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Discussione: Anglica catholica

  1. #21
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    https://www.radiospada.org/2019/01/q...inale-manning/

    Quel biografo malizioso che rovinò per sempre la reputazione del cardinale Manning

    Sul conto del cardinale Henry Edward Manning (1808-1892), il grande arcivescovo di Westminster che difese l’infallibilità pontificia durante il Concilio Vaticano I e che fu tra gli ispiratori della moderna dottrina sociale cattolica, continuano a circolare parecchie inesattezze. Complice la rivalità con Newman – decretato vincitore dalla storia –, Manning, quando non ignorato, è derubricato a stereotipo del porporato “politico”, un uomo che fu poco incline alle questioni spirituali, ma più che altro interessato alla carriera e ad accumulare potere. Si tratta, ovviamente, di una deformazione grottesca della realtà, all’origine della quale vi è l’operato di un biografo malizioso.

    Dopo il funerale di Manning, il compito di produrre una sua biografia ufficiale venne rivendicato da un giornalista, Edmund Sheridan Purcell (1823-1899), che sosteneva di aver ricevuto l’incarico dallo stesso cardinale. Definire questa cosa una bugia sarebbe forse troppo, ma certamente si trattava di una mezza verità.

    Purcell era stato direttore di un periodico cattolico, la «Westminster Gazzette», che Manning aveva fondato nel 1866. All’epoca, almeno per un breve periodo, il nome del giornalista figurava tra quelli dei sostenitori del prelato, specialmente per quanto riguardava la questione del potere temporale del Papa (tanto che la «Westminster Gazzette» si attestò su posizioni intransigenti, nettamente distinte da quelle moderate di Newman e sodali). Col tempo, però, Purcell prese le distanze da Manning. Non a caso, nel 1878, quando terminò il suo incarico di direttore a causa della chiusura del periodico, fu costretto a trovare impiego presso editori non cattolici.

    Tuttavia, nel 1886, si ritrovò coinvolto nei progetti – poi naufragati – per ricostituire una nuova testata “papista”. Manning, come consolazione, decise allora di offrire a Purcell la possibilità di scrivere un primo volume sulla propria vita. Il cardinale, comunque, non concesse interviste e vietò al giornalista qualsiasi intromissione nella sua corrispondenza privata. Desiderava infatti che suo biografo ufficiale fosse l’amico J. E. C. Bodley (1853-1925), segretario privato di Sir Charles Dilke (tra l’altro aveva già iniziato ad assisterlo nel gravoso compito). Dal momento che Bodley era protestante, gli venne affiancato un sacerdote, padre Butler, per aiutarlo nella trattazione delle questioni inerenti al cattolicesimo.

    Manning fece l’errore di permettere a Purcell di consultare il suo diario del 1848 – attentamente purgato – che conteneva un resoconto del suo soggiorno a Roma; concesse all’inopportuno giornalista di leggere anche porzioni di altri documenti e di farne una copia. Purcell interpretò la cosa come un’ulteriore sigillo dell’ufficialità del suo incarico, ritenendosi autorizzato a ficcare il naso ovunque. Il cardinale, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di accordargli una tale libertà, e quando venne a sapere che il giornalista aveva con sé uno dei suoi diari privati, gli mandò messaggi su messaggi per recuperare il prezioso quaderno. Come mai, giunti a questo punto, Manning non ponesse un freno definitivo alle aspirazioni di Purcell, rimane un mistero: molto probabilmente credeva di essere sufficientemente al sicuro dopo l’accordo con Bodley.

    Purcell, dal canto suo, sapeva di avere per le mani una gallina dalle uova d’oro e non aveva alcuna intenzione di cedere. Dopo la morte di Manning fu così abile che convinse tutti di essere il suo biografo ufficiale (anche se non vi era alcuna menzione di lui nel testamento). Solo quando una buona metà delle carte del cardinale era stata sottratta, ci si accorse del clamoroso errore.

    La biografia in due volumi firmata da Purcell, intitolata Life of Cardinal Manning, venne finalmente pubblicata nel 1895 e fu subito un best seller. Per quanto il libro fosse raffazzonato e saturo di inesattezze, l’immediatezza della prosa lo rendeva una lettura sicuramente affascinante. Il problema era che l’immagine del cardinale che se ne ricavava era quella di un uomo ambizioso, privo di scrupoli, desideroso di imporre in ogni modo le proprie idee. Purcell, tra errori e malignità, fece a Manning un pessimo servizio.

    Se l’entusiasmo con cui i protestanti accolsero la biografia era prevedibile, non così la timida reazione della maggior parte degli intellettuali cattolici (col senno di poi è possibile spiegare l’accaduto alla luce del fatto che molti di essi erano discepoli di Newman e perciò non avevano una grande considerazione delle opinioni e dell’operato di Manning). Solo Herbert Vaughan, il nuovo arcivescovo di Westminster, osò alzare la voce e definì il lavoro di Purcell al limite del criminoso.

    La reputazione dello scomparso cardinale venne definitivamente infangata da Lytton Strachey con la pubblicazione, nel 1918, del suo celeberrimo Eminenti vittoriani (Eminent Victorians). Il primo e il più lungo dei quattro saggi biografici che componevano il volume, dedicato proprio a Manning, era stato infatti compilato cucendo insieme vari brani della biografia di Purcell, il tutto condito con l’ironia velenosa tipica del Bloomsbury Group.

    A poco o nulla valsero le tardive reazioni degli apologeti cattolici. A partire dal 1921, data della pubblicazione di Cardinal Manning: His Life and Labours di Shane Leslie, videro la luce diversi testi biografici, accomunati dal desiderio di ristabilire la verità a proposito della vita e delle opere del cardinale. Tali sforzi, però, non furono sufficienti; ancora oggi la figura di Manning seguita purtroppo ad essere avvolta in una cappa di pregiudizi e maldicenze.

  2. #22
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    https://www.radiospada.org/2018/09/d...ialismo-laico/

    Da “Adriano VII” al “Padrone del mondo”: Baron Corvo e mons. R. H. Benson contro il socialismo laico

    di Luca Fumagalli

    Quando si pensa ai pochi romanzieri cattolici inglesi che, nell’ultimo secolo e mezzo, mostrarono un particolare interesse per le questioni politiche, vengono in mente due nomi del primo Novecento, quello di Frederick Rolfe (1860-1913), meglio noto con il nom de plume di Baron Corvo, e quello di mons. Robert Hugh Benson (1871-1914). Influenzati dalla cultura reazionaria della vicina Francia e da un ideale aristocratico dal sentore decadente, i due furono tra i più noti avversari della moderna società agnostica. Per quanto, a volte, la critica contenuta nei loro romanzi assuma toni così violenti da risultare al limite del caricaturale, non vi è alcun dubbio sulla serietà delle intenzioni che animarono entrambi gli autori.

    In Adriano VII (1904) – la storia, zeppa di rimandi autobiografici, di un oscuro letterato inglese che diventa Papa – uno dei primi proclami che Corvo mette in bocca al protagonista eponimo è una dura reprimenda della dottrina egualitaria: «Proclamò il dogma dell’uguaglianza come un qualcosa di scientificamente, storicamente e ovviamente falso e impraticabile; come un’illusione diabolica escogitata per la rovina delle anime».

