L’espressione più alta del leninismo
Un altro aspetto del pensiero di Gramsci circa il significato dell’egemonia in rapporto alla dittatura emerge là dove egli esamina le concezioni di Croce e Gentile. Che cosa osserva Gramsci? Egli nota: 1) che “per Gentile la storia è tutta storia dello Stato”, che per lui “egemonia e dittatura sono indistinguibili”, nel senso (unilaterale) che “la forza è consenso senz’altro”, che “esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato governo, ecc.”; 2) che per Croce la storia “è invece ‘etico-politica’” cioè che questi “vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, fra egemonia e dittatura”[1]. Come possiamo sintetizzare, a questo punto, la posizione di Gramsci? Gramsci in effetti, nella sua concezione dell’egemonia, si distacca da Gentile nel senso che rifiuta (e qui è la sua caratteristica peculiare) l’identificazione tra dittatura ed egemonia, poiché tutta la sua concezione è volta a spiegare che esistono Stati che poggiano su dittature incapaci di egemonia; e si distacca altresì da Croce nel senso che non ritiene distinguibili, al modo in cui questi fa, l’ “egemonia” dalla “dittatura”, la “società civile” dalla “società politica”. Sintetizzando, si può affermare che secondo Gramsci il sistema dell’egemonia è riconducibile al sistema della dittatura, ma che può esistere un sistema di dittatura incapace di esprimersi in termini di egemonia, mentre l’egemonia deve inserirsi come specificità di una dittatura capace di risolvere insieme il momento del dominio sulle classi avverse e quello della direzione sulla classi alleate e sui gruppi affini.
Pare evidente, in conclusione, che quando cerca il modo di essere adeguato di uno Stato operaio, Gramsci lo trova nella concezione dell’egemonia. Esiste certo un sistema egemonico borghese fondato sul modo di produzione capitalistico ed espresso nello Stato democratico-borghese; deve secondo lui esistere anche un sistema egemonico fondato sul superamento del modo capitalistico ed espresso in quello Stato che organizza, per le classi e i gruppi appartenenti al “blocco storico rivoluzionario”, forme di “democrazia proletaria” e, per le classi e i gruppi ostili allo Stato operaio, forme di controllo e di repressione basate sulla violenza. Quel che certo appare inaccettabile per Gramsci è una concezione dello Stato come espressione “generale”, della democrazia quale quella oggettivatasi nel sistema liberale-rappresentativo, del marxismo come una delle varie ideologie, in concorrenza con la altre, inserita in un “pluralismo istituzionalizzato”, di un partito in cui il marxismo stesso possa convivere con fedi religiose e dottrine di diversa matrice.
Per dirla in poche parole, credo che si debba affermare con forza che la teoria dell’egemonia gramsciana è l’espressione più alta e complessa del leninismo, in nessun modo un ponte di passaggio fra il leninismo e una concezione della lotta politica e dello Stato che contrapponga il sistema dell’egemonia al sistema della dittatura e dello Stato quali espressi da Lenin, da colui che Gramsci, quasi a evitare per il futuro ogni equivoco, chiama il San Paolo del marxismo[2]. Nella visione gramsciana, il momento “costantiniano” era ancora tutto di là da venire.
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[1] Ibid., p. 691.
[2] Ibid., p. 882.