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Discussione: Anglica catholica

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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La comunità tradizionale e la lunga ombra del progresso nichilista: leggendo “Greenvoe”, il primo romanzo di George Mackay Brown

    di Luca Fumagalli

    Continua con questo articolo l’approfondimento sulla vita e le opere dello scrittore scozzese George Mackay Brown (1921-1996), tra gli autori più interessanti e originali del panorama letterario cattolico del Novecento. Per chi si fosse perso i contributi precedenti:

    Il bardo delle Orcadi: le opere e i giorni di George Mackay Brown
    “Magnus” di George Mackay Brown: note a margine di un capolavoro della letteratura cattolica scozzese



    Greenvoe, isola di Hellya, Orcadi. È una limpida giornata d’estate e nel piccolo villaggio si consumano i semplici riti della quotidianità: alle prime luci dell’alba i pescatori prendono il largo con le loro barche, il traghetto inizia la sua opera di collegamento caricando merci e passeggeri, e nell’entroterra i contadini si vestono per andare nei campi o verso le stalle. Un paio di ore più tardi un vociare di ragazzi per le strade annuncia che la scuola sta per cominciare mentre la maestra li attende sulla soglia dell’edificio, scampanellando col sorriso. Le donne, intanto, si occupano della casa o escono per fare le compere e per scambiare qualche pettegolezzo. Nessuna novità ad eccezione del fatto che la nipote del laird locale, come ogni anno, è venuta a Greenvoe per passare le vacanze presso la splendida magione dello zio, poco fuori dal paese. Alla sera, mentre le mogli e i figli ritrovano la via del letto, gli uomini si incontrano all’hotel-locanda per ascoltare storie sul passato mitico dell’isola, rinfrancati pure da un buon boccale di birra. Oltre a quella del locale, l’unica luce accesa proviene da una delle fattorie, dove, dietro porte opportunamente chiuse a chiave, qualcuno viene iniziato all’Antico Mistero dei Fabbri Ferrai, uno strano ordine legato alla fecondità della terra.

    Così trascorrono le giornate a Hellya, sempre uguali, nella placida serenità di un popolo che vive secondo i ritmi della natura, tenacemente ancorato alle proprie radici, alla propria storia, senza alcuna ambizione se non quella di condurre un’esistenza dignitosa, pur tra grandi fatiche e sacrifici. Eppure tutto questo è destinato a scomparire per sempre: prima è solamente una discreta intrusione – un forestiero che prende alloggio all’hotel e che, nel segreto della sua camera, scrive a macchina da mattina a sera – poi una vera e propria invasione di operai e sinistri burocrati i quali, in nome di una misteriosa “Operazione Stella Nera”, prendono a scavare cunicoli che sventrano l’isola, ad inquinare le acque e ad abbattere le case, costringendo gli abitanti alla fuga. Greenvoe è ridotta a un cumolo di macerie e rifiuti, abbandonata infine anche da coloro che ne hanno causato la rovina.



    Nelle pagine di George Mackay Brown le Orcadi, «un grappolo di isole nell’ostrica dischiusa dell’aurora», si trasformano in una sorta di Galilea del nord, perennemente in bilico tra terra e cielo, tra realtà e intuizione spirituale, tra meschinità e virtù. I pani e i pesci sono infatti i simboli di un microcosmo che fa della passione per la vita – che è, allo stesso tempo, amore e dolore – la sua cifra distintiva. Se esso appare sulle prime indecifrabile, nulla più che un intrico complessissimo di individualità e aspirazioni, di passato e presente, dove improvvisi slanci lirici si insinuano elegantemente tra le pieghe della storia per accentuare un clima di sospensione surreale, poco alla volta si rivela quale quadro perfetto, coerente fin nel più piccolo particolare. Ribaltando nel finale l’arazzo della trama – il “tapestry” è un’altra immagine chiave della poetica di Brown – il singolo filo si scopre parte di un disegno che è insieme umano e divino, l’esito degli indizi raccolti alla spicciolata dal lettore nel corso dei vari capitoli. Così accade in Magnus (La svastica e la croce), il capolavoro dell’autore scozzese, ma pure in Greenvoe (1972), il suo romanzo d’esordio, tradotto in Italia dalla piccola casa editrice Tranchida con il titolo appena modificato di Un’estate a Greenvoe (purtroppo il volume, datato 2000, è fuori stampa da un pezzo ed è abbastanza complicato riuscire a procurarsene una copia).



    Greenvoe (Birlinn Ltd, 2004)