    Più in generale, il romanzo è uno strano impasto che mischia la cronaca politica dell’epoca con le vicende futuribili vissute da Adriano VII. Ne è un ottimo esempio il brano in cui Rolfe immagina il leader socialista Jean Jaurès – descritto come un pericoloso anarchico – a capo di una nuova Francia rivoluzionaria, organizzata secondo il modello della Comune parigina del 1871. Le critiche, in verità piuttosto superficiali, non risparmiano nemmeno il laburismo britannico: la “Liblab Fellowship” è una brillante invenzione di Rolfe che, in anticipo sui tempi, profetizza l’estendersi a sinistra del virus liberale.

    Le medesime questioni vennero affrontate pure da mons. Benson nel celebre Il Padrone del mondo (1907). Con un piglio da consumato apologeta, il sacerdote inglese parte da una critica al socialismo laico – Gustave Harvé è l’obiettivo numero uno – per giungere, infine, a mettere sotto accusa la massoneria, il grande e terribile burattinaio che controlla la modernità.

    Nel romanzo utopico L’alba di tutto (1911) si immagina, al contrario, un mondo ideale in cui il socialismo è stato sconfitto; la Chiesa, ora vittoriosa, si basa sui sacrosanti principi della gerarchia, della disciplina e dell’autorità. Ancora una volta la Francia è l’emblema del cambiamento: la monarchia orleanista è stata ristabilita e il paese è diventato «quasi una terra di santi».

    Al netto delle molte ingenuità, i libri di Rolfe e Benson esemplificano perfettamente l’atteggiamento conservatore della maggioranza degli intellettuali cattolici britannici agli esordi del XX secolo. Tale posizione si sarebbe mantenuta inalterata, pur con qualche piccolo cedimento, fino al Concilio Vaticano II, quando il progressismo (tanto politico che teologico) iniziò a infettare irrimediabilmente anche la letteratura.

  3. #23
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Baron Corvo e la solitudine del granchio: un’introduzione a “Nicholas Crabbe”

    di Luca Fumagalli

    Nel 1908, partendo per Venezia, lo scrittore inglese Frederick Rolfe “Baron Corvo” (1860-1913) tralasciò di mettere in valigia la bozza di Nicholas Crabbe – sottotitolato The One and the Many – un romanzo che aveva scritto nei duri anni londinesi, tra il 1900 e il 1904, e su cui nessun editore aveva voluto scommettere. Ispirato alla vita dell’autore e giudicato diffamatorio per i palesi riferimenti a illustri personaggi dell’epoca, venne pubblicato solamente nel 1958 dalla Chatto & Windus, quando ormai non vi era più pericolo di ledere l’onorabilità di nessuno.

    Il libro racconta la storia di Nicholas Crabbe, uno scrittore che, con qualche soldo in tasca, si lancia alla conquista della fama letteraria nella Londra dei primi anni del XX secolo. Le sue aspettative vengono però frustrate dall’incontro/scontro con un mondo viscido, fatto di promesse, pacche sulle spalle e puntuali delusioni: «Non c’è verità, onore o giustizia da nessuna parte nella Londra della letteratura». Gli editori Harland (Sydney Thorah), Lane (Slim Schelm), Richards (Doron Oldcastle) e Temple Scott (Church Welbeck) sono gli ideali antagonisti di un uomo in lotta per la sopravvivenza, costretto a dar fondo ai risparmi per non morire di fame. Una tenue speranza ritorna a illuminare le sue giornate quando Crabbe incontra il giovane Robert Fulgensius Kemp, uno spirito solitario e sofferente, che egli accoglie come coinquilino in casa sua. Scrivono insieme racconti e articoli, ma la loro collaborazione, iniziata sotto i migliori auspici, fallisce miseramente nel giro di poche settimane. Abbandonato dall’amico, che tradisce il proprio benefattore, Crabbe rimane, citando il cardinal Newman, «solo e nudo – tutto solo con La Solitudine».

    Nicholas Crabbe, il romanzo del disappunto di un uomo, ripercorre con precisione diaristica i momenti più importanti vissuti da Rolfe tra il 1899 e il 1903. I nomi vengono alterati deliberatamente, non senza una punta di malizia, avvolgendo di compiaciuta allegoria le travagliate vicende legate alla pubblicazione di lavori come In His Own Image e Cronache di casa Borgia. Né mancano di comparire, tra gli altri, il pittore Trevor Haddon (The Painter), l’agente Stanhope Sprigge (Vere Perkins) e l’ex sodale Sholto Douglas, ispiratore di Kemp.

    Il lavoro di rielaborazione del narratore, che nella finzione utilizza le carte lasciategli da Crabbe, un amico di Rose (protagonista di Adriano VII), è minimo, tanto che il racconto reca ancora nella sua impostazione tracce della sua derivazione da un racconto-diario-testimonianza». La trama acquista forma drammatica senza che venga alterato alcunché, non rendendo necessario intervenire su quelle parti evidentemente disarmoniche e sproporzionate (come il settimo capitolo, costituito interamente da una breve citazione di Carlyle). Inoltre non mancano lettere veramente scritte e inviate da Corvo a conoscenti e collaboratori, riproposte nel libro in chiave fittizia.

    Il nome del protagonista deriva da quello del nonno paterno di Rolfe, mentre il cognome dal suo segno astrologico, il Cancro. Crabbe è esso stesso metafora del granchio eremita: il carapace esterno, duro come il diamante, cela un interno tenero, facilmente urtabile. Sebbene Crabbe vanti diversi punti in comune con Baron Corvo e sia più autobiografico rispetto al Rose di Adriano VII, compresi talenti ed eccentricità, non può tuttavia essergli perfettamente sovrapposto. Negli altri romanzi in cui appare, The Weird of the Wanderer e Il desiderio e la ricerca del tutto, Crabbe muta ogni volta personalità, una distanza che va a sommarsi ad altri particolari come la quasi totale assenza in Nicholas Crabbe di riferimenti alla religione, una componente imprescindibile nella vita di Rolfe.

    Per di più Crabbe è un debole, un anti-eroe maledettamente moderno, incapace di venire a patti con la propria inconsistenza. Il suo idealismo romantico, retaggio di un passato in cui la cavalleria contava ancora qualcosa, lo rende incapace di incontrare le esigenze di un mondo che è prono alla logica del profitto. Non sa cambiare, non sa adeguarsi alle circostanze; come il granchio è ancorato alle sue fragili convinzioni, disposto a soffrire stoicamente pur di non rinunciare a un immutabile se stesso. Il rifiuto di ogni azione e il mutismo sono manifestazioni esplicite di chi, al di là delle apparenze, avverte un senso di inferiorità e spera di trovare rifugio nella misantropia. Il bohemien decadente perde ogni velleità titanica per trasformarsi nell’inetto della letteratura modernista: «Vivere, come faceva, interamente in se stesso e nel passato, gli dava una vetusta abitudine mentale. Di conseguenza le sue progressioni erano sempre laterali e in qualche modo lente».

