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Discussione: Anglica catholica

  1. #11
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Cristo cammina sulle acque del Nord: un viaggio nell’opera di George Mackay Brown, il poeta delle Orcadi

    George Mackay Brown (1921-1996) è stato uno dei più brillanti scrittori cattolici del secondo dopoguerra.

    Originario delle isole Orcadi, nella parte settentrionale della Scozia, Brown trascorse nella terra natia la maggior parte della propria vita, in volontario esilio, lontano dal caos della città. La sua immaginazione venne accesa in gioventù dalla lettura della Orkneyinga Saga, una collezione di racconti e poesie, tramandate di generazione in generazione, composta probabilmente nell’Islanda del XIII secolo. L’influenza della Saga è ravvisabile lungo tutta la parabola letteraria di Brown, nei temi, nei personaggi e, soprattutto, nello stile netto, conciso, che non si perde in inutili orpelli per andare dritto al nocciolo della questione.

    Brown si convertì al cattolicesimo nel 1961, dopo una lunga meditazione; la scelta fu in parte motivata dalla volontà di evadere dal freddo e rigido protestantesimo della famiglia. Da quel momento la religione divenne un elemento decisivo della sua opera.

    Determinante per la futura direzione della sua poesia e dei suoi romanzi fu l’incontro con Apologia pro Vita Sua di John Henry Newman. Il libro, letto per la prima volta nel 1947, impressionò Brown per la sua «logica magnificamente sconvolgente», tanto che lo scozzese pensò addirittura di farsi sacerdote. L’altro nome che fa capolino nei suoi lavori è quello del gesuita Gerard Manley Hopkins, il geniale poeta del XIX secolo. La messa, il cristianesimo nordeuropeo, l’esperienza secolare dei pescatori della Orcadi, la Passione di Cristo e la vita quotidiana degli isolani completano il variegato quadro delle influenze, costituendo una miscela di repertori e simboli che si ripresenta costantemente nelle migliori pagine di Brown.

    Come nel bellissimo poema Anathemata di David Jones, il mare e la liturgia sono gli elementi attraverso i quali si consuma il rapporto tra uomo e Dio. Nella poesia Feast of Candles, ad esempio, l’immagine del sacerdote che sussurra in latino è accostata a quella di una nave di pietra, una chiaro rimando alla Chiesa e al suo primo Papa. In Corpus Christi un giovane pescatore della Galilea, tra gli amici di Pietro e degli apostoli, accompagna Gesù nei suoi viaggi, fino alla crocifissione.

    La tecnica dell’umile osservatore che si trova coinvolto in venti più grandi di lui torna, di tanto in tanto, in altri componimenti poetici di Brown. In The Gardener: Easter la salita di Cristo verso il Calvario è narrata dal giardiniere di Giuseppe d’Arimatea, talmente preoccupato per il suo roseto da non capire nulla di quello che sta accadendo sotto i suoi occhi. Spesso il lettore si può trovare anche a osservare una scena attraverso vari sguardi, come in Tryst on Egilsay, la storia del martirio di San Magnus, conte delle Orcadi, avvenuto nel XII secolo.

    La storia di quest’ultimo è narrata pure nel romanzo Magnus (1973) che Brown scrisse utilizzando molti dei dettagli riportati nella Orkneyinga Saga (incluso il vivido ritratto del saccheggio di Anglesey da parte dei vichinghi). Il cuore del libro è costituito dal capitolo centrale, in cui si narra la morte del protagonista. Magnus assiste alla messa prima di venire tradito e ucciso; il suo eroismo trova la più alta espressione nella pacifica accettazione di un destino avverso, unica via per portare finalmente la pace nelle isole. La passione di Magnus, narrata secondo i canoni più tradizionali del romanzo cattolico, si associa naturalmente a quella di Cristo. Ma Brown, che anche nella prosa non rinuncia alla rapida associazione d’idee tipica dei suoi versi, apre improvvisamente una riflessione sui sacrifici umani nella cultura pagana, per poi chiudere l’episodio con la morte del teologo luterano Dietrich Banhoeffer in un campo di concentramento nazista.

    In Magnus Brown esprime una visione universale dell’esperienza umana, centrata sulla messa, che ricorre anche in un romanzo precedente, Greenvoe (1972), dedicato alla vita quotidiana nelle Orcadi tra presente e passato.

    L’originalità di George Mackay Brown, il motivo per cui i suoi lavori meritano di essere letti e riletti, risiede – oltre nella strana commistione tra prosa e poesia, rese quasi indistinguibili, che ne caratterizza lo stile, davvero unico – nella parola che, tra terra e cielo, racconta la storia di un microcosmo semplice, fatto di piccole cose, dove le persone, tra pesci e reti, vivono a fianco di quel Cristo che cammina sulle acque del Nord.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/07/c...-delle-orcadi/



    https://www.radiospada.org/2018/07/c...-delle-orcadi/

  2. #12
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    La tentazione cattolica di Oscar Wilde

    di Luca Fumagalli

    Tutti conoscono la sfortunata parabola esistenziale di Oscar Wilde. L’irlandese, uno dei più grandi scrittori degli ultimi due secoli, compromise con una condotta riprovevole quella carriera che pareva destinata a una gloria senza riserve. La sottile arte di coltivare l’eccesso, tra anticonformismi e provocazioni, se all’inizio fu una furba scorciatoia per farsi notare nell’affollato mondo letterario londinese, alla lunga si rivelò un’arma a doppio taglio.

    Dietro i sorrisini beffardi della banda del garofano verde, quei dandy dinoccolati parodiati da Hichens in un noto romanzo, si celava infatti un mondo di vizi indicibili. Wilde e i suoi erano abituali frequentatori di marchettari, ragazzi disoccupati, per lo più di umili origini, che si fregavano le mani all’opportunità di spillare qualche quattrino al ricco cliente di turno. La maggior parte di essi praticava anche il ricatto, un’utile strumento per arrotondare i magri guadagni. Pure Wilde fu una loro vittima, ma riuscì a parare abilmente ogni colpo.

    La sua vera sfortuna, piuttosto, fu quella di avere al fianco il giovane Lord Alfred Douglas, l’amante che lo rovinò. Fu lui, nel 1895, a trascinarlo in un assurdo processo contro il proprio padre, quello che costò a Wilde la condanna e due anni di prigione e un marchio d’infamia che ancora oggi sopravvive nella memoria collettiva. Al Lord, ovviamente, non venne torto un capello. Insieme a lui fu assolta nel silenzio un’intera classe dirigente di disonesti e viziosi, mentre lo scrittore rimase l’unico a fare da capro espiatorio. Wilde perse tutto: moglie, figli, salute e talento. Uscito dal carcere, cercò in qualche modo di rimettere insieme i cocci di un’esistenza in frantumi. Morì poco dopo, nel 1900, a soli 46 anni, in un albergo parigino dove alloggiava sotto falso nome.