    Tuttavia sarebbe un errore pretendere di scorgere nella comunità dell’immaginaria isola di Hellya – un concentrato quintessenziale dello spirito orcadiano – una sorta di ideale utopico incarnato. Nonostante l’amore incondizionato dell’autore sia tutto per le Orcadi, al pari degli abitanti della Brescello di Guareschi anche quelli di Greenvoe non sono certo esenti da difetti: il pescatore Bert Kersten, ad esempio, spesso litiga con la moglie Ellen e preferisce la bottiglia ai figli, mentre Samuel Whaness, un devoto cristiano, mostra a volte una certa spocchia farisaica. Pure lo Skarf, appassionato scrittore di storia locale, anche se si professa socialista non si fa troppi scrupoli a insultare malamente Johnny, un venditore ambulante di origini indiane che periodicamente approda sull’isola per vendere le sue cianfrusaglie. I fratelli Scorradale, i proprietari dell’hotel-locanda di Greenvoe, offrono ai clienti whisky a buon mercato spacciandolo per liquore pregiato, e per le vie i ragazzi passano con velocità imbarazzante dal gioco agli insulti e ai pugni. Simon McKee, il ministro presbiteriano dei Hellya, è un alcolista cronico, ennesimo esempio di “whisky priest” alla Graham Greene, e fa il paio con l’anziana madre – il personaggio preferito di Brown – che, vittima di allucinazioni, si aggira per la canonica in compagnia dai fantasmi del suo passato che la accusano, tra le altre cose, di essere stata la principale causa dei problemi di Simon e della conversione al cattolicesimo della nipote. Vi è poi Alice Voar, madre di sette figli avuti da sette uomini diversi, e il traghettatore Ivan Westray, burbero e violento, che approfitta dall’ingenua Inga e che desidera a ogni costo la maestra Margaret Inverary, a sua volta incerta se concedersi o meno. Naturalmente a completare il quadro, oltre al vecchio lupo di mare Ben Budge, ammalato ma non per questo meno propenso alla bestemmia, e a sua sorella Bella, non poteva mancare lo “scemo del villaggio”, Timmy Folster, un accattone ritardato che vive in una casa diroccata e che dorme su un letto di vecchi cappotti, e la classica pettegola, Olive, moglie di Joseph Evie, ufficiale postale, negoziante, consigliere di contea e giudice di pace, ammanicato con il laird e astuto intrallazzatore. Come nota Valentina Poggi, «in quel microcosmo [Brown] vedeva affiorare, oltre alle peculiarità locali, le grandi tematiche che riguardano il macrocosmo: i problemi della violenza e delle aberrazioni del potere, il pericolo di barattare la primogenitura dell’armonia fra uomo e ambiente per il piatto di lenticchie dello sviluppo indiscriminato, la conseguenza di un ecosistema sconvolto da una tecnologia impazzita divenuta fine a se stessa».



    Greenvoe mette così in scena lo sradicamento e l’esodo di una piccola comunità che soccombe davanti a un potere anonimo e terribile, a un progresso ributtante che lascia dietro di sé solo cenere e cadaveri. La scala ridotta dell’evento è smentita dal parallelo istituito con la Bibbia: la struttura in sei capitoli – cinque corrispondenti ad altrettante giornate successive, l’ultimo dedicato alla rovina di Hellya – rimanda al racconto della creazione, ribaltato però in senso distruttivo. Il fatto che Brown non chiarisca mai la natura del complotto in atto rende la vicenda ancora più inquietante, ottima per esemplificare i suoi timori nei confronti della montante idolatria tecnologica: «C’è una nuova religione, il progresso, nel quale noi tutti crediamo devotamente, ed è interessato solo alle cose materiali del presente e a un vago futuro radioso. Si tratta di una fede utilitaria e senza radici […]. Penso che questa religione sia in gran parte una delusione, e si esaurirà nel fango». Altrove scrisse: «Il progresso, una maledizione moderna. […] Questo culto del progresso succhierà la vita di ogni isola e di ogni luogo solitario».

    Leggere Greenvoe significa dunque percorrere le stradine – il diminutivo è d’obbligo – di un mondo che è sia reale che onirico, quasi ultraterreno, un microcosmo che, per quanto macchiato dai limiti dei suoi abitanti, custodisce gelosamente un lembo di Paradiso e che perciò non potrà mai venire completamente sopraffatto dalle oscure forze del caos e della modernità. L’epilogo, nonostante l’inquietante recinzione che avvolge l’isola, le strutture fatiscenti mai ultimate da Stella Nera e i crateri scavati nei campi, lascia ancora spazio a una piccola speranza, quella cioè di un ritorno alla comunione con Dio, con la vita e con la natura, il fondamento di ogni comunità tradizionale: dieci anni dopo la fine di Greenvoe, una barca con gli ex ragazzi del paese, ormai adulti, approda sulla spiaggia. Recano con sé tutto l’occorrente per completare finalmente il rito di iniziazione dell’Antico Mistero dei Fabbri Ferrai, un inno alla terra e ai suoi frutti: «Sorse il sole. Le pietre erano calde. Spezzarono il pane».

  2. #142
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Saggi cattolici”: Graham Greene, la letteratura, la Fede



    di Luca Fumagalli

    «Dove abbonda il peccato sovrabbonda la Grazia» (San Paolo)

    Pubblicato nel 1958 per la Mondadori, il volume Saggi cattolici – tradotto dall’originale francese del 1953 – è una breve collezione di alcuni interventi dell’inglese Graham Greene (1904-1991), tra gli scrittori più importanti del Novecento. Oltre che per i suoi best seller, perlopiù storie di spionaggio dalle tinte noir, Greene è ricordato ancora oggi per essere stato un simbolo del cattolicesimo “progressista”, entusiasta sostenitore delle riforme conciliari, vicino al comunismo e alla teologia della liberazione.

    Tuttavia i suoi Saggi cattolici, a tema religioso e letterario, contengono alcuni spunti di riflessione davvero interessanti, come interessante è la narrativa dell’inglese, drammaticamente efficace nel percorrere il crinale della libertà umana, nel gettarsi a capofitto nel mare grigio della vita, dove il confine tra il Bene e il Male non è mai facilmente distinguibile (lo ricorda anche David Maria Turoldo nella prefazione del libro). Naturalmente dall’ambiguità all’eterodossia il passo è breve, ma l’opera di Greene, al netto di qualche scivolone, rimane uno dei più straordinari incontri con la Grazia divina in letteratura, quest’ultima mai ridotta a quel deus ex machina un po’ posticcio che si incontra purtroppo in moltissimi romanzi del cattolicesimo britannico (e non solo).