    In questo vortice distruttivo, che non risparmia niente e nessuno, anche l’ “amico divino”, l’incontro provvidenziale «che era musica per la mente e l’anima», si svela vile e crudele come quel mondo da cui aveva promesso di difendere il protagonista. Se Rose è lo spirito libero e trionfante che celebra in Adriano VII la sua vittoria, Crabbe è la carne martoriata e imprigionata che lamenta il fallimento totale. Il sogno paranoico di rivalsa si trasforma qui in un incubo di reiterata sconfitta, nelle agonie di uno scrittore che fallisce sia nella ricerca del successo che in quella dell’amicizia.

    Pur volendo rappresentare un racconto, un rifiuto del sensazionale e del melodrammatico, talora un tentativo di umile autocritica – «Ti ricordi cosa disse una volta George Arthur Rose riguardo al mio sapere? Sa tutto quello che si deve sapere su un pugno di cose astruse e inutili, e niente di tutto il resto» – nel finale, in cui si sottintende un parallelo con la passione di Cristo, Nicholas Crabbe vi scivola irreparabilmente, perdendo di credibilità.

    A risollevare le sorti del romanzo, meno compatto rispetto ad Adriano VII proprio per il suo tentativo di distaccarsi dalla favola del riscatto e del trionfo, rimangono le deformazioni dei personaggi, storpiati come i loro nomi, immersi in un’atmosfera proustiana e condannati a gesti vuoti e ripetitivi. Le pagine sono pervase da un’amara ironia che si associa, il più delle volte, a scelte linguistiche nonsense e all’impiego di mezzi espressivi alternativi quali, per esempio, l’uso del corsivo (che anticipa Firbank e Waugh).

    Comparare il romanzo a New Grub Street di George Gissing o a testi che raccontano una storia simile con maggiore potenza sarebbe dunque un grave errore. Nulla toglie al fascino tutto rolfiano della storia, il canto del cigno di uno scrittore incompreso giunto ormai all’autunno della vita.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/02/b...cholas-crabbe/

  4. #24
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Benson, Chesterton, Waugh … Oscure profezie e futuri terribili nella narrativa cattolica

    di Luca Fumagalli

    Una delle prime opere distopiche del ‘900, Il padrone del mondo (1907) del sacerdote inglese Robert Hugh Benson, rappresenta, per così dire, la punta dell’iceberg di un sottogenere poco conosciuto e sovente bistrattato dagli stessi studiosi, quello della cosiddetta “distopia cattolica”. Molti fedeli della Chiesa di Roma, soprattutto di cultura anglosassone, si accodarono all’onda lunga delle fantasticazioni storiche ottocentesche per narrare scenari futuri terribili in cui poter riversare, sotto nuova forma, tutti i temi tipici dell’apologetica cristiana, al contempo non perdendo mai di vista gli intenti moraleggianti.

    Il nemico numero uno di questi romanzieri anti-utopici è la secolarizzazione della società, un processo ingannevole che convince gli uomini di essere onnipotenti, finalmente liberi dai lacci e lacciuoli di un passato oscuro e opprimente, in altre parole di essere come dei (per citare il titolo di una delle opere più lette di H. G. Wells). In sintesi, il superamento della condizione umana è il nuovo sogno e il nuovo obiettivo di un mondo assuefatto alla tecnologia e in rivolta contro Dio.

    Quelle “cattoliche” sono, naturalmente, distopie in cui il tragico finale sottende sempre una positività ultima, un riscatto possibile in virtù del sacrificio di Cristo sulla croce e della sua promessa di redenzione universale. Monito e consolazione si mescolano dunque in romanzi che, nella maggior parte dei casi, hanno poco da invidiare – se non per la qualità letteraria, almeno per quanto concerne la profondità dei contenuti – a Huxley, Orwell e ad altri “mostri sacri” della distopia.



    L’eredità di Benson – che scrisse anche un romanzo utopico, L’alba di tutto (1911) – è stata raccolta in tempi recenti dal canadese Michael D. O’Brien, autore di una trilogia sull’Anticristo che comprende ben tre volumi: Il nemico, L’inviato e il prequel Il libraio. Pubblicati rispettivamente nel 1996, nel 2016 e nel 2005, i libri narrano la storia di padre Elia, un giovane ebreo che, dopo aver sofferto l’occupazione nazista di Varsavia ed essere stato salvato dal sacrificio di un cristiano, abbraccia la fede e diventa frate carmelitano. In seguito il Vaticano gli affida una missione capitale per il destino del mondo e dell’uomo, ovvero il confronto e il tentativo di conversione di colui che è considerato l’Anticristo – un misterioso Presidente d’Europa ammirato da tutto il mondo – in modo da rimandare la probabile e ormai prossima Apocalisse. Elia inizia così una titanica impresa, che tra imprevisti, difficoltà e continue tentazioni lo porterà fino alla Terra Santa, dove la storia della salvezza ebbe inizio e dove forse avverrà la battaglia finale contro le forze del male.

    Al confronto de Il padrone del mondo la trilogia di O’Brien, seppur migliore dal punto di vista stilistico, è meno incisiva nella narrazione e fatica, anche se ha a disposizione un maggior numero di pagine, a bissare l’impatto nervoso e raggelante della prosa di Benson, più lucida nel cogliere le implicazioni filosofiche e culturali del laicismo. Tuttavia Il nemico, L’inviato e Il libraio mostrano un grande ventaglio d’influenze che vanno da Il Signore degli Anelli, dalla Divina Commedia, dai Promessi sposi e dell’intera tradizione patristica e scolastica ai lavori apologetici di sant’Agostino, san Giustino e Tertulliano.



    Tra gli intellettuali cattolici che in Inghilterra polemizzarono a lungo contro Wells e il suo utopismo laico, in prima fila, oltre a Hilaire Belloc, vi era G. K. Chesterton. Giornalista e autore di un numero impressionante di testi, Chesterton fu uno scrittore singolarmente brillante, efficace soprattutto nell’arte del paradosso, in grado di mescolare con disinvoltura riflessioni di rara finezza e pagine di esilarante comicità. Ne L’osteria volante (1914), un romanzo apparentemente surreale, immagina un’Inghilterra del XXI secolo dominata da un potere di tipo massonico che si avvale della collaborazione di ambienti islamici. La forza del libro non risiede tanto nell’aver colto, con parecchi decenni d’anticipo, certi pericoli insiti nell’immigrazione selvaggia e nel multiculturalismo, quanto nel descrivere – con sgomento – l’avvento di masse di uomini devoti al nulla, divenuti schiavi senza un padrone, esseri senza causa né scopo. Un tema, questo, che ricorre anche in altri lavori fantastorici come Il Napoleone di Notting Hill (1904) e La sfera e la croce (1909).

