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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    L’espressione più alta del leninismo

    Un altro aspetto del pensiero di Gramsci circa il significato dell’egemonia in rapporto alla dittatura emerge là dove egli esamina le concezioni di Croce e Gentile. Che cosa osserva Gramsci? Egli nota: 1) che “per Gentile la storia è tutta storia dello Stato”, che per lui “egemonia e dittatura sono indistinguibili”, nel senso (unilaterale) che “la forza è consenso senz’altro”, che “esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato governo, ecc.”; 2) che per Croce la storia “è invece ‘etico-politica’” cioè che questi “vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, fra egemonia e dittatura”[1]. Come possiamo sintetizzare, a questo punto, la posizione di Gramsci? Gramsci in effetti, nella sua concezione dell’egemonia, si distacca da Gentile nel senso che rifiuta (e qui è la sua caratteristica peculiare) l’identificazione tra dittatura ed egemonia, poiché tutta la sua concezione è volta a spiegare che esistono Stati che poggiano su dittature incapaci di egemonia; e si distacca altresì da Croce nel senso che non ritiene distinguibili, al modo in cui questi fa, l’ “egemonia” dalla “dittatura”, la “società civile” dalla “società politica”. Sintetizzando, si può affermare che secondo Gramsci il sistema dell’egemonia è riconducibile al sistema della dittatura, ma che può esistere un sistema di dittatura incapace di esprimersi in termini di egemonia, mentre l’egemonia deve inserirsi come specificità di una dittatura capace di risolvere insieme il momento del dominio sulle classi avverse e quello della direzione sulla classi alleate e sui gruppi affini.
    Pare evidente, in conclusione, che quando cerca il modo di essere adeguato di uno Stato operaio, Gramsci lo trova nella concezione dell’egemonia. Esiste certo un sistema egemonico borghese fondato sul modo di produzione capitalistico ed espresso nello Stato democratico-borghese; deve secondo lui esistere anche un sistema egemonico fondato sul superamento del modo capitalistico ed espresso in quello Stato che organizza, per le classi e i gruppi appartenenti al “blocco storico rivoluzionario”, forme di “democrazia proletaria” e, per le classi e i gruppi ostili allo Stato operaio, forme di controllo e di repressione basate sulla violenza. Quel che certo appare inaccettabile per Gramsci è una concezione dello Stato come espressione “generale”, della democrazia quale quella oggettivatasi nel sistema liberale-rappresentativo, del marxismo come una delle varie ideologie, in concorrenza con la altre, inserita in un “pluralismo istituzionalizzato”, di un partito in cui il marxismo stesso possa convivere con fedi religiose e dottrine di diversa matrice.
    Per dirla in poche parole, credo che si debba affermare con forza che la teoria dell’egemonia gramsciana è l’espressione più alta e complessa del leninismo, in nessun modo un ponte di passaggio fra il leninismo e una concezione della lotta politica e dello Stato che contrapponga il sistema dell’egemonia al sistema della dittatura e dello Stato quali espressi da Lenin, da colui che Gramsci, quasi a evitare per il futuro ogni equivoco, chiama il San Paolo del marxismo[2]. Nella visione gramsciana, il momento “costantiniano” era ancora tutto di là da venire.

    (...)


    [1] Ibid., p. 691.

    [2] Ibid., p. 882.
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #12
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    La terza Internazionale