    Sarebbe tuttavia ingiusto ridurre Oscar Wilde – oggi una delle tante “icone gay” dell’universo LGBT – ai suoi pur ignobili peccati. Se si vuole uscire dalla stereotipo, in ossequio alla verità, è utile tornare ad abbracciare la complessità di un uomo che fu, come la sua arte, qualcosa di eccezionale.

    In pochi, ad esempio, conoscono la diuturna liaison tra il caporione dell’estetismo e la Chiesa Cattolica, quella che qualcuno ha definito “la sua lunga conversione”. Wilde, costantemente tentato da un battesimo a cui ogni volta sfuggiva per rigettarsi nelle morte gore della mondanità, divenne cattolico solo in punto di morte, grazie allo zelo dell’amico Robbie Ross. Il tema, affrontato da Paolo Gulisano ne Il ritratto di Oscar Wilde, ritorna con insistenza anche in una celebre biografia come quella di Philippe Jullian, ben scritta ma forse un po’ troppo incline a esaltare il lato sensazionalistico e irregolare della vita del genio irlandese. In essa vi è un intero capitolo – più qualche rimando qua e là – dedicato al contraddittorio rapporto di quest’ultimo con la fede.

    Fu a partire dagli anni universitari che il giovane Oscar iniziò a rivolgere lo sguardo a Roma. Il cattolicesimo, spazio d’evasione in un paese protestante, lo attraeva per la sua qualità spirituale, lontana dal materialismo dell’epoca, per la mistica, il latino, per la bellezza della liturgia e per il culto dei martiri, vittime di un mondo che odiava chi si considerava diverso. La Chiesa stessa era un impressionante museo, solennemente rispettoso dell’arte, in cui erano accumulate reliquie e cose meravigliose. Del resto, in quegli anni, due poeti del calibro di Coventry Patmore e Gerard Manley Hopkins si erano appena convertiti, così come J. H. Newman stava dando pubblico spettacolo seminando il panico tra gli anglicani con le sue affilatissime armi apologetiche. Wilde, per curiosità, prese a frequentare le funzioni nella cappella di Sant’Eligio che i cattolici avevano avuto il permesso di innalzare a Oxford. Non disdegnava, inoltre, puntatine a Londra, all’oratorio di Brompton, dove ascoltava con ammirazione i sermoni del cardinal H. E. Manning. Imparò a nutrire una sincera devozione per la Madonna e per grandi santi come Agostino.

    I viaggi a Roma corroborarono in lui l’ammirazione per il papato; a Pio IX dedicò alcuni componimenti poetici e, in un’occasione, quando scoprì con imbarazzo di essersi involontariamente messo sull’attenti al passaggio della carrozza reale, ricordò a se stesso di essere un “nero”, cioè un “papista” e un nemico giurato di casa Savoia.

    Denaro e ambizione, però, come Wilde dovette amaramente ammettere, sono idoli difficili da sacrificare. La luce era stata intravista, ma seguirla era un altro paio di maniche. D’altronde il padre, un uomo di rigida formazione protestante, lo aveva minacciato: se si fosse convertito, Oscar avrebbe potuto dire addio all’eredità.

    A Londra Wilde arredò la casa in cui viveva con mobili e oggetti pregiati, oltre ai quali figuravano una madonna di gesso, una foto di Pio IX e una di Manning. Tra quelle stesse mura scrisse i primi lavori che, negli anni seguenti, gli avrebbero garantito un vastissimo successo (nonché la possibilità di mantenere moglie e figli).

    Le opere dell’irlandese, nella maggior parte dei casi, sono lavori profondi e altamente morali. Il ritratto di Dorian Gray, che tanto scandalizzò i salotti britannici per la descrizione dei vizi di cui è vittima il protagonista, fu difeso a spada tratta dalla stampa cattolica che lo ritenne un pregevole strumento educativo, capace di toccare il cuore del lettore. L’insulso narcisismo di Dorian è quello di un Faust tragicamente moderno, che ha nello specchio l’alfa e l’omega della sua vita. Anche le commedie, create sul modello settecentesco, dietro l’apparente frivolezza dimostrano che la verità è la medicina per guarire dalla malattia dell’equivoco. Ne Il fantasma di Canterville si racconta invece della paura che genera i mostri, e di come coraggio e compassione possano sconfiggere il male; mentre nella delicata fiaba Il pascatore e la sua anima – una delle tante della bibliografia wildiana che meritano di essere lette – un novello Andersen denuncia l’inquietante facilità con cui l’uomo è disposto a svendere l’anima al primo acquirente (lo ricorda Silvana De Mari nel saggio La realtà dell’orco).

    Tutto questo evidentemente non bastò a Wilde per essere salvato da se stesso. In diverse occasioni non mancò pure di cercare il conforto del confessionale: il sacerdote veniva contattato, si intratteneva con lui in qualche colloquio, dopodiché lo scrittore puntualmente spariva, senza dire nulla, per tornare nel bel mondo che lo stava fagocitando poco a poco. Dopo la prigionia – in carcere, tra l’altro, chiese e ottenne di poter leggere molti testi cattolici – dall’esilio francese scrisse agli amici lettere piene di pentimento, dove annunciava con gioia che aveva iniziato ad assistere regolarmente alla messa; qualche settimana dopo si gettava nuovamente tra le braccia di Douglas, lo stesso che Wilde aveva così lucidamente inchiodato alle sue colpe in quella stupenda preghiera laica che è il De Profundis.

    Forse, come ebbe a dire in un momento di lucidità, se il padre gli avesse permesso di convertirsi, il suo talento e la sua esistenza non sarebbero stati sciupati tanto stupidamente. Miseria e grandezza si mescolano nella vita di un letterato, la cui supplica, scomposta e contradditoria come quella di ogni essere umano, venne infine accolta in Cielo. Al pari dell’amato Sant’Agostino, Oscar Wilde non smise mai di invocare una sorta di Grazia posticipata, una Grazia che, per sua fortuna, lo soprese poco prima di esalare l’ultimo respiro.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2017/06/l...i-oscar-wilde/

  3. #13
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Il ragazzo martire di Norwich”. L’omicidio rituale ebraico in una poesia di Baron Corvo

    Nota di Radio Spada: in vista della pubblicazione di una biografia del scrittore cattolico inglese William Rolfe nella collana “L’osteria volante” prevista per il dicembre 2016, verranno pubblicate alcune traduzioni inedite di poesie rolfiane a cura di Luca Fumagalli, redattore di Radio Spada.