    “Il cristiano nel tempo”, il primo saggio della raccolta, si risolve in una manciata di rapide considerazioni a proposito della tentazione mondana e della “buona battaglia”. L’epilogo è una distillato del miglior Greene: «I nostri avversari sono più numerosi di noi, ma sono inferiori di numero ai nostri morti, ai quali più ancora che a noi appartiene la Chiesa. I nostri morti essi non possono né ucciderli né guastarli, e i loro stessi morti, ormai, sono dalla nostra parte».



    l secondo saggio, più interessante e complesso, si intitola “E’ in pericolo la civiltà cristiana?”. Secondo Greene, dato che la perfetta imitazione di Cristo è impossibile in questa vita, la civiltà cristiana non può coincidere con una società utopica dove regnano virtù e giustizia – storicamente mai esistita – ma si distingue dalle altre unicamente per «lo spirito indeciso, la coscienza inquieta, il sentimento dello scacco personale». Negli ultimi anni vi sono stati svariati tentativi di distruggerla «con l’aiuto di una nuova filosofia, intesa a persuadere gli uomini che Lazzaro è senza importanza»; inoltre, nota ancora Greene, sia in Occidente che in Oriente sempre più spesso i capi politici fanno appello a valori generici e astratti, dando la fastidiosa impressione che l’individuo – il destinatario del messaggio cristiano – ormai non conti nulla. E’ dunque in pericolo la civiltà cristiana? Certamente, ma «siamo tenuti a credere che la Fede non può morire. Può subire rovesci, vasti spazi del mondo possono essere conquistati dai suoi nemici, ma sempre sussisteranno zone di resistenza cristiana». Per esemplificare meglio ciò che intende dire, in conclusione l’autore tratteggia un breve apologo dal sapore apocalittico, la storia di un dittatore che uccide l’ultimo cristiano sulla faccia della terra: «In quel momento, tra il secondo in cui il dito preme il grilletto e quello in cui il cranio scoppia, un pensiero attraversava lo spirito del Capo: “Sarebbe mai possibile che ciò che quell’uomo credeva fosse verità?”. Un nuovo cristiano nasceva nel dolore».

    Il successivo “I paradossi del cristianesimo” – un titolo chestertoniano che ricorda pure quello del libro I paradossi del cattolicesimo (1913) di mons. R. H. Benson – è un’analisi acuta di come il cristianesimo sia basato sul paradosso essenziale dell’onnipotente, universale coesistenza del Male e del Bene: «Dove Dio è più intensamente presente, lo è anche il suo Nemico. E viceversa: là dove il Nemico è assente ci sembra quasi impossibile scoprire Iddio». Esemplificativa in tal senso è la vicenda di padre Damien de Veuster, un missionario di fine Ottocento che morì aiutando i malati di lebbra alle Hawaii (una figura che torna pure nel romanzo greeniano Un caso bruciato, del 1960): per uno strano scherzo del destino a rendere famoso il religioso belga in tutto il mondo è stato il suo più accanito diffamatore, un pastore protestante di Honolulu, con cui si scontrò anche R. L. Stevenson. Più che il paradosso o l’incoerenza, il vero nemico dell’uomo moderno è «la semplificazione», cioè «lo spettacolo di popoli interi che hanno edificato la loro vita sull’assenza del paradosso». Il suo esito, infatti, non è la felicità garantita, anzi: lo dimostrano i paesi del nord Europa, modello di ordine, di efficienza e di pulizia, che però vantano il più alto tasso di suicidi al mondo.



    Pio XII, di cui Greene dipinge un ritratto inusuale quanto affascinante, è il protagonista del saggio “Il paradosso del Papa”. Nonostante la lunga carriera nella diplomazia vaticana, allo scrittore inglese Pacelli pare la quintessenza del buon parroco, umile, mite, fiduciosamente legato alla preghiera: «Tale è il paradosso essenziale di un Papa che non pochi di noi pensano possa prendere posto tra i più grandi». Pio XII è uno spirito eccezionale, grondante amore, dotato di una «genialità intuitiva», e ciò continua a valere anche se le sue encicliche sono eccessivamente formali e asettiche, e anche se la sua azione pastorale appare un po’ troppo rigida (ma Greene non si fa troppi problemi a scaricare sui burocrati vaticani la totale responsabilità della messa all’indice degli scritti di Sartre e della revoca del diritto di insegnare «a certi gesuiti francesi»).

    Dopo “La Madonna e la sua Assunzione”, una difesa del dogma mariano – «chiave di volta della dottrina cristiana» – che rivela la devozione profonda di un Greene ancora distante dalle posizioni più eterodosse degli anni seguenti, in “L’aspetto religioso di Henry James” l’inglese dimostra come James, al contrario di quanto sostenuto da più di un critico, fosse uno scrittore sinceramente attratto dal cattolicesimo: «Alle epoche di stanchezza morale, ai momenti di crisi, i suoi personaggi dirigono inevitabilmente i propri passi verso il chiaroscuro di una navata, verso un altare dove arde una lampada». Perché, allora, non fece mai l’ultimo passo verso la Chiesa, abbracciando la Fede? «La sua religione è sempre stata lo specchio della sue esperienza. L’esperienza gli aveva insegnato a credere nel male soprannaturale, ma non al bene soprannaturale».