    Al fine di cogliere la motivazione profonda del leninismo “strutturale” di Gramsci, è necessario sottolineare il fatto che egli era in pieno partecipe di una interpretazione della natura dell’epoca storica che si collegava a quella propria della Terza Internazionale e dell’analisi teorica dell’Imperialismo di Lenin. Egli era del tutto convinto che il socialismo fosse maturo oggettivamente ormai da tempo. Come riferisce Athos Lisa nelle sue Memorie, sintetizzando questa convinzione in poche parole, Gramsci “partiva dalla considerazione che le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria esistono in Europa da più di 50 anni”.
    Solo quando si tenga presente siffatta convinzione di Gramsci, si può collocare adeguatamente il vero significato della sua opposizione alla teoria del social-fascismo e alla linea politica avventuristica che ne discendeva. Egli non si opponeva a questa in quanto riteneva che la lotta la fascismo dovesse essere condotta in nome della ricostruzione del sistema di democrazia di matrice liberale nel quadro di una “Costituente” di tipo “democratico”, quale quella che si ebbe in Italia dopo la fine del conflitto mondiale; ma in quanto pensava che occorresse una fase “intermedia”, la quale, con le debite differenze, consentisse al partito rivoluzionario di accumulare le forze necessarie ad arrivare a un “ottobre” italiano. Il suo dissenso con la linea del social-fascismo verteva sul fatto che essa pretendeva di arrivare a uno scopo che egli pure condivideva senza una fase tattica adeguata che aveva indicato già nel 1924: trovare la strada per porsi nelle condizioni in cui si erano posti i bolscevichi e per arrivare alla dittatura del proletariato. In breve, il suo dissenso stava nel fatto che egli accusava il PCI e l’Internazionale di concepire in modo schematico le premesse della dittatura e di non comprendere l’importanza della costruzione della dimensione “egemonica”, altrettanto indispensabile. Il dissenso era dunque fra due concezioni aventi per unico oggetto le basi della dittatura del proletariato.
    Lisa è molto preciso: “l’esposizione (di Gramsci) sul tema della Costituente fissava questi due concetti: 1) tattica per la conquista degli alleati del proletariato; 2) tattica per la conquista del potere”. La funzione della fase di “transizione” ha come obiettivo di far capire alle masse rurali la “giustezza” del programma comunista “e la falsità di quello degli altri partiti politici”: “il partito ha come obiettivo la conquista violenta del potere, della dittatura del proletariato, che egli deve realizzare usando la tattica che è più rispondente a una determinata situazione storica, al rapporto di forze di classe esistenti nei diversi momenti della lotta”; “la ‘Costituente’ rappresenta la forma di organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe lavoratrice nel seno della quale può e deve svolgersi, a mezzo dei propri rappresentanti, l’azione del partito che deve essere intesa a svalutare tutti i progetti di riforma pacifica, dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluziona proletaria”. Può ben comprendersi come, al fine di evitare ogni equivoco possibile intorno a una interpretazione “democratica” della sua concezione della funzione della Costituente, Gramsci ricordasse che “in Russia l’art. 1 del programma di governo del Partito bolscevico comprendeva la ‘Costituente’”; e concludeva dicendo che la parola d’ordine del partito doveva essere: “Repubblica dei soviet operai e contadini in Italia”[1].
    Non tener conto di tutto ciò nell’interpretare la teoria dell’egemonia di Gramsci quale espressa nei Quaderni vuol dire mutilarla così da servire una attualità politica affatto estranea all’impostazione e alla prospettiva di Gramsci.

    (...)


    [1] A. Lisa, Memorie. In carcere con Gramsci, Milano 1973, pp. 86-89.
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  3. #13
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    L’abbandono della concezione gramsciana