    Testi e traduzione a cura di Luca Fumagalli

    Premessa: Corvo poeta

    Il nome di William Rolfe, comunemente noto con lo pseudonimo letterario di Baron Corvo, solitamente non è associato alla poesia. Diversi riconobbero la sua straordinaria facilità nel comporre in versi ma, ad accezione dell’agile volumetto approntato da Cecil Woolf nel 1974, intitolato Collected Poems, delle poesie dell’enigmatico scrittore inglese rimangono poche tracce, più che altro cimeli per collezionisti facoltosi.

    I componimenti conosciuti sono circa una trentina – qualcuno è andato perso e certamente altri devono essere ancora ritrovati – ma solo diciassette furono pubblicati su giornali scolastici, quotidiani o riviste letterarie e religiose. La maggior parte è databile tra il 1880 e il 1890, quando Rolfe aveva dai venti ai trent’anni. Dal 1890 l’autore si trovò ad affrontare crescenti difficoltà economiche che lo fecero virare in direzione della prosa, certamente più popolare e remunerativa. L’ultima poesia nota fu scritta a Venezia, nel 1909.

    Lo stile compositivo di Baron Corvo mostra la medesima attenzione verso la parola tipica dei romanzi, selezionata accuratamente con lo scopo di valorizzarne al massimo l’espressività. Le poesie, generalmente brevi e quasi tutte di argomento religioso, utilizzano forme metriche della tradizione inglese.

    Sebbene non disprezzabile, Rolfe non fu un versificatore eccelso. Il vero Baron Corvo, se così di può dire, rimane quello della prosa: nei romanzi, nei racconti e nelle lettere è presente una geniale originalità che nei poemi giovanili, tranne rare occasioni, è perlopiù assente.



    William di Norwich e l’omicidio rituale

    Quello di San William di Norwich (1132-1144) è il primo caso conosciuto di omicidio rituale. L’unica fonte contemporanea disponibile è quella di Thomas di Monmouth, un monaco di Norwich. Secondo il suo racconto, il dodicenne William, apprendista conciatore, fu allontanato da casa con l’inganno e in seguito il suo corpo mutilato fu trovato appeso a un albero vicino alla città. Lo zio del giovane, un sacerdote, accusò pubblicamente gli ebrei di essere gli autori dell’orribile omicidio. Cinque anni più tardi, quando alcuni cristiani furono processati per l’assassinio di un ebreo, il vescovo di Norwich ordinò la riapertura delle indagini sulla morte di William, ma nessuno fu condannato a causa della mancanza di prove. Il culto pubblico si diffuse rapidamente, e al giovane martire fu anche intitolata una cappella, a Mousehold Heath, purtroppo distrutta durante la Riforma.

    Rolfe nutriva una devozione profonda per questo santo ragazzo, una volta molto popolare in Inghilterra. A lui dedicò almeno tre poesie, un dipinto e progettò di scriverne la biografia.

    The Boy Martyr of Norwich

    Far in the thickest wood the fair lad lies
    A rosy radiance plays around his head
    Tall trees rise black upon the midnight skies
    Save where a silver beam reveals the dead.
    Magnificat he sang at evensong
    And then when music hushed and lamps were low
    Alone he homeward went nor dreamed of wrong
    And in the still moonlight with footsteps slow
    From a dark entry sprang a Jewish horde
    Like fiends around the gentle boy they stood
    And, as in ages dim they slew his Lord,
    Nailed to a cross his white limbs stained with blood.
    But God’s sweet Mother grants him strength to bear
    That fadeless diadem which martyrs wear.

    (Traduzione: Lontano, nel bosco più folto, giace il leale ragazzo; / un splendore roseo brilla intorno alla sua testa, / neri alberi si innalzano nel cielo di mezzanotte / tranne dove un raggio d’argento rivela il morto. / Cantò il Magnificat durante la preghiera serale / e poi, quando la musica tacque e le lampade si abbassarono, / tornò verso casa senza temere alcunché; / e nel chiaro di luna, con passi lenti, / da un’entrata scura balzò un’orda ebraica; / stavano simili a demoni intorno al delicato ragazzo / e, come in epoca oscura uccisero il suo Signore, / inchiodarono su una croce le sue bianche membra macchiate di sangue. / Ma la dolce Madre di Dio gli concede la forza di sopportare / quel diadema intramontabile che i martiri indossano.

    Fonte: https://www.radiospada.org/2016/04/i...i-baron-corvo/

  4. #14
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    “Hubert’s Arthur”: l’ideale cristiano nel Medioevo immaginario di Baron Corvo

    Hubert’s Arthur, scritto a quattro mani con l’amico Harry Pirie-Gordon tra il 1909 e il 1911, impegnò Rolfe nella revisione fino alla fine dei suoi giorni (quando pare fosse già pronto a riscriverlo daccapo). La prima edizione del romanzo apparve solo nel 1935 per volontà di A. J. A. Symons e della casa editrice Cassell che decise di investire, peraltro senza grande successo, in un prodotto chiaramente di nicchia.

    Il romanzo, un laborioso esperimento di storia immaginaria, tenta di riscrivere la vicenda di Arthur, duca di Britannia, vissuto nella prima metà del XIII secolo ed erede al trono inglese per volontà dello zio, Riccardo Cuor di Leone. Anziché morire assassinato per mano di Giovanni Senzaterra – autoproclamatosi legittimo sovrano in sua vece – il giovane Arthur riesce a fuggire in Terra Santa con la complicità del nobile Hubert de Burgh. Grazie al coraggio dei suoi uomini, tra cui spicca per fedeltà Fulke, figlio illegittimo di Riccardo, strappa Gerusalemme ai saraceni e torna in Britannia da eroe. Alla morte di Giovanni, quando l’Inghilterra è attraversata da una sanguinosa guerra civile, Arthur decide di riprendersi ciò che gli spetta di diritto: dopo aver sconfitto in duello Enrico, figlio del defunto sovrano, può finalmente indossare la corona, inaugurando un regno di pace e prosperità.