    La seconda parte di Saggi cattolici, più contenuta rispetto alla prima, contiene due lettere di Greene sul senso della scrittura e un’intervista – associata a un’ulteriore epistola – incentrata soprattutto sul romanzo Il nocciolo della questione (1948), la dolorosa storia di un ufficiale di polizia che decide di togliersi la vita per un “eccesso di pietà” nei confronti della moglie e dell’amante.



    A parere di Greene, antesignano di una nuova letteratura cattolica più personale, contraddittoria, lontanissima dal modello apologetico “a tesi” di inizio Novecento, sono due i doveri del romanziere: «Dire la verità, così come lui la vede», e non accettare alcun compenso da parte dello Stato, abilissimo a blandire per poi imbavagliare. Il più grande privilegio di chi scrive è perciò «l’infedeltà» – «altrimenti non possiamo dimostrare né comprensione né simpatia verso chi non la pensi come noi» – e i libri «non hanno nulla a che fare con l’edificazione spirituale. Con ciò non voglio affermare che la letteratura sia amorale, ma che ha una sua morale propria, e la morale di un individuo coincide assai di rado con la morale del suo gruppo». Dopo aver citato l’amato Browning, l’autore continua: «Come romanziere mi dev’essere concesso di scrivere tanto dal punto di vista degli scacchi bianchi quanto di quelli neri. […] I romanzieri cattolici (ma preferirei chiamarli romanzieri che sono anche cattolici) dovrebbero scegliere a loro patrono il cardinale Newman» (il porporato difendeva così l’insegnamento della letteratura nelle università cattoliche: «Se la poesia deve servire allo studio della natura umana, non si pretenda una letteratura cristiana. È un controsenso, infatti, voler ritrarre un’umanità peccatrice in una letteratura scevra di peccato»). In chiusura, sempre Greene: «Non c’è niente di peggio per un autore che il mettersi a scrivere libri per convertire la gente. Se si è cattolici non bisogna studiarsi di “scrivere cattolicamente”. Tutto ciò che si scrive e si dice non potrà che essere cattolico».

  3. #143
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Tra ebrei di New York, riviste letterarie e cardinali: un ritratto di Henry Harland



    AVVISO IMPORTANTE: Per i lettori che seguono con passione le pagine culturali di Radio Spada dedicate ai grandi scrittori cattolici del panorama britannico, si annunciano succulente novità editoriali. Nei prossimi giorni non mancheranno nuovi aggiornamenti: restate connessi!



    Nel marzo del 1906, a pochi mesi dalla prematura scomparsa di Henry Harland, E. C. Stedman, l’uomo che ne aveva propiziato la carriera, indirizzò alla vedova una manciata di righe consolatorie: «Il suo lavoro, il suo nome, e ciò che tu sei stata per lui e per il suo genio, non moriranno». Stademan non fu un buon profeta: oggi quasi nessuno legge i libri di Harland, un autore che viene evocato il più delle volte unicamente in relazione allo «Yellow Book», la rivista inglese simbolo dello spirito fin de siècle di cui fu l’infaticabile direttore. Certamente l’americano non può essere considerato un gigante della letteratura – nella sua corposa bibliografia i libri o i racconti davvero meritori si contano sulle dita di una mano – tuttavia fu sufficientemente abile per essere apprezzato dal grande pubblico, capace inoltre di alcune intuizioni sulla resa stilistica dei maccanismi dalla memoria che anticiparono le migliori pagine di Proust.

    Al pari di molti altri autori al tramonto del XIX secolo Harland era un uomo incline alla posa, avvezzo a nascondersi dietro la maschera del dandy e del bohemien, che provava un particolare gusto a far circolare sul proprio conto dicerie di ogni sorta (e in tanti – studiosi compresi – hanno continuato a prenderle per vere anche decenni dopo la sua morte). Nel tentativo di circondarsi di un’aura esotica, sosteneva di essere nato in Russia, a San Pietroburgo, ultimo discendente di una famiglia aristocratica, mentre in verità era venuto al mondo più prosaicamente a Brooklyn, il 1 marzo 1861, figlio di genitori di estrazione borghese. Suo bisnonno era emigrato dal Suffolk poco prima dello scoppio della guerra d’indipendenza e si era stabilito a Norwich, in Connecticut, dove aveva fatto costruire la grande dimora di Sentry Hill. Dal punto di vista religioso gli Harland erano unitariani anche se il padre di Henry, l’avvocato Tom Harland, in gioventù aveva manifestato una certa tendenza al libero pensiero; la madre, Irene Jones, aveva invece ricevuto una rigida educazione nel più puro stile quacchero.



    Com’è lecito attendersi, su Henry, l’unico sopravvissuto di tre figli, si concentrarono tutte le aspettative dei genitori che fecero pressione per orientarlo verso una carriera in ambito medico. Nel 1877 il ragazzo iniziò dunque a frequentare il City College di New York. I risultati furono però disastrosi: i voti erano bassi e il giovane Harland si distinse solo per le continue insubordinazioni e l’alto numero di note di demerito. Nel 1880 decise di interrompere anzitempo gli studi e l’anno seguente, come ultima spiaggia, si iscrisse alla Divinity School dell’Harvard University solo per abbandonarla pochi mesi dopo. In questo periodo, ormai orientato verso la letteratura, a un compagno di college che gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto una volta terminati gli studi, pare che Harland abbia risposto: «Mi piacerebbe diventare un poeta».