    Park (1932), a metà tra utopia e distopia, senza un messaggio chiaro da consegnare al lettore, è uno dei romanzi più curiosi scritti nel periodo tra le due guerre. Come il suo autore, il canonico John Gray, il libro è contraddittorio, arguto e complicato. Un sacerdote, Mungo Park, durante una passeggiata si trova improvvisamente proiettato nel futuro. La prima persona che incontra parla latino e scopre così di essere finito in un mondo in cui la società è governata dalla Chiesa cattolica. Il debito nei confronti de L’alba di tutto è ovvio. Ciò che però è diverso dal romanzo di Benson è che il mondo teocratico immaginato da Gray è costituito solamente da uomini di colore, la maggior parte dei quali ha abbracciato gli ordini sacri. Poco alla volta, come ne La macchina del tempo, Mungo Park si rende conto che esiste anche un’altra razza: quelli che una volta erano i bianchi che abitavano la campagna, ora sono diventati esseri che vivono sottoterra, dalle sembianze di topi.


    Stessa coloritura satirica e grottesca torna in due racconti distopici scritti da Evelyn Waugh rispettivamente nel 1933 e nel 1953. Nell’inconscio richiama chiaramente Park: un americano di mezza età, Rip Van Winkle, dopo aver incontrato un misterioso mago, viene sbalzato avanti nel tempo di cinque secoli. Si ritrova in una Londra ridotta a rovine, dove la vegetazione ha preso ormai il sopravvento e la popolazione è costretta a vivere in capanne di paglia e fango, praticando l’agricoltura e la pesca. Il ceto dominante è costituito da un gruppo di cattolici di colore, asserragliati in una base militare. Dopo essersi svegliato da quello che è sembrato un sogno, Van Winkle decide di ritornare alla fede a cui aveva rinunciato in gioventù.

    Amore tra le rovine rimanda invece a Il mondo nuovo di Huxley. La novella, ben più complessa rispetto alla precedente, si occupa tuttavia solo marginalmente di questioni religiose, narrando le disavventure di un ex piromane che si aggira in una Gran Bretagna distopica e fintamente egualitaria.



    In ultimo merita di essere segnalato un filone a parte della distopia/utopia a tema cattolico, quello cioè che ha per protagonista un ipotetico Papa del futuro, descritto, di volta in volta, con toni di apprezzamento o di condanna. Il “genere”, inaugurato nel 1904 dall’Adriano VII di Frederick Rolfe “Baron Corvo” – la storia, tra autobiografia e follia fantastica, di un povero letterato inglese che si trova improvvisamente a capo della Chiesa – annovera una sfilza impressionante di scrittori, cattolici e non: Gadda, Morselli, Papini, Andrè Gide, Pasolini, Aldo Maria Valli, Quinzio, Saviane, Silone, Morris West, Greene, l’argentino Leonardo Castellani e molti altri ancora. In questi romanzi il Papa incarna nella sua persona i vizi e le virtù di una Chiesa che si trova improvvisamente a fare i conti con una contemporaneità che le è, il più delle volte, ostile. I ritratti, piuttosto eterogenei, mostrano una galleria di probabili pontefici che vanno dal riformatore illuminato all’autocrate ottuso

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/01/b...iva-cattolica/

  5. #25
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Padre Brocard Sewell: Chesterton, la Fede e i cigni neri

    di Luca Fumagalli

    «Quando il Cambridge History English Literature pubblicherà i suoi volumi riguardanti il XX secolo, penso sia molto importante che il nome di Padre Brocard Sewell appaia nell’indice». Così scriveva nel 1982 il critico e saggista Colin Wilson, amico di vecchia data del frate carmelitano.

    In effetti la vita culturale di Sewell fu a dir poco effervescente: oltre ad essere stato autore di molti libri, tra cui un classico minore dell’autobiografia come My Dear Time’s Waste (1966), in cui è brillantemente descritto il panorama letterario britannico tra le due guerre, collaborò con Chesterton al «G.K.’s Weekly» e, a patire da metà degli anni ’50, in qualità di direttore del periodico «The Aylesford Review», diede spazio a tanti scrittori emergenti, in seguito destinati al successo.

    Lo spirito allegro e l’affabilità permisero a Padre Sewell di radunare intorno a sé autori appartenenti a movimenti letterari tra i più eterogenei. Henry Williamson, Ann Quin, Bernardine Bishop, Laura Del Rivo, Michael Hestings e altri ne divennero i protégés, uniti dalla sua enorme e disinteressata passione per la letteratura.

    Come studioso il carmelitano dimostrò invece un interesse spasmodico per gli scrittori “minori”. A Montague Summers, Frederick Rolfe “Baron Corvo”, John Gray, R. S. Hawker e Olive Custance dedicò vari lavori, tra cui il volume miscellaneo Like Black Swans (1982). Sewell era soprattutto affascinato dalla genesi del processo creativo e dalla biografia tormentata di autori che dovettero soffrire e lottare per ottenere un qualche riconoscimento. Lui stesso, d’altronde, era un outsider, uno spirito irrequieto che faticò sempre a trovare una collocazione stabile. Quando rivolgeva lo sguardo alla letteratura decadente, di cui era grande esperto, di certo scorgeva in quei misteriosi e inquietanti artisti un riflesso della propria parabola esistenziale, quella di un cigno nero che poté spiccare il volo solo dopo aver pagato un carissimo prezzo.

    Nato nel 1912 a Bangkok, dove il padre lavorava come insegnante, Michael Sewell trascorse l’infanzia con i nonni a Launceston, in Cornovaglia (la madre era morta poco dopo il parto). Studiò al Weymouth College dimostrando sin da subito una scarsa attitudine per le materie scientifiche. La sua media voti nelle verifiche di matematica era così imbarazzante da diventare presto oggetto del benevolo dileggio dei compagni, con i quali aveva comunque un ottimo rapporto. D’altro canto Sewell eccelleva nelle materie umanistiche, in particolare storia e letteratura. Grazie alle assidue frequentazioni della biblioteca scolastica poté leggere non solo i grandi classici inglesi, ma anche le opere di Chesterton e Belloc, due intellettuali che da tempo avevano iniziato a incuriosirlo. Sempre più ostile all’aridità spirituale che caratterizzava le giornate al Weymouth College, il giovane Michael aveva infatti iniziato ad avvicinarsi al cattolicesimo, una Fede che ai suoi occhi appariva più salda rispetto all’anglicanesimo e al suo contraddittorio impianto teologico. Era rimasto affascinato anche dal Movimento Distributista che, sulla scorta dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, si poneva come un’alternativa sul piano economico-sociale al capitalismo e al socialismo.

    A 16 anni, lasciata la scuola a causa delle ristrettezze economiche della famiglia, per Sewell fu dunque naturale candidarsi per un posto da tuttofare al «G.K.’s Weekly». Presso gli uffici di Fleet Street svolgeva ogni tipo di mansione, rimanendo al lavoro spesso fino a tardi. Scrisse pure qualche recensione libraria e si occupò di gestire la sezione londinese della Lega Distributista. Questa esperienza, durata solamente pochi mesi, contribuì a rafforzare in lui l’inclinazione al cattolicesimo, portandolo a 18 anni a entrare finalmente nella Chiesa di Roma.