    L’intera storia, come suggerisce il titolo, è narrata da Hubert de Burgh. Nella nota introduttiva al romanzo, datata 1911, si specifica che il manoscritto è stato ritrovato da Crabbe – uno dei tanti pseudonomi di Rolfe – in una cripta della Torre di Londra, e che poi Prospero e Calibano (Corvo e Pirie-Gordon), recuperandolo dalle carte dello scomparso scrittore, hanno deciso di tradurlo per il vasto pubblico dei lettori.

    Hubert, riproponendo idealmente la polemica contro gli storici tendenziosi inaugurata da Rolfe in Cronache di Casa Borgia (1901) e in Don Tarquinio (1905), si pone in aperta contrapposizione a Matthew Paris, uno dei più importanti cronisti del Medioevo; lui, un politico, un guerriero e, soprattutto, un protagonista dei fatti, può raccontare la verità sicuramente meglio di un «piccolo monaco strisciante […] che non conosce nulla se non per sentito dire o per aver spiato dal buco della serratura».

    Epico, ponderoso, con intermezzi aneddotici che spezzano il filo del discorso per ripiegare su particolari insoliti e su una miriade di personaggi secondari, Hubert’s Arthur riesce comunque a mantenersi abbastanza compatto, qualitativamente superiore a lavori come The Weird of the Wanderer (1912). Sebbene la lettura non sia sempre facile, perché resa ardua dalle consuete bizzarrie lessicali e dal ritmo variabile, si rimane stregati innanzi a quella burla esoterica che è il racconto, una ricca esposizione di informazioni storiche e temi rolfiani ricorrenti. Il romanzo, il più lungo composto da Corvo, svela nelle minuzie della costruzione la tensione alla verosimiglianza di Walter Scott, così come nella trama reca un profondo debito nei confronti di Maurice Hewlett, autore nel 1900 di The Life and Death of Richard Yea-and-Nay. Con quest’ultimo Rolfe instaura un vero e proprio dialogo, riprendendo intere scene e personaggi.

    Non mancano tra le fonti del libro diversi documenti storici, spesso citati nelle note che corredano il testo. Tra essi spicca per importanza il saggio di Joseph Jacobs The Jews of Angevin England (1893), un tentativo di assolvere gli ebrei dalle accuse medievali di praticare omicidi rituali di giovani cristiani durante il periodo pasquale. Rolfe, ogni volta che l’intreccio gliene offre la possibilità, ribalta le tesi di Jacobs e dà sfogo al suo antigiudaismo, così ricorrente da costituire uno dei temi portanti del romanzo. Giovanni, per esempio, prova a sbarazzarsi di Arthur vendendolo agli ebrei di Bristol che, a loro volta, tentano di crocifiggerlo; oppure, nella lunga sequenza finale che chiude il volume, la canonizzazione del piccolo Sant’Ugo di Lincoln culmina con il perdono del re, un gesto d’inaspettata misericordia che lascia interdetti persino gli ebrei accusati del delitto.

    L’Inghilterra partorita dalla fantasia di Corvo, costruita con rimandi intertestuali che comprendono, tra l’altro, l’Itinerarium Regis Ricardi di Guglielmo di Tiro, il King John di Shakespeare e la Storia della Priora di Chaucer, si trasforma in una patria ideale che poggia sui pilastri della monarchia e del cattolicesimo. Arthur, a differenza dell’inetto Giovanni, riesce a mantenere saldamente le redini del governo, non concedendo nulla alla nobiltà e garantendosi l’appoggio della Chiesa. Potere temporale e potere spirituale – rappresentato nel libro da un maestoso Innocenzo III, ispirato all’autore dalla monografia scritta qualche hanno prima da Pirie-Gordon – trovano così una nuova, felice sintesi. Il giovane sovrano, «radiante di speranza quando le circostanze sembravano le più disperate», simile a Cristo per le stimmate che porta, è un secondo Salomone, degno erede del mitico Artù, anch’egli prossimo a entrare nella leggenda.

    Il Medioevo contenuto in Hubert’s Arthur, descritto con malsano compiacimento nei tormenti e nei massacri, dove l’osceno si mescola al santo e al diabolico, è, secondo Graham Greene, il correlativo oggettivo del cuore di Corvo, diviso tra carne e spirito, un’anticipazione dell’epifania esistenziale de Il desiderio e la ricerca del tutto (pubblicato postumo nel 1934), forse il migliore romanzo di Frederick Rolfe.

    PS Hubert’s Arthur è attualmente disponibile solo in lingua inglese (tra l’altro in edizione recente e commentata). Il libro, infatti, non è mai stato tradotto in Italia.

    Luca Fumagalli

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/01/h...7VEqcHVfxNYUuI

  5. #15
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Continua con questo brano la pubblicazione di una serie di stralci tratti da L’alba di tutto (1911), romanzo utopico di R. H. Benson che racconta la storia di monsignor Masterman, cappellano del cardinale inglese Bellairs. L’uomo si risveglia dopo un lungo coma e scopre un mondo profondamente mutato in cui la Chiesa è diventata la guida indiscussa dell’umanità.

    In uno dei passaggi più commoventi del romanzo, il benedettino Adrian Bennet, condannato a morte per le sue idee eterodosse sui miracoli, si trova nella paradossale posizione di dover convincere uno sconcertato Masterman della bontà della pena capitale; secondo il monaco si tratta infatti uno strumento necessario per preservare l’ordine sociale e che certamente non può contrariare un cristiano in buona fede.



    Monsignore era ammutolito per lo stupore, e per la consapevolezza di essere stato gettato fuori strada. Sentiva di essere stato intellettualmente vittima di raggiro; e gli sembrava un ulteriore affronto essere stato raggirato da questo giovane monaco col quale era venuto a solidarizzare.

    «Ma la pena di morte!» esclamò. «Morte! È questo l’orrore. Capisco una pena spirituale per un crimine spirituale – ma una fisica…».

    Dom Adrian sorrise un po’ stancamente.

    «Mio caro monsignore» disse «pensavo di aver spiegato che era un crimine contro la società. Non vengo messo a morte per le mie opinioni; ma perché, sostenendo tali opinioni, che sono dichiarate eretiche, e rifiutando di sottomettermi a una decisione d’autorità, sono un nemico dello stato civile che è ancorato unicamente ai decreti del Cattolicesimo. Ricordate che non è la Chiesa a mettermi a morte. Questo non è sua competenza. Essa è una società spirituale».

    «Ma la morte! La morte, comunque!».

    Il viso dell’uomo si fece serio e intenerito.

    «È cosi spaventosa» disse «per un Cattolico convinto?».