    Non si possono comprendere le posizioni di Gramsci sopra riportate se non inquadrandole nell’analisi più generale del capitalismo da lui compiuta e in quella più particolare del fascismo. Egli non giudicava pensabile una ulteriore fase espansiva del capitalismo di carattere organico e considerava perciò la lotta di classe come segnata fondamentalmente dalla dialettica rivoluzione-controrivoluzione, in un’epoca la cui natura era essenzialmente quella di epoca della rivoluzione sociale. Il fascismo rappresentava una forma di controrivoluzione incapace in sé di avere altro carattere che di controrivoluzione passiva; e perciò Gramsci riteneva che la fine del fascismo dovesse coincidere con la ripresa dell’attualità della rivoluzione proletaria, seppure segnata da problemi di tattica quali quelli che abbiamo sopra ricordati.
    Altra fu la situazione che in effetti si aprì dopo la fine del nazifascismo, anzitutto nel mondo e poi in Italia, tal che la strategia gramsciana venne accantonata. Il capitalismo mondiale trovò una leadership negli Stati Uniti, sotto le cui ali venne intrapresa la ricostruzione capitalistica nell’Europa fuori dalla sfera sovietica. Questo volle dire che le istituzioni democratico-borghesi e la loro espressione statale divennero l’ambito nel quale per un’intera nuova epoca storica (che è quella attuale) i partiti comunisti dovettero collocarsi. Insomma, cambiarono profondamente, rispetto all’ipotesi gramsciana, le stesse carte disposte sul tavolo. I rapporti fra le classi risultarono diversi anzitutto sul piano della forza interna e internazionale, rendendo irrealistico ogni progetto di attacco e mutamento delle istituzioni in senso antiborghese. La “guerra di posizione”, spezzò, per così dire, il proprio nesso con la “guerra manovrata”.
    Fu in questo contesto nuovo che, attraverso contraddizioni e contrasti, maturò progressivamente nel PCI una concezione del’ “egemonia”, poi assunta in modo definitivo, con una accelerazione negli ultimi anni, avente caratteristiche qualitativamente diverse rispetto alla concezione gramsciana. Poggiando sull’accettazione delle istituzioni parlamentari, sul riconoscimento della pluralità dei partiti quali rappresentanza e organizzazione dei diversi gruppi e delle diverse classi sociali – ormai anche per quanto concerne la “costruzione del socialismo” – su una concezione del “pluralismo” ideologico-politico come espressione organica e necessaria della democrazia, su una ipotesi di partecipazione al governo nei termini del “compromesso storico”, il PCI è pervenuto a una concezione dell’ “egemonia” che è tutt’altra cosa di quella di chi, al modo di Gramsci, intendeva porla a fondamento dello Stato operaio, della assoluta supremazia, sotto la direzione politica del PCI, del proletariato industriale sui suoi alleati (limitati a quelle forze sociali che potessero costituire una “antitesi” rispetto al “blocco” sociale diretto dalla borghesia), di una concezione e separazione assoluta rispetto a tutte le altre concezioni, di una visione della democrazia interna al solo blocco sociale rivoluzionario.
    Per Gramsci, coerentemente con il suo leninismo “strutturale”, la democrazia era tre cose, e solo queste: 1) un mezzo per una “riflessione” fra eguali politici (cioè fra comunisti) sui presupposti e le modalità della loro azione; 2) un mezzo per dirigere forze sociali “subalterne”; 3) un mezzo per consentire al partito rivoluzionario di raccogliere le forze necessarie per “distruggere”, con la razionalità e la persuasione, i falsi idoli che ancora signoreggiano le coscienze degli alleati “subalterni”, e quindi per creare le basi della dittatura verso i sostenitori attivi del vecchio mondo. Il “pluralismo” di Gramsci (se egli mai avesse usato questo termine) non era certo ciò che oggi intende il PCI in relazione ai problemi posti dal suo inserimento nelle istituzioni democratico-repubblicane di matrice liberale, dove una concezione del mondo entra in “libera concorrenza” con le altre, puntando alla “vittoria del migliore”.
    Senza dubbio l’evoluzione del PCI non è stata in primo luogo di natura dottrinale; essa è stata, per contro, anzitutto il risultato di una precisa realtà economico-sociale. Di fronte al dato che la realtà del capitalismo internazionale e i rapporti fra i “blocchi” avevano in Occidente e in Italia reso inattuabile una relativamente rapida alterazione dei rapporti di forza tra le classi sociali in direzione dell’abbattimento del capitalismo stesso e delle sue istituzioni, di fronte all’ostica realtà che la conservazione sociale aveva una vasta base politica di massa, il PCI si è trovato a doversi porre un compito nuovo: quello di inserirsi in siffatto contesto e di accettare le tecniche atte a “regolare” le relazioni fra classi e gruppi sociali diversi, fra differenti partiti di massa, accantonando un progetto di alterazione di questi rapporti secondo una dinamica che portasse allo Stato operaio. Messo di fronte al dato che la borghesia in Italia ha avuto la forza per imporre le proprie istituzioni statali, sia pure in un quadro costituzionale democratico avanzato, il PCI si è proposto di “occupare” le istituzioni con un’azione “egemonica” che da un lato rinuncia allo Stato operaio e alla dittatura del proletariato e dall’altro mira a conquistare la direzione dello Stato parlamentare. Una concezione dell’ “egemonia”, questa, del tutto diversa da quella gramsciana.
    È indubbio, però, che a siffatta nuova strategia il PCI è giunto anche “utilizzando” Gramsci. Maturata la crisi del “modello sovietico”, il PCI poté trovare un punto di riferimento nella critica che Gramsci, alla luce della sua teoria dell’egemonia, aveva incessantemente rivolto ad un progetto socialista che rimanesse chiuso in una concezione angusta dello Stato-forza e che identificasse meccanicamente la dittatura di un partito con la dittatura del proletariato. Ma, poi, “mise la sordina” agli altri aspetti della teoria dell’egemonia di Gramsci (a quelli cioè connessi con una concezione espansiva della dittatura del proletariato), così da avallarne una interpretazione secondo cui le critiche da lui rivolte ad una dittatura senza “egemonia” aprivano, almeno implicitamente, la strada allo “scorporamento” dell’egemonia della dittatura.