    Per quanto breve, il rapporto con Chesterton e i suoi collaboratori fu per Sewell così importante che negli anni della maturità, oltre a una bella biografia di Cecil Chesterton e a un saggio dedicato a Padre Vincent McNabb, scrisse un volume di memorie intitolato G.K.’s Weekly: An Appraisal (1990).

    Il suo successivo impiego alla St Dominic’s Press di Hilary Pepler, dove imparò l’arte dell’impaginazione e della stampa di libri, fu interrotto bruscamente dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Sewell venne arruolato nelle file della R.A.F, ma per la maggior parte della guerra svolse mansioni di ufficio.

    l congedo fornì a Michael l’occasione per seguire quella vocazione religiosa a cui, da diverso tempo, si sentiva chiamato. Dopo un tentativo fallito con i domenicani e uno con i canonici regolari, approdò definitivamente ai carmelitani, presso il priorato di Aylesford, nel Kent, venendo ordinato sacerdote nel 1954. Adottò il nome religioso di Brocard in onore di un priore del XIII secolo.

    Aylesford era il luogo adatto per chi, come lui, prediligeva la quiete e la contemplazione. Le giornate, scandite da ritmi regolari, prevedevano l’alternanza tra preghiera e lavoro. I pasti comuni erano consumati nel silenzio mentre un lettore, di solito scelto tra i novizi, allietava i confratelli leggendo passi tratti degli scritti dei santi. Sewell, che mal sopportava l’egocentrismo, trovava nella vita comunitaria una dimensione ideale, il modo migliore per rinunciare a se stesso e per seguire Dio.

    La vita al priorato, però, non significava rompere ogni legame col mondo esterno. Mosso dal desiderio di trasformare il cattolicesimo in una forza rilevante nel dibattito culturale e politico britannico, prese le redini della casa editrice dei carmelitani, la Saint Albert’s Press, e nel 1955 fondò l’«Aylesford Review». Sotto la sua direzione il periodico, che durò fino al 1968 e che si occupava principalmente di letteratura, teologia e politica, attirò l’attenzione di un pubblico via via crescente, tanto che da molti prese a essere considerato l’erede morale del «Criterion» di T. S. Eliot.

    Ma per Padre Brocard Sewell la serenità non era destinata a durare ancora a lungo. Anzi, i guai erano proprio dietro l’angolo.

    Se durante gli anni del Concilio Vaticano II Sewell fu tra i numerosi sacerdoti e intellettuali cattolici che manifestarono più di una riserva nei confronti della riforma liturgica, il 5 agosto del 1968, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, apparve sul «Times» una lettera a sua firma in cui accusava il Papa di eccessivo conservatorismo, invitandolo addirittura ad abdicare. I toni, volutamente calcati, rispecchiavano in realtà il feroce dibattito che si stava consumando in seno al cattolicesimo a proposito del controllo delle nascite e del diritto della Chiesa di intervenire su simili questioni. I vescovi, da parte loro, ebbero un bel daffare per arginare il malcontento.

    L’epistola di Sewell, naturalmente, non tardò ad attirare l’attenzione dei superiori: al carmelitano fu prima impedito di predicare e confessare, dopodiché, quando nel 1970 fece l’azzardo di pubblicare un libro sulla questione, The Vatican Oracle, venne allontanato dalla diocesi di Southwark – dove si trovava Aylesford – e costretto a traferirsi in Canada (poté ritornare in Inghilterra solo pochi mesi prima della morte, avvenuta nel 2000).

    Giunto in Nuova Scozia, Sewell trascorse gli ultimi anni che gli rimanevano su questa terra insegnando storia della letteratura preraffaellita e decadente alla St Francis Xavier University di Antigonish, per poi spostarsi al Mount Carmel College.

    L’esilio fu un periodo molto duro per lui, mitigato solo a tratti dall’affetto con cui ogni giorno era accolto in aula dagli studenti. Non solo gli mancava l’Inghilterra e gli amici che lì aveva lasciato, ma più di ogni altra cosa avvertiva che la Chiesa aveva perso definitivamente la sua battaglia con la modernità. Il drastico calo delle vocazioni e la galoppante secolarizzazione erano solo la punta dell’iceberg di una crisi che pareva inarrestabile. Nella sua seconda e definitiva autobiografia, The Habit of a Lifetime (1992), Sewell fu costretto ad ammettere che il cattolicesimo aveva ormai perso quella compattezza dottrinale che nel 1930 lo aveva spinto alla conversione. Per l’ “estremista di centro”, come lui stesso si definiva, si trattava di una terribile sciagura.

    La preghiera e una certa autoironia chestertoniana che lo faceva assomigliare a Padre Brown, furono le due sole cose che salvarono il povero frate dalla disperazione.

    Se alla fine il cigno nero prese il volo, non c’è da dubitare che lo fece con occhi gonfi di lacrime.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2017/08/p...-i-cigni-neri/

  6. #26
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    https://www.radiospada.org/2017/04/i...e-baron-corvo/