    Monsignore si alzò in piedi. Gli sembrava che tutto il suo senso morale fosse in pericolo. Fece il suo ultimo appello.

    «Ma Cristo!» gridò «Gesù Cristo! Riuscite a immaginare quel nostro mite Signore che tollera tutto questo per un istante! Non vi posso rispondere adesso; anche se sono convinto che ci sia una risposta. Ma è inconcepibile che Colui che disse “Non resistere al malvagio”, che Colui che fu muto davanti ai suoi assassini…».

    Anche dom Adrian si alzò. I suoi occhi si fecero straordinariamente intensi, e il suo volto ancora più pallido. Attaccò a bassa voce, ma quando giunse alla fine la sua voce risuonava forte nella piccola stanza.

    «Siete voi che state disonorando nostro Signore» disse, «Certamente egli patì, come anche noi Cattolici possiamo patire, cosa che vedrete un giorno – come avete visto già mille volte, se sapete qualcosa del passato. Ma è tutto qui quel che Egli è…? È solo il Principe dei Martiri, il supremo Uomo dei Dolori, il muto Agnello di Dio? Non avete mai udito dell’ira dell’Agnello? Degli occhi che sono come una fiamma di fuoco? Dello scettro di ferro con cui Egli fa a pezzi i re della terra? Il Cristo a cui voi vi appellate è nulla. É solo il fallimento di un Uomo senza la Divinità… il Principe dei sentimentalisti, e di quella perversa vecchia Religione che un tempo osava chiamare se stessa Cristianità. Ma il Cristo che adoriamo è più di questo – l’Eterno Verbo di Dio, Colui che corre sul Cavallo Bianco, conquistando e per conquistare… Monsignore, voi dimenticate di quale Chiesa siete prete! É la Chiesa di Colui che strappò i regni di questo mondo da Satana, pei poterli conquistare per Se stesso. L’ha fatto! Cristo regna…! Monsignore, ecco cosa avete dimenticato! Cristo non è più un’opinione o una teoria. Egli è un fatto. Cristo regna! Egli veramente regna in questo mondo. E il mondo lo sa».

    Si fermò un secondo, tremando per la sua stessa irruenza. Poi stese le mani.

    «Sveglia, monsignore, sveglia! State sognando. Cristo è di nuovo il Re degli uomini, ora – non solo dei devoti che hanno un animo religioso. Egli comanda, perché ha il diritto di comandare… E il potere civile lo rappresenta nelle questioni secolari, e la Chiesa in quelle spirituali. Sto per essere messo a morte! Beh, protesto di essere innocente, ma non sostengo che il crimine di cui sono accusato non meriti la morte. Protesto, ma non mi risento. Pensate che tema la morte?… Non è forse anche quella nelle Sue mani…? Cristo regna, e tutti noi lo sappiamo. E anche voi dovete saperlo!».

    Ogni sensazione sembrava essere svanita dall’uomo che ascoltava… Era conscio di una bianca faccia estatica con occhi ardenti che lo fissavano. Non poteva più resistere attivamente o ribellarsi. Fu solo col massimo sforzo che poté ancora trattenersi dal cedere del tutto. Una qualche grande pressione sembrava avvilupparlo e circondarlo, minacciando la sua stessa esistenza come individuo. Tanto tremenda era la forza con cui le parole erano state pronunciate, che per un istante gli sembrò di contemplare in una visione mentale quello che esse descrivevano – una Suprema Figura Dominante, ferita di certo, ma che spadroneggia e si fa rispettare nella Sua forza – non più il Cristo della gentilezza e della mitezza, ma un Cristo che aveva preso il potere alla fine e regnava, un Agnello che era un Leone, un Servo che era Signore di tutto; Uno che non si difendeva più, ma comandava….

    E tuttavia egli si aggrappava disperatamente e ciecamente al vecchio ideale. Spinse via da sé questa Presenza dominatrice; tutta la sua persona e la sua individualità non avrebbero ceduto a Colui che domandava il sacrificio di entrambe. Vide infine questo Cristo, e con un bagliore d’intuizione percepì che questa era la chiave per questo mondo mutato, che lui trovava tanto incomprensibile; e però non l’avrebbe accettato – non avrebbe accettato che quest’uomo governasse su di lui…

    Fece un ultimo sforzo; la visione passò ed egli si alzò, sentendo ritornare un’altra sensazione, comprendendo di essersi salvato da un’estinzione più completa di quella della morte.

    «Bene» disse quietamente – così quietamente che quasi ingannò anche sé stesso – «bene, mi ricorderò di quello che dite, dom Adrian, e farò quello che posso col cardinale».

    (Brano tratto da R. H. BENSON, L’alba di tutto, Verona, Fede & Cultura, 2010)

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/04/m...pena-di-morte/

  6. #16
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Breve nota su Alice Thomas Ellis: una scrittrice glamour contro la “nuova messa”

    I romanzi di Alice Thomas Ellis (1932-2005), seppur fortemente indebitati nei confronti dell’opera di Ronald Firbank, rivelano sotto il manto glitterato di uno stile provocatorio e ironico una profonda dimensione religiosa.

    Tipico di questo atteggiamento è The 27th Kingdom (1982), in cui si descrive la vicenda di Valentine, un novizio di origini caraibiche che giunge a Chelsea per sconvolgere la vita della russa Zia Irene e della piccola comunità cattolica locale. Tra angeli e demoni, tra miracoli e cialtroni di ogni sorta, il tono del libro è volutamente dimesso, i personaggi appaiono ingenui, quasi sempliciotti, l’azione è caricaturale e irreale, giocata su un costante contrasto tra il fascino della Chiesa di Roma e l’incomprensione protestante che la circonda. Qui, esattamente come nel romanzo d’esordio The Sin Eater (1977), l’autrice inglese offre al lettore una convincente allegoria del bene e del male, corroborata da alcune frecciatine rivolte alla Chiesa moderna.

    La Ellis – il cui vero nome è Ann Margaret Lindholm – è infatti una delle scrittrici principali della cosiddetta ala “tradizionalista” del cattolicesimo britannico contemporaneo (che annovera pure tra le sue fila lo scozzese George Mackay Brown). Nei suoi lavori non si manca mai di criticare con arguzia la “nuova messa” voluta da Paolo VI e le riforme promosse dal Concilio Vaticano II.

    Una figura, dunque, interessante, da scoprire, anche se purtroppo la sua vasta bibliografia è fruibile solo da chi conosce la lingua inglese, dal momento che nessuno dei suoi romanzi è mai stato tradotto in italiano.