    (...)
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    La “sapienza cattolica” del PCI

    Ho cercato di mettere in rilievo come il PCI, nel tracciare la sua strategia attuale, si sia trovato di fronte a problemi pratici nuovi rispetto a quelli di Gramsci e alle sue ipotesi. È però necessario che il PCI esca dai tatticismi teorici, che faccia i conti con la “tradizione” teorica in modo più limpido, mettendo da parte quella “sapienza cattolica” per cui tutto è “adattamento” e niente è “mutamento”. La sua teoria dell’egemonia è una teoria di segno inequivocabilmente e qualitativamente diverso rispetto a quella di Gramsci. È diversa rispetto sia ai mezzi sia agli scopi. La teoria di Gramsci è la massima espressione teorica, come ho sottolineato in precedenza, di quella fase storica del movimento comunista internazionale che si è aperta con la rivoluzione di ottobre e si è chiusa al momento dell’affermazione dello stalinismo di regime. La teoria dell’egemonia del PCI è per contro espressione del tentativo di elaborare una strategia sulla base della fondamentale accettazione delle istituzioni esistenti in Occidente e della liquidazione crescente della fase storica staliniana.
    Chiedere al PCI di far poggiare la propria pratica su un confronto meno “tatticistico” con il patrimonio teorico passato risponde non solo ad una esigenza di “verità”, ma anche e soprattutto a un’esigenza politica. Tutta la sinistra italiana, di cui nessuno dimentica che il PCI è componente essenziale, ha bisogno di una maggiore verità quale fondamento di un maggiore realismo. Chi scrive è convinto che, negli aspetti essenziali, la politica del PCI sia tale da ricongiungere questo partito alla concezione dello Stato, dei rapporti fra le classi, della “via al potere”, della funzione stessa dei “governi di coalizione”, propria del marxismo socialdemocratico assai più che alla concezione leniniana e anche gramsciana, con l’unica eccezione di un “residuo” leninista, di primaria importanza però, nei criteri di organizzazione interna del partito, residuo che è per lo meno dubbio se potrà sopravvivere. Se questa è la realtà, bisogna discuterla. Se la realtà è un’altra, bisogna chiarirne meglio i termini.
    Non è mai segno di forza lo stabilirsi di una rapporto clerico celebrativo con il passato (o meglio, forza può anche essere, ma per i conservatori), salvo poi a procedere nei fatti in modo “trasformistico”. Il “trasformismo” ha un posto rilevante nel “clericalismo marxista”. Quando i socialdemocratici si ricongiunsero alla concezione liberale dello Stato, dissero di farlo “interpretando” Marx; quando Stalin fece quel che fece, affermò che il suo era puro oro leninista; e così via. Ora che il socialismo si trova a confronto con situazioni difficili, è necessario procedere con la piena assunzione delle responsabilità, in primo luogo teoriche. Mi pare in ogni caso chiaro che la strategia del “compromesso storico”, il “pluralismo ideologico”, la lotta per la trasformazione “democratica” dello Stato non hanno nulla a che fare con il pensiero di Antonio Gramsci, il massimo e più creativo interprete del leninismo storico, e segnano una svolta definitiva rispetto ad esso.
    La storia è interessante anche perché non consente a nessuno di vivere oltre un certo limite di rendite costruite nel passato. Si può magari farlo per un certo periodo, ma prima o poi ci si trova “nudi”; e non è detto che, in ultima analisi, ciò sia sempre un male, se non altro perché ci si fa vedere quali si è.

    Massimo L. Salvadori
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    Predefinito Re: Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia (1976)

    Le incognite dell’egemonia negativa (1977)


    Intervista con Renzo De Felice su “Gramsci e il PCI, oggi” a cura di Domenico Sassoli - «Il Popolo», 8 febbraio 1977.

    D. Il dibattito sul pluralismo e il concetto gramsciano di “egemonia” è ormai in atto da vari mesi. Lei professore lo ha certamente seguito. Si può tentare di farne un bilancio provvisorio?

    R. Alcuni interventi che lo hanno caratterizzato sono indubbiamente ad alto livello e, come si suol dire, stimolanti. Si pensi, per fare n solo esempio, a quello di Massimo L. Salvadori in «Mondoperaio» (numero di novembre)[1] ed alle precisazioni da lui fornite nella intervista del 2 febbraio al «Popolo». Quello che mi pare certo è però che vi è ancora molta confusione. Sono molti i modi non solo di impostare e trattare il problema, il che è logico, ma di intendere persino i concetti che sono alla base del discorso stesso. Norberto Bobbio sulla «Stampa» del 21-22 settembre è stato a questo proposito molto chiaro e preciso: «Trenta anni fa, eravamo tutti democratici. Oggi siamo tutti pluralisti. Ma siamo proprio sicuri di sapere cosa si intende per “pluralismo”?»[2]. E ha messo benissimo in luce la diversità di prospettive, di suggestioni, di precedenti culturali e storici di cui si carica il termine “pluralismo”. Ha concluso di non essere per nulla sicuro che coloro che parlano di “pluralismo” intendano la stessa cosa. Se è così – e per me è appunto così, come dice Bobbio – il dibattito è ancora ben lontano non già dall’arrivare in porto, ma dall’aver trovato una bussola comune per cercarne la rotta.