    Le stelle in una pozzanghera: Luca Fumagalli biografo di Frederick Rolfe

    di Piergiorgio Seveso

    I libri, per un editore, sono un po’ come degli figli. E i figli non sono tutti eguali ma tutti sono egualmente amati.
    Alcuni silenziosi e devoti, altri capricciosi ed inquieti, altri ancora fragorosi e un po’ facinorosi.
    Alcuni ti nascono un po’ per accidens e te li ritrovi a gattonare per casa, altri sono voluti, cercati, agognati, bramati.
    Alcuni crescono tra mille pene e affanni di salute, vegli di notte al loro capezzale, gemendo sul loro destino, altri invece riescono e crescono vigorosi e sani e ti meravigli che subito lascino casa desiderosi di cercar fortuna, altri ancora ti rimangono sempre per casa, o per gracilità interiore o per un intimo e invincibile affetto che provano per te e tu per loro.
    In questi anni Radio Spada mi ha dato, tra le varie gioie, quella della paternità, non solo spirituale che già in un certo modo ho esercitato ed esercito ma “fisica” e prettamente genitoriale.
    Di pochi libri di Radio Spada infatti posso dire di aver seguito la genesi e il percorso, la produzione e la rifinitura come quello che recensisco oggi.
    Nato quasi per un’indiretta ispirazione, salvato nella culla da mani cupide di sangue e di morte, il libro si è sviluppato “in forza, statura e grazia”, in virtù dei poderosi studi di Luca Fumagalli che su Frederik Rolfe ha sviluppato una tale mole di ricerche tanto da diventare, quasi inavvertitamente, uno dei maggiori collezionisti italiani di materiali e cimeli rolfiani.
    Ben lungi però dall’aver prodotto un libro a tesi, il Fumagalli ha scritto una biografia appassionatamente vigile e spassionata, nobile e innocente, di Baron Corvo dove si scandagliano pregi e limiti, vizi e virtù, fin nel profondo dell’animo rolfiano.
    Di questo coraggioso e tormentato convertito che ha rinunziato a tutto per amore del Papato romano e della Chiesa cattolica, di questo scrittore che seppe unire profonda erudizione, passione medioevalistica e uno spiccato gusto per la costruzione fantastica ed estetizzante del racconto, rimangono opere sempre interessanti, spesso edificanti, talvolta monumentali e in gran parte sconosciute al pubblico di lingua italiana.
    Fumagalli di tutte queste opere offre una ricostruzione che possa stimolare il nostro pubblico più avveduto alla lettura e alla fruizione di quest’autore.
    Con passione e compassione Fumagalli ci offre il ritratto vivo di questo “vinto” di successo, di questo irregolare e randagio della letteratura, di questo infelice “alla ricerca del tutto”. Al di là dei disordini a volte riprovevoli che caratterizzarono una parte della sua vita, ciò che ci colpisce veramente è la radicale incapacità di Rolfe nel costruire relazioni umane, basate su fiducia e affidamento, la ricerca inesausta e irrisolta di qualcuno che comprendesse il suo vero valore. Con la speranza che abbia trovato in morte quell'”Amico divino” che aveva tanto amato ma che non aveva creduto di trovare in vita. Molto significativo in ultimo che questo libro si sia generato all’interno della seconda generazione di sedevacantisti di lingua italiana (in questo caso “Cassiciacum”): era infatti abbastanza prevedibile, per forma mentis e per percorso biografico di questi giovani nomadi (e pirati) della Sede, che qualcuno degli esponenti di questa generazione potesse produrre opere apologetiche non banali e bidimensionali, ritratti non presepistici, pastellosi e oleografici di personaggi ed eventi storici nella storia del Cattolicesimo romano (prima e dopo il grande vulnus del 1962). Questo è avvenuto con quest’opera efficace di Luca Fumagalli e con i suoi preventivati futuri studi sulla letteratura cattolica di lingua inglese. Giova rimarcarlo in questa recensione: quest’opera sorpassa sia il descrittivismo un po’ acerbo della biografia di Monsignor Robert Hugh Benson (edizioni Fede e Cultura) che l’accademismo rigoroso della biografia di William Golding (edizioni il Cerchio) ed è la prima (e godibilissima) della piena maturità artistica del Fumagalli cui auguriamo ovviamente di spingersi sempre più al largo, come un nuovo Ulisse sulla rotta verso Itaca.

    Nella festa di San Giuseppe da Copertino, patrono degli studenti
    Ultima modifica di Guelfo Nero; 20-09-20 alle 15:42

  7. #27
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La malattia dell’esteta: “The Sentimentalists” di R. H. Benson

    di Luca Fumagalli

    The Sentimentalists (1906) dell’inglese Robert Hugn Benson, come lascia intendere il titolo, è un romanzo – ancora inedito in Italia – dedicato agli artisti romantici, uomini passionali ma fondamentalmente fragili.

    La trama è piuttosto semplice ancorché ricca di personaggi e figure secondarie che si muovono sullo sfondo della vicenda principale.

    Dick Yolland è un sacerdote amente della letteratura e dai gusti particolarmente ricercati (un ironico autoritratto dell’autore). La sua vita si incrocia con quella di Cristopher Dell, un convertito di Oxford, che guadagna qualche soldo attraverso l’impiego giornalistico. Letterato decadente, Dell è ormai vittima del suo spiccato estetismo che si concretizza in convinzioni e atteggiamenti piuttosto bizzarri come quello di credere fermamente negli dei dell’antica Grecia, di preparare offerte per Ermes e di praticare la magia persiana. Caduto in profonda depressione, medita il suicidio. In questa occasione, però, mostra la sua debolezza, incapace com’è di rinunciare anche solo all’amato libro di Boccaccio, alla camicia da notte di seta e alla preziosa tabacchiera. Yolland riesce a procurargli un posto di lavoro presso il “Saturday Express” e Chris è introdotto nei salotti bene del mondo aristocratico dove conosce la giovane Annie Hamilton di cui si innamora perdutamente. La loro felice relazione è osteggiata dalla madre di lei che, una volta scoperto i trascorsi disordinati del giovane, costringe la figlia a rompere il fidanzamento. Dell sprofonda nuovamente nel vizio. Fortunatamente per lui un aiuto inaspettato arriva da John Rolls. Anche la condotta passata dell’anziano nobiluomo non è stata encomiabile, ma ora vive espiando i suoi peccati aiutando ex preti, attrici fallite e tutti coloro che hanno commesso gravi sbagli a ritrovare un senso nella loro esistenza. È così che nasce la “colonia degli eccentrici” in cui Chris trova accoglienza e conforto. Le prove, però, non sono finite e la situazione sembra nuovamente precipitare quando il giovane apprende la notizia del matrimonio di Annie.

    Nelle pagine del romanzo, che alterna ritmi e tinte contrastanti che vanno dai toni cupi del dramma alla satira graffiante, è concentrata l’esperienza che Benson visse nella Cambridge di inizio secolo, a cavallo tra l’esigenza di un rinnovamento spirituale e le tentazioni suadenti della letteratura decadente e della vita bohemienne. Tutti i personaggi, a partire da Dell – modellato sulle figure di Frederick Rolfe “Baron Corvo” e dell’amico Eustace Virgo – traggono ispirazione dagli stravaganti studenti che ruotavano attorno ai circoli universitari.

    Chris Dell è il prodotto di questo clima. Il suo cattolicesimo, frutto di una conversione consapevole, si tramuta rapidamente in esotismo d’accatto, non più in grado di arginare la montante disperazione. Rolls è artefice di quel necessario scossone spirituale che contribuisce a ridare spessore alla vita del giovane. La preghiera e il giardinaggio, l’ora et labora benedettino, sono due facce della medesima medaglia, quella di un ritrovato rapporto con la realtà, lontano dalle follie egocentriche di una mente priva di Dio (non a caso i titoli dei capitoli ripercorrono le tappe che vanno dalla malattia alla guarigione).

    Chris è un personaggio molto complesso che vive un costante conflitto tra due personalità: quella del dandy, tentato dal mondo, e quella del santo, l’ambizione naturale della vita cristiana. La sua è quindi la stessa battaglia tra il peccato e la virtù che caratterizza l’esistenza di ogni uomo. Il paganesimo del letterato romantico è un surrogato del desiderio di autentica umanità che sgorga dal suo cuore, un tentativo puerile e inconsistente. Attraverso una storia di confessione ed espiazione, Dell arriva finalmente a comprendere che solo Cristo è in grado di donargli una felicità perfetta, eterna, senza più il timore di un rovesciamento della sorte.

    Il finale, in cui il protagonista si allontana sereno e imperturbabile verso l’orizzonte, è immagine eloquente di un uomo finalmente in cammino verso una bellezza più vera.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2016/04/l...di-r-h-benson/

  8. #28
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    https://www.radiospada.org/2018/08/r...ional-college/

    Come sanno i lettori di Radio Spada, il nostro Luca Fumagalli è stato invitato quest’estate, a cavallo tra luglio e agosto, a tenere una conferenza in Francia nell’ambito del convegno “The Europe and the Faith”, organizzato da Ferdi McDermott, preside del Chavagnes International College. Per chi fosse interessato, il racconto dell’esperienza si trova QUI.