    Luca Fumagalli

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/06/b...a-nuova-messa/

  7. #17
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Toto e i suoi racconti: il “quinto Vangelo” di Baron Corvo

    Durante il soggiorno a Holywell, in Galles, l’inglese Frederick Rolfe (1860-1913) aveva redatto svariati articoli, recensioni e racconti. Se molti di questi pregevoli pezzi non furono mai pubblicati, tra l’ottobre del 1895 e l’ottobre del 1896 sei delle sue novelle italiane, firmate Baron Corvo, avevano raggiunto le pagine del prestigioso «The Yellow Book»: un piccolo grande successo dopo anni di stenti.

    La rivista, un simbolo del periodo, era frutto della coraggiosa iniziativa dell’editore John Lane che intendeva proporre al pubblico un periodico nuovo, al passo con il gusto moderno, dedicato alla narrativa e all’arte. Il direttore letterario era lo scrittore Henry Harland, mentre dell’aspetto artistico si occupava Aubrey Beardsley, reduce dal successo come illustratore della Salomé di Wilde. Alla redazione collaboravano tutti i nomi famosi della letteratura del tempo, decadenti e non.

    I primi segnali di crisi si avvertirono già nel 1895, in concomitanza con il processo Wilde, quando una campagna denigratoria organizzata dai benpensanti spinse il «The Yellow Book» ad arretrare dall’avanguardismo verso un compromesso tra tradizione e innovazione: nel periodico, che fu la più esauriente testimonianza del dominio estetico in Inghilterra, si appalesarono poco alla volta i sintomi del suo iniziato dissolvimento.

    Scritti come quelli di Rolfe si adattavano perfettamente al nuovo corso del «The Yellow Book», ormai autoconfinatosi nelle periferie del decadentismo. In essi la ricerca di un nuovo carattere di ingenuità, di freschezza di contenuto e di disimpegno si sposava perfettamente con la cura del linguaggio e la deliberata raffinatezza dei motivi tanto cara ad Harland.

    Nel settembre del 1898 Lane decise di raccogliere le novelle di Corvo in un piccolo volumetto, Stories Toto Told Me, successivamente ampliato con altri ventiquattro racconti e ristampato tre anni dopo, nel 1901, con il titolo In His Own Image (un chiaro riferimento a Genesi I, 27: «Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza»).

    Dedicato al Divo Amico Desideratissimo – l’alleato che Rolfe ancora andava cercando – il libro è un decamerone di storie sacre che si fingono narrate da Toto Maidalchini, un ragazzino abruzzese, al personaggio-autore, don Friderico, prete mancato e barone immaginario, con il quale in veste di servitore condivide, oltre allo spazio narrativo, gite e vagabondaggi per l’Italia meridionale. Con loro una corte di giovani: Guido, Ercole, Otone, Ilario, Desiderio e Vittorio, addetti al trasporto dei libri, del materiale fotografico e delle vivande. La piccola compagnia segue un itinerario attraverso il Lazio, l’Abruzzo e la Puglia, toccando paesi come Velletri, Vasto, Manfredonia, e soggiornando presso il lago di Varano o il monte Saraceno. I luoghi sono descritti in termini simili, dando al lettore l’impressione che i protagonisti si muovano sempre nella stesso indifferenziato Mezzogiorno «caldo di sole e sgargiante di colori».

    L’allegra brigata, nel contrasto tra l’austerità del nobile inglese e la vivacità della giovinezza, è un microcosmo in cui cultura e natura giungono a una possibile sintesi, un gioco di ruolo con acuti surreali che anticipano il camp di Ronald Firbank. Friderico, nei suoi atteggiamenti da moralista, quasi di missionario tra i barbari, frena ma al contempo invidia la gaiezza e la libertà dei suoi servitori; è evidente che «la sua eccellenza», come lo chiamano con deferenza, è alla ricerca di qualcosa di perduto, di un’innocenza che conduce a un rapporto diretto con il divino, senza inutili formalismi. La riconquista non può avvenire altrimenti che attraverso una rivalutazione del sentimento e dell’attività fantastica. Toto è la “sacra fonte” da cui attingere per una tale operazione.

    Non sono comunque assenti passi in cui don Friderico, con orgoglio razziale, compatisce la mollezza e l’ineducata forza mediterranea, incapace di dominare le proprie emozioni.

    s-l1000

    L’Arcadia rolfiana è un luogo esclusivamente virile, dove le donne non hanno cittadinanza. I componenti della compagnia, descritti con compiacimento nei loro attributi fisici, rimandano a una nuova sensibilità pagana, incapace di celare un sentore omofilo che già a qualche contemporaneo non era sfuggito. Nulla di esplicito, si intende, ma qualcosa di cui lo stesso Rolfe dovette accorgersi se giunse al punto di fabbricarsi un alibi all’interno del libro; nel racconto About Our Lady of Dreams don Friderico chiede a Toto perché le storie da lui narrate abbiano sempre per protagonisti dei ragazzi: «Perché, signore, il simile nota il simile e io, essendo un fanciullo, conosco molto dei miei compagni».

    Il sedicenne Toto, il bardo di In His Own Image, modellato sull’omonimo adolescente conosciuto da Rolfe quando si trovava a Roma, è descritto come «una splendida creatura selvaggia (discolo) degli Abruzzi. […] La sua pelle era scura, con del vero sangue sotto, liscia come una pesca, e il suo aspetto era nobile come quello di un dio. […] Gli facevo indossare degli abiti bianchi in quei caldi giorni d’estate vicino al lago».

    Etereo, elemento dello sfondo che si anima all’occorrenza, quasi un doppio di Rolfe, Toto è immobile in un eterno presente. Sono resi noti solo pochi dettagli della sua vita: uno dei suoi fratelli, Niccolo, è un seminarista, mentre la relazione amorosa che intreccia con una certa Beatrice è solo accennata quando utile a introdurre uno dei racconti. Il vitalismo del giovane, ritratto in una scena mentre corre nudo per i boschi, alla stregua di un fauno, è indizio di un panismo decadente, in questo caso più decorativo che filosofico.