    Dopo un lungo soggiorno in Europa nel 1883 – Henry amava l’Italia e la Francia, due paesi che visitò in svariate occasioni e di cui tradusse i migliori autori, tra cui la Serao – il padre gli procurò un impiego presso il proprio ufficio e l’anno seguente poté coronare il sogno di sposare Aline Herminie Merriman, la donna che gli sarebbe rimasta accanto fino alla fine dei suoi giorni (sebbene tra i due, stando a quanto raccontato da diversi testimoni, non fossero rari i litigi e le incomprensioni).



    Intanto nei ritagli di tempo Harland continuava a coltivare ambizioni letterarie e nel 1885 riuscì finalmente a esordire con un romanzo, As It Was Written, firmato con lo pseudonimo di Sidney Luska, un espediente inteso soprattutto a evitare la figuraccia in caso di insuccesso. Contro ogni previsione il libro, un pastiche di occultismo, ebraismo e atmosfere gotiche, fu apprezzato sia dal pubblico che dalla critica e al suo autore furono avanzate offerte di collaborazione da parte di svariati periodici. Harland non ci pensò due volte ad abbandonare il lavoro per dedicarsi anima e corpo alla scrittura, e negli anni seguenti diede fondo alla propria vena creativa per pubblicare altri romanzi, in bilico tra il realismo e il sensazionalismo romantico, tutti invariabilmente ambientati nel mondo ebraico di New York.

    Al melodrammatico Mrs Peixada (1886) seguì The Yoke Of The Thorah (1887), forse il migliore tra i suoi primi lavori, in cui l’elemento ebraico non è solo una nota di colore ma è essenziale alla trama: la storia ha infatti per protagonisti due innamorati, un ebreo e una cristiana, ostacolati nelle loro intenzioni di matrimonio dal pregiudizio della famiglia di lui che vorrebbe vedere il ragazzo accasato con una donna del suo stesso credo. Se il successivo My Uncle Florimond (1888) – sulla cui copertina, sotto lo pseudonimo, tra parentesi, apparve per la prima volta il nome di Harland – si risolve in una semplice storia d’avventura per giovani lettori, più interessante è Grandison Mather (1889), un romanzo autobiografico incentrato sulla figura di un artista in crisi creativa.



    Perennemente in cerca di nuovi stimoli, in quello stesso anno Harland decise di partire per l’Inghilterra con la moglie. Si chiuse così il primo tempo della sua carriera d’autore: fatta salva una parentesi tra il 1902 e il 1904, non avrebbe mai più vissuto in America.

    Trascorsa qualche settimana a Parigi e in Galles, la coppia prese casa a Londra, in un appartamento al n. 144 di Cromwell Road destinato a essere ricordato come uno dei punti di ritrovo simbolo del milieu letterario fin de siècle. Harland, che nel frattempo era diventato un pupillo del poeta e critico Edmund Gosse, riorientò la propria narrativa verso il naturalismo di uno Zola, con tocchi alla Henry James, riducendo all’osso le trame per lasciare maggior spazio alla speculazione filosofica. Accantonò in via definitiva anche il vecchio nome de plume, ma i tre libri che videro la luce tra il 1890 e il 1891, Two Voices, Two Women or One? e Mea Culpa, vendettero poco o nulla. Come se non bastasse, allo scrittore fu poi diagnosticata la tubercolosi, una malattia debilitante che lo costringeva a lunghe pause forzate dal lavoro, ma che almeno ebbe il merito di spronarlo a percorrere la via del racconto breve, un genere meno impegnativo e all’epoca di gran moda, che culminò in tre raccolte piuttosto apprezzate: Mademoiselle Miss (1893), Grey Roses (1895) e Comedies and Errors (1898).




    Il vero annus mirabilis di Harland fu il 1894, quando venne pubblicato il primo numero dello «Yellow Book», la nuova rivista trimestrale da lui diretta. Frutto della coraggiosa iniziativa dell’editore John Lane, che intendeva proporre al pubblico un periodico nuovo, al passo con il gusto moderno, lo «Yellow Book» era dedicato principalmente alla letteratura e all’arte. Si distingueva dalla concorrenza non solo per il colore della copertina, un giallo acceso, ma anche per la particolare rilegatura che faceva somigliare ogni numero a un libro. Della cura grafica si occupava Aubrey Beardsley, reduce dai primi successi come illustratore. Alla redazione collaborarono quasi tutti gli scrittori più famosi del tempo tra cui, solo per fare qualche nome, Arthur Waugh, Max Beerbohm, Arnold Bennett, Ernest Dowson, George Gissing, Richard Le Gallienne, Olive Custance, Baron Corvo, Arthur Symons, H. G. Wells e William Butler Yeats. Lo stesso Harland contribuì con vari racconti e articoli, quelli più caustici firmati con lo pseudonimo “The Yellow Dwarf”. Unico assente illustre era Oscar Wilde, noto per disprezzare i romanzi dell’americano: quando quest’ultimo confessò all’acclamato autore del Ritratto di Dorian Gray di sentirsi nauseato ogni volta che terminava un nuovo lavoro, Wilde si era limitato a rispondere: «Non fatico a crederlo!».

