita con niente».

    Qualcosa iniziò a mutare nel suo atteggiamento quando, poco dopo l’ingresso ufficiale nella Chiesa di Roma, nel 1845, Newman pubblicò An Essay on the Development of Christian Doctrine: il suo obiettivo principale era quello di dimostrare la ragionevolezza, da parte cattolica, nel predicare dottrine apparentemente senza alcun legame con le pratiche della Chiesa primitiva; nel fare ciò Newman colse pure l’occasione per attaccare l’anglicanesimo. Per Gladstone era assolutamente necessaria una risposta e non ci pensò due volte a contattare Manning che sapeva essere, nel mondo anglo-cattolico, lo spirito più pugnace. L’Arcidiacono si mise subito al lavoro, ma i dubbi e le esitazioni lo fecero vacillare al punto che il manoscritto non vide mai la luce. Sebbene considerasse An Essay un lavoro di puro genio, la sua indole, istintivamente attratta dai principi immutabili, gli fece intuire prima di altri che Newman si stava avventurando su un terreno scivoloso («La sua mente è sottile fino all’eccesso»). Più che dalla teoria dell’evoluzione dei dogmi Manning fu dunque colpito dalle argomentazioni dell’amico che, tra storia e teologia, dimostrava chiaramente come la Chiesa di Roma fosse l’unica fondata sulla roccia della certezza dottrinale, garantita da un’autorità infallibile: «Mi ha aperto gli occhi su un fatto», scrisse di nuovo a Wilberforce, «cioè che ho sempre e solo considerato una parte del problema. Ho trovato la regola (nelle tradizioni della Chiesa) ma non il giudice».



    L’Arcidiacono, roso da dubbi crescenti che Gladstone si ostinava a non comprendere, nel 1847 finì per ammalarsi gravemente e fu costretto a trascorrere tre mesi a letto. Durante quel periodo la paura di morire, reale o immaginaria, andò a sommarsi alle usuali preoccupazioni sulla stato della propria anima. Fu perciò molto sollevato quando, una volta guarito, poté accostarsi al confessionale, molto probabilmente per la prima volta in vita sua. Per la convalescenza gli fu consigliato di passare del tempo in Italia, a Roma, dove arrivò a fine novembre, non prima di aver assistito, con commossa partecipazione, a diverse celebrazioni liturgiche in Francia.

    5. Un cambio di rotta

    A differenza di Newman, che mai apprezzò Roma e i romani, col tempo Manning imparò ad amare la Città Eterna nonché a parlare fluentemente l’italiano.

    Giuntovi con la curiosità di essere aggiornato sulle ultime novità politiche, per un periodo frequentò Padre Gioacchino Ventura, discepolo di Lamennais, e quei cattolici liberali che gravitavano intorno al Circolo Romano, un’organizzazione di stampo radicale. Nonostante i lunghi colloqui con Ventura, che fu anche il primo a introdurlo alla questione irlandese, Manning era sempre più convinto dell’origine divina della Chiesa cattolica ed era solidale con il Papa che stava attraversando uno dei tanti periodi delicati di quello che si sarebbe rivelato un pontificato difficilissimo: «E’ impossibile non amare Pio IX. Il suo è il volto più inglese che abbia mai visto in Italia». In aprile, insieme ad altri turisti britannici, venne presentato al Papa e il mese dopo gli fu concesso l’onore di un’udienza privata di circa mezz’ora. Per l’Arcidiacono fu un momento particolarmente significativo poiché, parlando col Pontefice, si rese conto – e fu come un fulmine a ciel sereno – che la Chiesa anglicana, nel Continente, era poco conosciuta e stimata, trattata dai più alla stregua di una curiosa setta pagana. Da parte sua Pio IX non dimenticò mai la prima volta che vide Manning, inginocchiato in Piazza di Spagna al passaggio della carrozza papale.



    Sulla via del ritorno a casa l’Arcidiacono si fermò a Milano per visitare la tomba di San Carlo Borromeo: «Durante la preghiera volevo conferme che San Carlo, incarnazione del Concilio di Trento, avesse ragione e noi torto. Il diacono stava cantando il Vangelo, e le ultime parole, et erit unum ovile et unus pastor, mi colpirono come se non le avessi mai sentite prima».