    Nelle storie che racconta al padrone, di cui è servo devoto, l’agiografia, la Bibbia, il folklore e il mito si incontrano in un miscuglio tutt’altro che sgradevole, capace, anzi, di evocare nelle delicate tinte pastello un mondo ideale in cui alto e basso convivono all’insegna della purezza, custodito dal benevolo sguardo di Dio. Se i santi e gli angeli a volte sono descritti come divinità pagane, animati dalle medesime passioni degli uomini, allo stesso tempo sono parte di una realtà in cui il sorriso e la gioia hanno sempre il sopravvento. Sullo sfondo si combatte una lotta senza tregua tra bene e male, ma la disfida raramente è credibile, non per mancanza di afflato, ma perché già dalle prime battute appare chiaro come le forze del paradiso siano destinate sempre e comunque a trionfare su quelle degli Inferi.

    Gli episodi si svolgono in un costante dialogo tra cornice e racconto, a ricordare che quanto avviene nell’universo narrativo di Toto altro non è se non il riflesso della condizione umana, misera eppure maestosa. Si tratta dunque di veri e propri racconti morali, il cui valore educativo non sfugge anche quando nascosto dal fitto groviglio della retorica o dalla situazione comicamente grottesca.

    Lo stile segue un andamento fiabesco, fatto di divagazioni e strutture ridondanti, in cui riferimenti eruditi alla cultura classica si alternano a descrizioni minuziose che dilatano sempre più lo spazio della cornice fino a rivaleggiare con quello dei racconti veri e propri (i quali, per aumentare il senso di coerenza, a volte condividono il medesimo protagonista o un oggetto ricorrente).

    Le novelle di Toto prendono vita da un sostrato plurilingue in cui inserti di un italiano spesso ortograficamente scorretto rivaleggiano con grecismi e latinismi che donano leggerezza e vivacità al testo. Il linguaggio è ubertoso se a parlare è don Friderico, più scarno e ripetitivo nel caso dei ragazzi. Come già avveniva nella poesia, affiancato a giochi di parole e a brillanti onomatopee troneggia il lessico dalla grafia finto-arcaizzante (epick, antick, murthers …), addirittura modificato o totalmente inventato se utile a dare maggior incisività al periodo. Tutto è splendidamente curato, levigato fino all’eccesso.

    In About these Tales, the Key and the Purgatory il gusto liberty e la preziosità di Corvo cedono il passo a un piccolo spiraglio pseudo-modernista, in cui Toto, sotto effetto ipnotico, si abbandona a un vero e proprio flusso di coscienza che rompe logicità e punteggiatura. Non si tratta di una scelta consapevole, ma dell’ennesimo orpello retorico di filiazione impressionista, improntato sulle atmosfere gotiche della magica evocazione delle memorie dei defunti.

    In His Own Image affronta una grande varietà di temi, alcuni dei quali scopertamente autobiografici, così come molto diversi sono i protagonisti dei singoli episodi. Ciò che li lega, oltre alla cornice narrativa, alla personalità di Toto e alla lingua parlata, è il dolce sguardo dell’autore che, se da un parte non risparmia frecciatine polemiche, dall’altra non manca di ribadire l’infinita misericordia di Dio.

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    Le esilaranti vicende che riguardano i frati e il clero secolare – ridotti a caricare sottilmente crudeli di derivazione boccacesca e chauceriana – hanno a che fare soprattutto con le bassezze dell’animo umano, con l’egoismo, l’arroganza e la dabbenaggine. In About the Miracolous Fritter of Frat’Agostino of the Cappuccini, ad esempio, il frate protagonista pensa che la sua frittella sia stata rubata dagli angeli mentre veniva lanciata in alto (in realtà è solo scivolata nel suo cappuccio). In altri due episodi, About Sodom, Gomorrah and Two Admirable Jesuits e About the Fantastical Fra Guglielmo of the Cappuccini, i gesuiti sono beffati senza pietà e un rozzo frate scambia una semplice scossa di terremoto per le terribili insidie del demonio.

    I santi sono trattati invece con maggior rispetto, attraverso un umorismo delicato che sfiora il sublime epico come in Beign an Epick of Sangiorgio, in cui Rolfe ricostruisce le imprese di San Giorgio modellandole su quelle di Perseo. Le loro vicende, a metà tra Vangelo e leggende popolari, rivelano la devozione dell’autore che, tra le altre cose, non teme di appesantire il testo con lunghe citazioni di preghiere e inni sacri: non vi è alcun dubbio che In His Own Image sia il prodotto spontaneo di una fede assolutamente vitale.

    I trenta racconti, stampati in poche centinaia di copie, non vendettero quanto sperato: una spiegazione plausibile si trova nel fatto che Rolfe inseguiva ancora un ideale di “arte per l’arte” proprio nel periodo in cui si affacciavano esperienze più feconde come quella simbolista, che propugnava una rivalutazione del sentimento contro l’artificialità. La loro pubblicazione, che tanto aveva inorgoglito Corvo, fu ben lontana da risolvere i suoi problemi economici.

    Il libro subì inoltre l’ostracismo da parte di alcuni cattolici, perché ritenuto poco ortodosso, e fece storcere il naso a parecchi protestanti che lo consideravano un’apologia della Chiesa di Roma. Non scarseggiarono gli ammiratori, neofiti del cattolicesimo, che lo distribuirono come “il quinto Vangelo” (come mons. R. H. Benson); né mancò chi si dolse della forma piacevole che lo avrebbe fatto leggere a troppa gente.

    Luca Fumagalli

    FOnte: https://www.radiospada.org/2018/02/t...i-baron-corvo/

  8. #18
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  9. #19
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Fonte: https://www.radiospada.org/2017/05/d...-pessima-mira/

    Decadentismo e cattolicesimo: le malizie di un lapidatore incallito dalla pessima mira

    di Luca Fumagalli

    Purtroppo, con grande sofferenza, affranto più che altro dalla noia del dover mettere da parte per qualche istante la bellezza della vita vera, mi trovo costretto a rispondere ad alcune accuse che sono state rivolte alla pagina culturale di Radio Spada, e quindi indirettamente a me, da don Francesco Ricossa durante due prediche domenicali tenute a Modena e Ferrara il 28 maggio 2017. Per sintetizzare, il sito di Radio Spada è accusato di prestare un po’ troppa attenzione agli scrittori cattolici del cosiddetto Decadentismo, autori che presentano una parabola biografica tutt’altro che encomiabile, contraddistinta anzi, nella maggioranza dei casi, da vizi indicibili. Sono citati alcuni aforismi considerati eterodossi e si fa esplicita menzione del mio saggio dedicato alla scrittore inglese Frederick Rolfe “Baron Corvo” e pubblicato per le Edizioni Radio Spada (Baron Corvo. Il viaggio sentimentale di Frederick Rolfe, 2017).