    Nonostante l’iniziale successo, i primi segnali di crisi si avvertirono già nel 1895, quando una campagna denigratoria seguita all’incarcerazione dello scrittore irlandese spinse lo «Yellow Book» ad arretrare dall’avanguardismo decadente verso un compromesso tra tradizione e innovazione. Temendo un danno d’immagine, molte delle firme più illustri presero le distanze dalla rivista e per acquietare gli animi Lane fu pure costretto a licenziare Beardsley. Più avanti nuovi problemi di natura economica condannarono lo «Yellow Book» a una fine prematura: l’ultimo numero, il tredicesimo, venne pubblicato nell’aprile del 1897.



    L’anno seguente Harland e la moglie furono accolti nella Chiesa cattolica aggiungendo i loro nomi a quelli di tanti altri intellettuali britannici che all’epoca fecero la stessa scelta. Secondo Aline il marito «era da anni, almeno nello spirito, in comunione con la vera Fede. Era quello che si suole definire un “cattolico intellettualmente convinto”. Aveva una mente fatta per la metafisica. Le lezioni di catechismo con padre Charnley, un gesuita, non sollevarono da parte di Henry nessuna obiezione o difficoltà perché, molto probabilmente, era già illuminato e convinto dei dogmi della Santa Madre Chiesa». Al di là di una certa attrazione per la bellezza della liturgia, a spingere lo scrittore verso la conversione fu forse l’esempio di Beardsley, appena scomparso, divenuto anch’egli cattolico nel 1897. Scrivendo il necrologio dell’amico, Harland – che in un’intervista del 1903 si autodefinì «un papista bigotto» – non mancò di ricordarne la profonda e sincera devozione.

    La Chiesa di Roma è al centro anche degli ultimi tre romanzi dell’americano, contraddistinti dalle tinte pastello di un’ambientazione italiana di derivazione arcadica, un mondo idilliaco abitato da aristocratici in cui non vi è alcuno spazio per la bruttezza e lo squallore. The Cardinal Snuff-Box (1900), che si rivelò uno straordinario successo e che ancora oggi è il titolo più famoso di Harland, narra la storia di un giovane inglese che si converte al cattolicesimo grazie alla benevola influenza di un cardinale, zio della fanciulla che ama. Meno riusciti, Lady Paramount (1902) e My Firend Prospero (1904) si limitarono a ripetere la formula del loro predecessore, degni di menzione esclusivamente per alcuni brani in cui la liturgia della Chiesa è descritta in toni vivaci e commoventi.



    Nel 1904 una serie di emorragie costrinse Harland a riparare a San Remo nella speranza di ottenere un qualche giovamento dal clima mite della costa ligure. Purtroppo fu tutto inutile: le sue condizioni andarono rapidamente a peggiorare fino alla morte, che giunse il 20 dicembre, quando aveva solo quarantaquattro anni. Prima di spirare ricevette il conforto dei sacramenti da padre von Egloffstein, un amico, e nella primavera del 1906 la sua salma venne trasferita in America per essere sepolta nel cimitero di Norwich. Come ultimo tributo alla memoria del marito, Aline – aiutata da Gosse – volle completare il manoscritto del suo ultimo romanzo, lasciato incompiuto, che venne pubblicato nel 1909 col titolo The Royal End.

  4. #144
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    [NOVITA’ IN LIBRERIA] “Dio strabenedica gli inglesi!”: per la prima volta in Italia una storia della letteratura cattolica britannica





    Cari lettori di Radio Spada, la redazione è particolarmente lieta di annunciare la pubblicazione del nuovo saggio del nostro Luca Fumagalli…

    Dio strabenedica gli inglesi! è una collezione di diversi articoli apparsi sulle pagine culturali del blog Radio Spada, rivisti, ampliati e giustapposti con l’intento di fornire spunti critici per tracciare una storia della letteratura cattolica britannica degli ultimi due secoli (con particolare attenzione all’Inghilterra, ma pure alla Scozia e all’Irlanda). Il risultato è una vasta galleria di nomi e opere che comprende autori quali J. H. Newman, G. K. Chesterton, J. R. R. Tolkien, R. H. Benson, Hilaire Belloc, Evelyn Waugh, Bruce Marshall, Graham Greene e molti altri ancora, un tesoro artistico e religioso che viene per la prima volta svelato al lettore italiano. Il volume è ulteriormente impreziosito da una prefazione di Paolo Gulisano, medico e scrittore, e da una postfazione di Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana.

    L’autore: Luca Fumagalli è nato a Lecco nel 1985. Laureato in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, insegna in una scuola superiore. Ha scritto libri su svariati temi e autori tra cui William Golding, Robert Hugh Benson e J. R. R. Tolkien. Per le Edizioni Radio Spada, oltre ad aver curato i romanzi La storia dell’eremita Richard Raynal di mons. R. H. Benson (2013) e Fabiola o la Chiesa delle catacombe del cardinale N. P. Wiseman (2016), ha pubblicato il saggio Baron Corvo. Il viaggio sentimentale di Frederick Rolfe (2017).

    Il libro: Luca Fumagalli, Dio strabenedica gli inglesi! Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo, Radio Spada, Cermenate, 2021, 416 pagine, 15 Euro.