    Nel frattempo le prove a sfavore della Chiesa d’Inghilterra andavano accumulandosi fino a quando, nel 1850, con lo scoppio di quello che giornalisticamente venne bollato come il “caso Gorham”, Manning capì che per lui era venuto il momento di un cambio di rotta esistenziale.

    Vicario di Brampford Speke, il Reverendo George Cornelius Gorham era stato destituito dal suo ordinario, il Vescovo di Exter, Henry Phillpotts, per aver negato la dottrina della rigenerazione battesimale. Gorham aveva fatto ricorso al Privy Council che finì per dettare sentenza a suo favore, annullando conseguentemente il provvedimento vescovile. Lo scandalo che ne venne fu notevole: non solo lo Stato interveniva nell’ambito ecclesiastico – prassi del resto diffusa e che già vent’anni prima aveva causato la nascita del Movimento di Oxford – ma addirittura si arrogava il diritto di definire, seppur per via traversa, questioni di natura dottrinale.

    Si trattò di un abuso senza precedenti e ciò convinse l’Arcidiacono, nel marzo del 1851, a rassegnare le dimissioni. Dopo un lungo travaglio interiore, trovò la forza per mettere da parte ogni scrupolo residuo nei confronti dei famigliari e degli amici, venendo infine accolto nella Chiesa cattolica il 6 aprile da Padre Brownbill presso la cappella dei gesuiti di Farm Street (fino ad allora nessuno così in alto nella gerarchia anglicana aveva mai imboccato la strada per Roma).



    Basterebbe solo questo fatto per smentire i tanti che hanno tentato di accusare Manning di essere un “carrierista” o un “populista”, cioè di appoggiare furbescamente una causa con l’obiettivo esclusivo di trarne un qualche vantaggio personale (l’ha fatto pure Disraeli nel suo romanzo Lothair, del 1870, dove Manning compare nei panni del machiavellico Cardinale Grandison): non solo lasciando l’anglicanesimo egli rinunciò a un incarico episcopale quasi certamente garantito, ma, come sottolinea Robert Gray, «era diventato devoto di Pio IX quando il Papa veniva accusato da tutte le parti di essere un traditore» e «si fece cattolico in Inghilterra quando gli inglesi erano imbevuti di pregiudizio protestante». Per di più la Chiesa cattolica inglese, la cui gerarchia era stata appena restaurata ufficialmente dal Papa con il breve Universalis Ecclesiae, era all’epoca una risibile minoranza costituita soprattutto da immigrati irlandesi. Inoltre il nuovo Arcivescovo di Westminster, il Cardinale Nicholas Patrick Wiseman, aveva un bel daffare a mantenere la concordia tra i vari vescovi – memori della mutua indipendenza dei vicari apostolici – e a tenere buoni i “vecchi cattolici”, ossia i discendenti di quelle famiglie che avevano resistito nell’antica Fede durante la Riforma e che ora guardavano con fastidio alle ingerenze di Roma nei loro affari. Infilandosi in un simile ginepraio, solo uno folle avrebbe potuto pensare di assicurarsi una facile carriera…

    La vita di Manning prosegue domenica 25 aprile 2021 con la Terza Parte, intitolata Il sacerdote.

  10. #160
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [IL MERCOLEDÌ DI PADRE BROWN] “L’onore di Israel Gow”: la Scozia, il calvinismo diabolico e un curioso servitore avido



    di Luca Fumagalli

    Continua con questo nuovo articolo la rubrica infrasettimanale di Radio Spada dedicata all’approfondimento e al commento dei racconti di Padre Brown, il celeberrimo sacerdote detective nato dalla penna di G. K. Chesterton, tra i più grandi intellettuali cattolici del Novecento. I racconti, a metà strada tra investigazione e apologetica, hanno per protagonista il buffo e goffo Padre Brown, interessato sia a risolvere i crimini che a salvare le anime dei colpevoli.