    Premetto che mi sarei astenuto più che volentieri dallo scrivere alcunché. Torno ora dal lavoro grato per aver trascorso l’ennesima mattinata entusiasmante a scuola con i miei alunni, con il cuore gonfio di gioia per i loro sorrisi, le loro domande e per la passione con cui affrontano ogni sfida. A casa ho ritrovato gli sguardi benevoli della mia famiglia, e la telefonata di un amico mi ha ricordato quanto sono fortunato ad avere accanto persone come lui, pronte a ogni cosa per il mio bene. Non ho dunque bisogno d’altro. Dio mi ha dato tutto questo – anche troppo – e mi basta, certamente non me lo merito. Poco importa quindi di quello che viene detto contro i miei scritti pubblici, me ne laverei volentieri le mani (e per una volta sarebbe la soluzione migliore). La vita è troppo breve per perderla in sciocchezze. Tocca però scomodarmi per spendere un paio di parole almeno in difesa di Radio Spada e dell’onorabilità delle persone con cui ho voluto dare il via a questo progetto.

    So benissimo che tutto quello che scriverò non servirà a nulla; contro il preconcetto dei lapidatori farisaici non vale argomento, ma almeno mi sia concesso un tentativo.

    Parto, per rispondere, da quello che è forse il più grande fraintendimento da parte di don Ricossa e che rivela la natura fortemente pregiudiziale della sua intera argomentazione. A un certo punto si fa riferimento a una frase di mons. Benson: «La luce si nasconde di preferenza fra le tenebre». Il reverendo vede in questo aforisma non so quale elucubrazione eterodossa, quando Benson, in realtà, intende parlare della Provvidenza divina: l’uomo il più delle volte trova Cristo, la luce, solo quando nella sua vita si addensano le tenebre, quando diviene improvvisamente consapevole della sua debolezza e della sua fragilità.

    Viene citato a sproposito per confondere le acque anche William Golding, «L’uomo produce il male come le api il miele», autore di cui mi sono occupato in un altro saggio (L’ombra delle mosche. Introduzione alla narrativa di William Golding, 2015). Golding era agnostico e pertanto con il cattolicesimo non ha mai avuto nulla a che spartire.

    Andiamo ora alla questione principale. Il Decadentismo, cosa risaputa, è un’epoca letteraria piena di contraddizioni. Per quanto riguarda la storia della Chiesa inglese è stato però un momento decisivo, certamente una “falsa partenza”, come lo definisce lo studioso Richard Griffiths, ma quelli furono anni in cui si convertirono a Roma un numero sorprendente di intellettuali. Quando ho parlato delle vite di questi scrittori, Baron Corvo in testa, non ho mai mancato di mettere in evidenza i molti errori commessi da ciascuno di loro. Quello che mi ha sempre colpito delle loro biografie, e che mi ha spinto a scriverne, è che a un certo punto, anche in vite tanto disordinate, è accaduto qualcosa di più forte e vero che ha permesso loro di compiere il passo decisivo verso il battesimo e la Chiesa di Roma. A volte si è trattato di un fuoco fatuo, a volte, come nel caso di Gray e dell’amico Raffalovich, è stato un cammino spirituale solido e duraturo.

    Per quanto concerne John Gray, in gioventù amante di Wilde, se i superiori lo hanno valutato a suo tempo degno del sacerdozio, chi siamo noi per giudicare? Che poi, divenuto parroco, avesse dei rapporti impropri con Raffalovich, come don Ricossa sembra suggerire, è cosa assolutamente falsa.

    Su Baron Corvo mi limito in questa sede a ribadire, come ho già avuto modo di fare nel saggio a lui dedicato e in alcuni brevi interventi pubblicati su YouTube, che in numerosi brani della sua brillante letteratura è testimoniata una fede cattolica integrale. Saltuariamente essa convive con trovate meno condivisibili, ma è comunque presente. Il suo saggio sui Borgia è solo una delle numerose prove che si potrebbero addurre a tal proposito.

    Ambiguità? Semplicemente omnia munda mundis. Non amo crocifiggere le persone ai loro peccati. Se gli errori degli uomini divengono criterio esclusivo con cui giudicare la realtà allora è la fine per tutto e tutti.

    Mi sono occupato a lungo del Decadentismo e, a Dio piacendo, continuerò a farlo, perché, volente o nolente, esso costituisce un passaggio fondamentale nella storia letteraria del cattolicesimo inglese (ambito di studi a cui dedico le mie energie ormai da anni). Ho approfondito e continuerò ad approfondire anche altri autori appartenenti a epoche diverse (Newman, Tolkien, Chesterton, Greene, Waugh, Belloc, Marshall, Burgess, Leslie, Wiseman ecc.) Preciso per i più scrupolosi che nessuna opera dei decadenti inglesi è mai stata messa all’Indice e che studiosi cattolici del passato hanno ottenuto spesso l’imprimatur quando trattavano simili questioni.

    Credo che il pentimento e il riscatto siano cose reali e non solo belle storie da leggere nei libri. Quando si affrontato tali temi, chi ha il vezzo di puntare l’indice contro il prossimo, pronto a coglierlo in fallo solo per far quadrare i suoi perversi e poco cristiani “teoremi” contro Radio Spada, mostra invece uno scetticismo alquanto strano. Pare quel buffo personaggio del romanzo Il miracolo di Padre Malachia che, pur credendo formalmente nei miracoli di Cristo narrati nei Vangeli, quando ne vedo uno con i propri occhi si fa vincere facilmente dall’incredulità più ottusa.

    Molto ancora potrei scrivere, ma mi fermo qui. Alzo le mani in segno di resa e taccio. Sono già stato giudicato e trovato colpevole: a che varrebbe sprecare altro tempo?

    PS – Non volendo limitare queste mie righe a una triste cronaca dell’ora presente, colgo l’occasione per ringraziare i tanti sacerdoti che mi sono vicini e che stimano il mio lavoro. Per tutti i figlioli prodighi che si aggirano su questa terra morta è consolante sapere che c’è sempre un padre che li aspetta a casa a braccia aperte, pronto a correggere, ma anche e soprattutto a perdonare.

  10. #20
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    Predefinito Re: Anglica catholica

    Fonte: https://www.radiospada.org/2018/07/d...ndo-john-gray/



    la registrazione audio della 502° conferenza di formazione militante,

    tenuta il 20 luglio 2018

    a cura della Comunità Antagonista Padana

    dell’Università Cattolica del Sacro Cuore:

    parla Luca Fumagallii, introdotto da Piergiorgio Seveso.

 

 
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