  5. #145
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    Cattolicesimo e letteratura decadente: uno sguardo critico



    a cura di Luca Fumagalli

    Con parecchi mesi di ritardo siamo lieti di condividere sul nostro blog alcune interessanti conferenze sul tema del rapporto tra letteratura decadente e cattolicesimo tenute via web nell’estate del 2020 sotto l’egida dello Chavagnes International College, una scuola internazionale con sede a Chavagnes, in Francia, a pochi chilometri da Nantes. L’istituto è gestito dall’amico Ferdi McDermott che ho avuto la fortuna di conoscere nel 2018. Tra i relatori spicca per fama Joseph Pearce, autore di alcuni saggi incentrati sulle principali figure del panorama culturale del cattolicesimo britannico.

    Tra l’altro, per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, segnalo che è appena uscito il libro “Dio strabenedica gli inglesi! Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo.


    Altri articoli inerenti al rapporto tra cattolicesimo e decadentismo britannico sono stati pubblicati sul blog di Radio Spada. Se ne segnalano alcun titoli.


    La tentazione cattolica di Oscar Wilde

    Constance Lloyd: moglie e vittima di Oscar Wilde

    La storia dimenticata di Lord Alfred Douglas: da amante di Oscar Wilde a cattolico militante

    Il Cielo può sedurre più della carne: Olive Custance, la poetessa cattolica che sposò l’amante di Oscar Wilde

    Da Wilde a Cristo: la storia, tra letteratura e fede, di John Gray e Marc-André Raffalovich

    L’angelo oscuro di Lionel Johnson: storia di un poeta cattolico fin de siècle

    Ernest Dowson: la poesia religiosa al tempo della “generazione tragica”

    Baron Corvo e la letteratura inglese

    Tra ebrei di New York, riviste letterarie e cardinali: un ritratto di Henry Harland

    L’inquietante storia del conte Eric Stenbock: uno scrittore fin de siècle tra cattolicesimo, follie e macabri presagi

    Noi siamo… Michael Field: il cammino spirituale, da Saffo a Cristo, di due curiose scrittrici fin de siècle

    Ed ora, ecco finalmente i video. Naturalmente gli interventi sono in lingua inglese:


  6. #146
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  8. #148
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  9. #149
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “In Abissinia”: Evelyn Waugh e la missione civilizzatrice del fascismo



    di Luca Fumagalli

    Per chi fosse interessato ad approfondire l’opera di Evelyn Waugh e quella di molti altri scrittori cattolici inglesi si segnala l’uscita del saggio “Dio strabenedica gli inglesi. Note per una storia della letteratura cattolica britannica tra XIX e XX secolo”. Link all’acquisto: http://www.edizioniradiospada.com/component/virtuemart/ecommerce/dio-strabenedica-gli-inglesi-note-per-una-storia-della-letteratura-cattolica-britannica-tra-xix-e-xx-secolo-308-detail.html?Itemid=0

    Nel 1935, mentre il corteggiamento di Laura Herbert, la donna che sarebbe diventata sua moglie, stava dando i primi incoraggianti frutti, un Evelyn Waugh a caccia di soldi facili accettò l’incarico di inviato speciale per il «Daily Mail» con lo scopo di seguire l’invasione italiana dell’Etiopia. Il giornale inglese aveva appena perso il suo reporter di punta, Sir Percival Philips, e Waugh sembrava un rimpiazzo più che adeguato dal momento che, oltre all’indubbio talento letterario, aveva dalla sua il pregio – assai raro nella Fleet Street dell’epoca – di aver già visitato quei territori nel 1930, in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Hailé Selassié (l’episodio è raccontato per esteso nel volume Remote People, del 1934, poi riproposto nel 1946 in When the Going was Good, tradotto in italiano col titolo Quando viaggiare era un piacere). A favore di Waugh giocavano pure le sue impopolari convinzioni politiche, del tutto simili a quelle del proprietario del «Daily Mail», il visconte di Rothmere. Come scrive Philip Eade in Evelyn Waugh. A life Revisited: «Evelyn poteva essere annoverato tra gli inflessibili sostenitori della posizione filo-italiana di Rothmere, che considerava Mussolini una barriera contro Hitler e l’Abissinia un paese selvaggio alla mercé di un governo violento e capriccioso, incapace di eliminare le sue sacche di illegalità».

    Dal punto di vista giornalistico l’avventura di Waugh in Africa si risolse in un clamoroso fallimento. Scrisse solo una manciata di articoli, tra l’altro di scarso interesse, colpevole inoltre di essersi lasciato stupidamente sfuggire l’unico vero scoop dell’intero conflitto: tale Francis Rickett, misterioso agente di una compagnia anglo-americana, aveva tentato di ottenere i diritti di sfruttamento delle risorse di metà Etiopia; ciò avrebbe costituito per Stati Uniti e Inghilterra un vantaggio commerciale notevole che i due paesi avrebbero verosimilmente difeso mantenendo l’imperatore sul suo trono. La notizia, ampiamente sopravvalutata, per qualche giorno infiammò il dibattito sui principali giornali inglesi salvo poi finire rapidamente nel dimenticatoio. Le proteste del «Daily Mail» contribuirono alle dimissioni di Waugh che, prima di tornarsene a casa, si fermò per il Natale a Betlemme, quindi visitò Baghdad, Damasco e infine Roma, dove ebbe modo di intervistare Mussolini, rimanendone favorevolmente colpito.