    Settimana scorsa, sul sito dell’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme, presente ufficialmente al convegno nella figura del cappellano generale per la Gran Bretagna, padre Simon Henry, è stata invece caricata la galleria fotografica dell’evento, corredata da qualche breve nota. Tra le varie segnalazioni, un piccolo spazio è dedicato pure a Radio Spada che ha catturato la curiosità e l’interesse dei convenuti.

    Che questo fatto sia di buon auspicio per crescere, per fare meglio e, chissà, magari per trasformare il nostro sito e la nostra casa editrice in un’esperienza dal respiro internazionale.

    La galleria fotografica del convegno:

    GRAND PRIORY OF GREAT BRITAIN: Chavagnes Studium Conference

  9. #29
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Compton Mackenzie: la Scozia e la Fede

    La vita di Compton Mackenzie, un carnevale di nebulose contraddizioni, di allegrie e angosce, è tutt’altro che misteriosa. Tra le fonti a disposizione dello studioso ci sono ben dieci volumi autobiografici, quattro contenenti le memorie della Prima guerra mondiale e sette di ricordi vari: in totale si tratta di oltre tre milioni di parole, una cifra a dir poco impressionante. E se tutto questo non dovesse bastare, in almeno una dozzina di romanzi, veri e propri roman à clef, Mackenzie parla, in modo più o meno abbellito, di eventi legati alla propria vita.

    Lo scrittore scozzese, nato in Inghilterra il 17 gennaio del 1883, era infatti dotato di una memoria eccezionale. Al di là dei resoconti privati, ad essa attingeva volentieri quando l’immaginazione stava per esaurirsi, messa a dura prova dagli stressanti ritmi di lavoro. D’altronde la perenne scarsità di denaro costringeva Mackenzie a gettarsi a capofitto nella scrittura, sfornando libri su libri a un ritmo sovrumano. Fino alla morte, avvenuta il 30 novembre del 1972, non ebbe mai un secondo di pace: il risultato è una bibliografia corposissima, che vanta oltre un centinaio di opere tra romanzi, saggi e poesie, a cui andrebbero aggiunti molti altri articoli e testi di conferenze.
    Compton Mackenzie a Herm in compagnia del fedele cane Hamlet e del segretario James Eastwood

    Di solito una produzione così abbondante ha come naturale e sfortunata conseguenza una qualità globale piuttosto scarsa. Questo, purtroppo, è anche il caso di Mackenzie, i cui lavori, sebbene mai di infimo livello, soffrirono però di costanti alti e bassi.

    L’esordio, invero, fu notevole. Sinister Street (1913-1914), che raccontava senza peli sulla lingua la squallida vita morale degli studenti delle scuole pubbliche, fu un caso editoriale, tanto che il vecchio Henry James giunse a definire lo scozzese «di gran lunga il più promettente romanziere della sua generazione». Col tempo, però, l’originalità degli inizi andò progressivamente a disperdersi; l’entusiasmo del pubblico e della critica scemò poco alla volta, e anche le vendite subirono un duro contraccolpo. Non è dunque un caso se oggi la memoria di Mackenzie è legata più che altro a un paio di racconti umoristici ambientati nelle Isole Ebridi, Monarch of the Glen (1941) e Whisky Galore (1947), da cui sono stati tratti rispettivamente una mini-serie tv e due film di successo. Il resto della sua produzione, compreso il poderoso ciclo The Four Winds Of Love (1937-1945), giace quasi completamente obliata. La sua scarsa notorietà postuma è provata pure dall’esistenza di una sola biografia completa a lui dedicata, Compton Mackenzie. A Life (1987), a firma di Andro Linklater. È davvero un peccato, perché come scrittore Mackenzie aveva tutte le carte in regola per lasciare un segno nel XX secolo, un’epoca tormentata, anche per la Chiesa, che avrebbe certamente tratto beneficio dello sguardo gioiosamente disincantato di una penna d’eccezione, incline all’anticonformismo e alla provocazione intelligente.


    Mackenzie, soprannominato “Monty” da amici e parenti, se fu manchevole nell’ambito letterario, non così nella vita, che fu avventurosa e piena di eventi oltre l’immaginabile. All’attività di romanziere affiancò quella di attore, giornalista, attivista politico e commentatore radiofonico; per sua iniziativa nacque la celebre rivista di musica classica The Gramophone e, durante il primo conflitto mondiale, venne arruolato nei servizi segreti britannici di stanza nel Mediterraneo (Mansfield Cumming, fondatore dell’ MI6, voleva che Mackenzie diventasse addirittura il suo successore).

    Il padre di Monty, Edward Compton, era un teatrante, discendente di una famiglia di attori, perennemente impegnato in lunghe ed estenuanti turnée in ogni angolo dell’Inghilterra. Edward doveva confrontarsi con un mercato che stava rapidamente mutando, e il tempo per i figli (oltre a Monty, il primogenito, vi erano Frank, Viola a Fay) era sempre meno. Fu comunque un genitore affettuoso, al contrario della moglie, Virginia Bateman, fredda e distaccata, poco adatta al ruolo di madre. Mackenzie venne dunque abituato, sin dalla più tenera età, a un’esistenza randagia, caratterizzata da poche certezze. Persino il lungo nome di battesimo, Edward Montague Compton Mackenzie, rifletteva, in un certo senso, la confusione che lo attorniava. Mackenzie era l’antico cognome della famiglia paterna, originaria di Cromarty, nel nord della Scozia, abbandonato nel XIX secolo per lo scarso appeal che avrebbe esercitato sui palcoscenici inglesi. Edward, chissà perché, volle reintegrarlo.

    Sta di fatto che Monty, già ai tempi della scuola, prese seriamente a cuore la causa giacobita. Sebbene educato a essere un perfetto suddito dell’Impero, anglicano anche nella religione – accarezzò pure l’idea di prendere gli ordini –, percepiva sottopelle il richiamo atavico delle Highlands, ulteriormente amplificato dopo la conversione al cattolicesimo, nel 1914. Il libretto Catholicism and Scotland (1936), oltre a un atto d’accusa nei confronti di Knox e dei riformatori puritani, è la testimonianza di un uomo profondamente innamorato della lingua gaelica, della propria patria e degli Stuart, considerati i legittimi sovrani. Anche se Mackenzie non era scozzese di nascita, il suo cuore apparteneva davvero a quella terra. Nel 1928 fu tra i fondatori dello Scottish National Party (SNP), un raggruppamento politico che, rifiutando ogni soluzione di compromesso, predicava l’indipendenza della Scozia dal governo di Londra. Inoltre, dal 1931 al 1934, lo scrittore venne nominato di Lord Rector dell’Università di Glasgow: era il primo cattolico dai tempi della Riforma a ricoprire tale incarico.