    Per una disamina introduttiva sulla figura di Padre Brown – protagonista pure di vari film, sceneggiati per la televisione e, addirittura, fumetti – si veda il breve articolo al seguente link: https://www.radiospada.org/2018/11/padre-brown-il-grande-sacerdote-investigatore-ideato-da-chesterton/

    Per le precedenti puntate: “La Croce azzurra” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-la-croce-azzurra/?preview_id=68448&preview_nonce=0e78c0ea50&preview =true&_thumbnail_id=68461 “Il giardino segreto” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-giardino-segreto-storia-di-un-fondamentalista-ateo/ “Il passo strano” https://www.radiospada.org/2021/03/il-mercoledi-di-padre-brown-il-passo-strano-quando-il-sacerdote-investigatore-evito-un-delitto-e-forse-salvo-unanima/ “Le stelle volanti” https://www.radiospada.org/2021/04/il-mercoledi-di-padre-brown-le-stelle-volanti-il-pericolo-del-socialismo-e-il-pentimento-di-un-criminale/ “L’uomo invisibile” https://www.radiospada.org/2021/04/il-mercoledi-di-padre-brown-luomo-invisibile-lombra-inquietante-della-tecnologia/

    L’onore di Isreael Gow (The Honour of Israel Gow), sesto racconto della raccolta L’innocenza di Padre Brown (1911), è una storia brillante, caratterizzata da un brusco cambio di rotta nel finale, che trasporta il lettore in una Scozia da romanzo gotico, tra notti buie e tempestose, mentre sullo sfondo compare la forma minacciosa del castello di Glengyle: «Questa nota di sognante, quasi dormiente diabolicità non era una fantasia dovuta esclusivamente al paesaggio, poiché sul luogo incombeva una di quelle nubi d’orgoglio, di follia e di misteriosa angoscia che pesano più gravemente sulle nobili case di Scozia che su qualunque altra gente. Infatti la Scozia ha una doppia dose di quel veleno che si chiama ereditarietà; il senso della stirpe, e il senso della predestinazione calvinista». Sul lato luciferino di certi scozzesi il giudizio di Padre Brown è lapidario: «Gli scozzesi, prima che esistesse la Scozia, erano gente strana. Infatti sono strani ancora. Ma io immagino che nei tempi preistorici essi adorassero, in vero, dei demoni. E perciò – aggiunse con piacevole benignità – si diedero alla teologia puritana. […] Tutte le religioni presentano una caratteristica: materialismo. Ora, anche il culto di Satana è una vera religione».

    Il prete è appena giunto al castello da Glasgow, dove era impegnato in faccende ecclesiastiche, per aiutare l’amico Flambeau e l’ispettore Craven di Scotland Yard a investigare sulla strana morte del Conte di Glengyle. La descrizione di quella terribile dinastia è un ennesima stoccata di G. K. Chesterton al protestantesimo: «Il misterioso personaggio era stato l’ultimo rappresentante di una schiatta che il valore, la pazzia e la violenta astuzia avevano resa terribile, anche fra la sinistra aristocrazia del suo paese nel sedicesimo secolo. Nessuno era andato più a fondo di loro in quel labirinto di ambizioni, nessuno più addentro a quel palazzo di menzogne costruito intorno a Maria, Regina di Scozia. I versi popolari nel paese attestavano candidamente il motivo e il risultato delle loro macchinazioni: “Come agli alberi estivi / la verde linfa, / così agli Ogilvie / l’oro che rosso brilla”».

    Il Conte, però, a differenza dei suoi avi, era un tipo tranquillo, così riservato che, in effetti, nessuno lo aveva mai visto. Il domestico Isreale Gow, un tuttofare silenzioso, era l’unico ad avere rapporti con lui ed è anche colui che, una mattina, si è preso la briga di contattare il sindaco e il pastore presbiteriano del luogo per denunciare la morte del padrone, subito seppellito nel cimitero sulla collina.