    Il viaggio in Etiopia non fu tuttavia un completo fiasco: lo scrittore, infatti, si ritrovò con materiale sufficiente per ben due opere. Nel 1936, dopo un’ulteriore visita in loco, vide la luce un libro di viaggio, In Abissinia (Waugh In Abyssinia), mentre un paio d’anni dopo venne pubblicato il romanzo L’inviato speciale (Scoop), una satira dei corrispondenti esteri e del loro giornalismo sensazionalista.

    In Abissinia – tradotto in alcune vecchie edizioni italiane anche come Waugh in Abissinia – ha dalla sua una prosa sfavillante. Le pagine, zeppe di descrizioni incantevoli che si alternano senza soluzione di continuità ad affondi caustici, testimoniano l’inconfondibile vena ironica dello scrittore. Chi legge è trasportato tra la polvere di un mondo esotico quanto terribile, volutamente demitologizzato, un’Etiopia caotica che sa di immondizia e di sudore, lontanissima da quel paradiso terrestre dipinto, più o meno maliziosamente, da molte anime belle del tempo che mal digerivano la mire espansionistiche italiane. Ciononostante nemmeno «l’uomo bianco» – spesso una sanguisuga priva di scrupoli – sfugge alle critiche dell’inglese, che fustiga anche i giornalisti europei intenti ad abbellire articoli infarciti di banalità o a riprendere con le cineprese falsi scontri inscenati ad arte.

    Il volume di Waugh offre dunque una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella espressa dall’ amico Graham Greene nel suo analogo Viaggio senza mappe (Journey Without Maps), anch’esso datato 1936. Se quest’ultimo, nota Humphrey Carpenter in Brideshead Generation, conclude la sua opera «non solo con un giudizio disperante a proposito dell’influenza dei colonizzatori sui nativi, ma pure con dubbi sulle prospettive della stessa società europea», per Waugh «l’Africa è al suo stato naturale barbara e arretrata, perciò si dovrebbe applaudire ogni sforzo per importarvi la civiltà europea».



    A onor del vero lo scrittore inglese non mette sullo stesso piano tutte le potenze colonizzatrici, anzi, non manca di fare dei distinguo, e nell’ultimo capitolo di In Abissinia, significamene intitolato “La strada”, spende parole d’elogio per il genio civilizzatore italiano, a suo giudizio davvero unico: «È una cosa nuova in Africa, anzi è una cosa che non si è mai vista in nessuna parte negli ultimi duecento anni, tranne che negli Stati Uniti d’America. La colonizzazione inglese è stata sempre l’espansione della classe dirigente. […] È stata sempre un movimento aristocratico […]. Ma l’occupazione italiana dell’Etiopia è l’espansione di una razza. È cominciata con la guerra, ma non è un movimento militare come l’occupazione francese del Marocco. È cominciata con l’annessione di fonti potenziali di ricchezza, ma non è un movimento capitalistico come l’occupazione britannica delle miniere d’oro in Sudafrica. È accompagnata dalla diffusione dell’ordine e delle regole civili, dell’istruzione e della medicina in un luogo squallido, ma non è prima di tutto un movimento umanitario come l’occupazione britannica dell’Uganda. Il paragone migliore che si po’ fare, nella storia recente, è con la grande spinta verso occidente degli americani, che hanno espropriato le terre delle tribù indiane e hanno creato nuovi pascoli e nuove città in terre desolate». Detto ciò, Waugh procede a grandi falcate verso l’epilogo, forse un po’ troppo enfatico, ma in linea con quanto espresso nel corso dei capitoli precedenti: «Lungo quelle strade passeranno le aquile dell’antica Roma, come già erano venute fra i nostri selvaggi antenati in Francia, in Britannia e Germania, portando con sé un bel po’ di macerie e di nefandezze, e molte parole volgari e gravi sventure per i singoli avversari. Ma al di sopra e al di là di tutto ciò, e in misura di gran lunga predominante, porteranno i doni inestimabili dell’abilità tecnica e di una limpida capacità di giudizio, che sono le due qualità fondamentali dello spirito umano, e le sole grazie alle quali, con l’aiuto di Dio, l’uomo può crescere e prosperare».



    Come prevedibile, in Inghilterra la pubblicazione di In Abissinia suscitò reazioni contrastanti. La stampa cattolica ne fu entusiasta, ma molti altri puntarono il dito contro Waugh, accusato di minimizzare gli effetti devastanti prodotti dai gas tossici impiegati dall’esercito italiano e di passare volutamente sotto silenzio i metodi brutali del Viceré Graziani, descritto nel libro quale «uomo estremamente affascinante e ragionevole». La polemica continuò anche negli anni successivi e nel 1946, sulle colonne dell’«Horizon», apparve una recensione firmata dalla scrittrice Rose Macaulay in cui In Abissinia veniva addirittura liquidato come «un trattato fascista». Tale giudizio appare francamente esagerato, anche perché già all’epoca della pubblicazione del volume Waugh stava iniziando a prendere le distanze da Mussolini e dal suo regime, quasi presentendo l’alleanza con l’odiato Hitler. In una lettera del 4 agosto 1936 a Katherine Asquith ammise che «era bello essere filo-italiano quando ciò era impopolare e (pensavo) una causa persa. Ora ho poca simpatia per questi fascisti esultanti». Gli anni successivi, con il tiepido appoggio al franchismo spagnolo e l’arruolamento volontario durante la guerra, avrebbero ampiamente dimostrato le sue mutate posizioni politiche.

 

 
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