    Per Mackenzie la Scozia fu, in un certo senso, una parentesi. Il suo spirito inquieto, desideroso di solitudine contemplativa ma anche di rumorosa giovialità, lo portò a viaggiare molto. Era un amante della isole, quei luoghi appartati che, soprattutto nella prima metà del Novecento, erano spesso frequentati da falsi nobili, ladruncoli e irregolari in fuga. Con la consorte Faith Stone – la prima delle sue tre mogli – visse per qualche tempo a Capri, presso Villa Solitaria (all’isola campana dedicò due ottimi romanzi, Vestal Fire, del 1927, ed Extraordinary Women, del 1928). Nei primi anni Venti acquistò invece le piccole isole di Herm e Jethou, nel canale della Manica; infine fece costruire una casa sull’isola di Barra, in Scozia, dove si trova la sua tomba. In molti, a ragione, hanno sottolineato l’esistenza di svariati punti di contatto tra il protagonista del racconto di D. H. Lawrence, The Man Who Loved Islands, e Mackenzie.
    Faith Mackenzie a Capri

    La Fede fu un altro elemento importante nella vita di Monty. L’ingresso nella Chiesa di Roma venne da lui celebrato con una frase memorabile: «La mia non è una conversione al cattolicesimo, ma una sottomissione, una resa logica all’inevitabile riconoscimento del fatto che Gesù Cristo fondò la Sua Chiesa sulla roccia di San Pietro». Considerato uno dei più illustri scrittori cattolici britannici viventi, venne sempre tenuto in altissima considerazione dalla gerarchia ecclesiastica che gli cucì addosso il ruolo di uomo simbolo della cultura “papista”. L’immagine pubblica, però, mascherava una condotta privata poco limpida: la seconda moglie, Christina MacSween, sposata dopo la scomparsa di Faith, era amante di Mackenzie già da diversi anni, e per qualche tempo sembra che lo scrittore frequentò la Messa solo occasionalmente.

    Al netto dei limiti umani, Monty ebbe tuttavia molti meriti e regalò alla causa cattolica una pregevole trilogia di romanzi: The Altar Steps (1922), The Parson’s Progress (1923) e The Heavenly Ladder (1924). In essi si narra la storia di Mark Lidderdale, un prelato anglicano che, dopo lunga e sofferta meditazione, decide di convertirsi alla vera e unica Chiesa. Elementi autobiografici, come la difficile infanzia del protagonista, si accompagnano al franco intento apologetico, e alcuni dei temi già presenti in Sinister Street – l’ateismo moderno, il peccato e l’amore – vengono brillantemente ripresi e investiti di un nuovo significato morale.


    Compton Mackenzie, lo scrittore dimenticato, fu un esempio per altri ottimi autori scozzesi fedeli a Roma, tra i quali Bruce Marshall, Muriel Spark e George MacKay Brown. I suoi lavori, arguti e scanzonati, sono la straordinaria testimonianza di un’identità radicata, e narrano la storia di un popolo e di una religione che la modernità ha cercato invano di cancellare. La Scozia e la Fede sono dunque i poli entro cui si mossero i libri migliori di Mackenzie, opere che meriterebbero di essere rispolverate e lette tutte d’un fiato.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/09/c...zia-e-la-fede/

  10. #30
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Pausa francese


    https://www.radiospada.org/2017/09/l...rese-la-croce/

    “L’oblato”: infine Huysmans posò la pistola e prese la croce

    di Luca Fumagalli

    L’oblato è la degna conclusione della parabola umana e letteraria di Joris-Karl Huysmans. Scritto nel 1903, ultimo romanzo del rivoluzionario autore di À rebours, il volume è uno strano impasto dall’andamento cadenzato, così ricco di descrizioni particolareggiate che quasi la trama scompare, schiacciata dall’accumulo di aneddoti religiosi, storici e artistici. Curiosità dotte o squarci d’erudizione agiografica si alternano con regolarità, componendo un prezioso mosaico che acquista senso progressivamente, capitolo dopo capitolo.

    La vicenda, che vede il protagonista – il semi-autobiografico Durtal – completare il suo cammino di conversione diventando oblato presso il monastero benedettino della Val des Saints, appare più che altro un pretesto impiegato dall’autore per dipingere un affresco di ampio respiro del cattolicesimo francese a cavallo tra XIX e XX secolo. Anni difficili, caratterizzati dalle leggi repressive del governo massonico e dal diffondersi tra i membri del clero di quella malattia teologica nota come razionalismo. L’oblato è, in altre parole, la cronaca di un universo che sta cavalcando la tigre della rivoluzione, inconsapevole che, insieme alla religione, sta uccidendo anche la civiltà.

    Le pagine rimandano costantemente a un contrasto tra la bella e virtuosa tradizione cristiana – che Huysmans, con piglio decadente, sintetizza nei fasti della liturgia benedettina – e la galoppante corruzione della modernità. L’arte sacra è ormai svilita, così come le strade di Digione sono percorse da gente abbruttita dall’agnosticismo, sguardo fisso a terra, del tutto indifferente al richiamo della Fede e, ancora peggio, a tutto ciò che vi è di Bello e Buono.

    Seppur meno brillante di À rebours, limitato forse dall’eccessiva lunghezza, L’oblato ha in comune con l’illustre predecessore il tema centrale della fuga dal mondo. Se nel capolavoro del 1884 si trattava dell’isolamento di un esteta insofferente nei confronti dell’uomo comune, in quest’ultimo lavoro la solitudine si carica di un inedito valore mistico. Il monastero non è una torre d’avorio, piena di libri e opere d’arte; all’opposto è un eremo vuoto, privo di qualsiasi distrazione. A renderlo una casa magnifica è piuttosto la pienezza spirituale che Durtal vi respira: la sua anima non ha bisogno d’altro. Ogni orpello alla Des Esseintes è dunque eliminato per poter meglio godere di ciò che è veramente essenziale.

    Il «torbido cristianesimo» con cui Praz liquida un po’ troppo sbrigativamente la religiosità dei decadenti, è un’etichetta inapplicabile all’ultimo Huysmans che, come già ricordato, confeziona un libro pregevole, scevro da ambiguità o fraintendimenti. Sfiorato l’abisso della dissoluzione nel romanzo Là-bas (1889), Durtal nei successivi En route (1895) e La Cathédrale (1898) compie un cammino che lo avvicina alla Chiesa di Roma, ripercorrendo come alter ego la vicenda biografica dello scrittore francese. Dopo À rebours, infatti, come sottolineò in una recensione Barbey d’Aurevilly, a Huysmans non rimanevano che due alternative: la canna di una pistola o la croce (e fortunatamente preferì quest’ultima).

    Un plauso va dunque alla D’Ettoris Editori che nel 2016 ha dato alle stampe questo piccolo gioiello della letteratura cattolica – gradito regalo dell’amico Piergiorgio Seveso –, impreziosito tra l’altro dall’ottima prefazione di Ferdinando Raffaele.

    In conclusione, L’oblato merita di essere letto perché insegna una cosa forse banale, ma di cui spesso ci si dimentica, e cioè che, ancora oggi, l’unico modo per essere pienamente uomini, per provare il brivido di andare controcorrente e sfidare la banalità, è quello di essere cattolici. Altre vie, ci sussurra Huysmans all’orecchio, semplicemente non esistono.

 

 
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