    In un salone inquietante, da storia dell’orrore, i tre investigatori si trovano così a stilare un inventario dei curiosi oggetti appartenuti al Conte, sparsi per tutta la casa: vi sono pietre preziose, mucchi di tabacco da naso sciolto – non tenuto in corni e neppure in sacchi – pezzettini di metallo, candele di cera, grafiti tolte da matite, messalini e alcune immagini cattoliche «che gli Ogilvi conservarono […] dal Medio Evo, essendo stato più forte l’orgoglio di famiglia del loro puritanesimo». La presenza di quegli oggetti potrebbe avere diverse spiegazioni – e Padre Brown coglie la palla al balzo per dare un saggio della sua intelligenza – ma c’è un particolare inquietante che non sfugge all’attenzione del piccolo sacerdote: «Questa è una cosa seria, […] Io conosco solo una ragione per fare questo: una ragione che scende in fondo alle radici del mondo. Queste immagini religiose non sono soltanto insudiciate, lacerate o scarabocchiate, cose che avrebbero potuto esser fatte per ozio o fanatismo, da dei bambini o da dei Protestanti. Sono state trattate molto accuratamente… e in modo molto strano. In ogni punto dove, in grandi lettere ornamentali, nelle vecchie miniature compare il nome di Dio, questo è stato tolto. La sola altra cosa che è stata staccata è l’aureola intorno alla testa del Bambino Gesù. Perciò, io dico, prendiamo l’autorizzazione, la vanga e la scure, e andiamo ad aprire quella bara».

    Dopo aver raggiunto la collina e disseppellito la bara, Padre Brown, Flambeau e l’ispettore Craven scoprono un cadavere privo di testa. A questo punto, con le indagini impantanate in un mistero che pare indecifrabile, non resta che cercare consiglio nel sonno: «“Dormire!”, disse Padre Brown. “Dormire. Siamo giunti in fondo. Sapete che cos’è il sonno? Sapete che ogni uomo che dorme crede in Dio? È un Sacramento: perché è un atto di fede ed è un nutrimento. E noi abbiamo bisogno di un Sacramento, anche se è soltanto naturale”».

    La mattina, con un cielo privo di nuvole, fa da sfondo a un epilogo inaspettatamente positivo, che non ha nulla a che spartire con le cupe atmosfere d’inizio racconto (sebbene la testa del Conte venga quasi immediatamente ritrovata nel giardino). I compagni, appena alzati, scovano un Padre Brown pensieroso, intento a fumare la pipa e a osservare attentamente Gow al lavoro. Basta una fugace osservazione di Flambeau sull’arte del crimine e sulle sue visite dal dentista per far raccendere il buonumore nel prete: «“Amici abbiamo passato una notte all’inferno; ma ora il sole s’è alzato, gli uccelli cantano, e la radiosa immagine del dentista consola il mondo”. […] Padre Brown represse quasi un impulso a danzare sul prato illuminato dal sole, e disse con voce supplichevole, come un bimbo: “Oh, lasciatemi fare un po’ lo sciocco! Non sapete quanto sono stato infelice. Ma ora so che in questa faccenda non c’è stato nessun peccato grave. Solo un po’ di pazzia, forse… ma a chi importa?”. Fece un giro in tondo, poi guardò gli altri seriamente. “Questa non è storia di delitti”, disse, “ma piuttosto la storia di una strana e contorta onestà. Abbiamo a che fare con il solo uomo sulla terra, forse, che non abbia preso più di quello che gli spettava”».



    Nell’epilogo, dopo essersi ripreso da quella gioia che solo chi ha in odio il peccato può conoscere, il sacerdote investigatore offre la soluzione del mistero che, per fortuna, non ha nulla a che fare con crimini più o meno diabolici. A Israel Gow il Conte ha lasciato in eredità tutto il suo oro, e l’uomo – un ebreo forse un po’ troppo avido ma al fondo giusto – ha semplicemente preso ciò che gli spettava di diritto, ovvero tutto l’oro presente nella casa, compreso quello delle scritte nei messalini e sulle immaginette: «Andrà tutto bene! Rimetterà il cranio al suo posto, appena avrà tolto l’oro dai denti!».

 

 
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