    D. Si tratta tuttavia di una discussione di grande portata…

    R. Ciò non toglie che si tratti di un dibattito importante, che meriti di essere continuato, anche se a me sembra che il suo unico livello non possa essere quello della cultura politica, al quale sino ad oggi si è sostanzialmente mantenuto. L’origine, la ragione prima di esso è stata politica. È nato in una precisa situazione politica e in funzione politica. Da qui, per me, la necessità di non “esaurirlo” trasferendolo ad un livello che è necessario tener presente ma che, in definitiva, non è il suo. Almeno in relazione alle esigenze che lo hanno determinato. Insomma, per me bisogna continuarlo, ma non solo (e direi non tanto) in termini teorici, di cultura politica, ma anche e soprattutto in termini politici concreti.

    D. Ecco. Secondo lei, professore, che cosa vuol dire oggi, in Italia, nella politica italiana, per il partito comunista, in termini politici concreti, “pluralismo”?

    R. Riducendo il discorso all’osso, per me il concetto di pluralismo è per il Pci strettamente connesso al concetto di “egemonia”. Può sembrare la scoperta dell’ombrello. Tutti sembrano d’accordo, infatti, su ciò. Il punto è però di stabilire i nessi tra i due concetti e la realtà politica che essi hanno a base e ipotizzano in prospettiva. Per me, a questo proposito, forse il più chiaro ed esplicito è stato Alberto Jacoviello su «Repubblica», quando ha scritto che l’elemento centrale della concezione dell’egemonia è la strategia delle alleanze che fu propria di Lenin e di Gramsci, la quale – a sua volta – è l’elemento centrale del “pluralismo”.
    Se si accetta, come me, questa definizione, mi pare si debba concludere che “pluralismo” non è un diverso modo di definire ciò che trent’anni fa veniva definito “democrazia”, ma, al contrario, un modo ambiguo per definire una concezione riduttiva della democrazia, quale noi, in Occidente, siamo abituati ad intendere.

    D. Concezione riduttiva in che senso?

    R. Sarò brevissimo, ma spero chiaro. In termini politici reali, il “pluralismo” è lo sviluppo definitivo, la istituzionalizzazione rispetto a tutte le forze e posizioni politiche, della teoria dell’arco costituzionale. “Pluralismo” uguale “strategia delle alleanze”. Dunque, in termini politici reali, crudi, se si vuole, ma la lotta politica è cosa assai spesso diversa dalla cultura politica, chi è fuori del sistema “pluralistico” delle alleanze o, ad un certo momento, ne è messo fuori, è fuori della democrazia. Quella vera. Perde cittadinanza politica rispetto alla società, al sistema pluralistico. Lascio a lei valutare cosa ciò nei fatti comporta e soprattutto può comportare per coloro che via via fossero esclusi dal sistema pluralistico.
    Di mio vorrei aggiungere solo una cosa: ho l’impressione che chi più si è avvicinato a una valutazione di questo genere del “pluralismo” (e dei suoi rischi, quindi) sia stato – pur con una certa fumosità e apparente incertezza – l’on. Craxi nella sua relazione di novembre al Comitato centrale del Psi. E precisamente laddove si è soffermato a parlare dell’egemonia: «La vocazione egemonica esprime l’intento di realizzare il primato perenne di un’unica forza che tratta con tutte le altre e a tutte riconosce il diritto di esprimersi, ma più come articolazioni della società, manifestazioni anche politiche e rappresentanze sociali, religiose, culturali, purché agiscano entro limiti circoscritti e non costituiscano alternative globali al partito egemone». Mi conferma nella mia impressione la negazione che di questa interpretazione dell’ “egemonia” dell’on. Craxi si è affrettato a dare Luciano Gruppi su «Rinascita».
    Anche per il discorso dell’ “egemonia”, secondo me, è necessario non perdere i contatti con la realtà concreta. Cosa Gramsci e, sulla sua scia il Pci intendano col termine “egemonia”, lo sappiamo tutti. Io posso anche essere in buona parte d’accordo con coloro che affermano che il Pci in Italia oggi ha una larghissima egemonia e che è tutt’altro da escludere che sia alle porte dell’egemonia tout court. Il discorso non può fermarsi però qui. Bisogna guardare dentro questa egemonia, vedere, valutare la sua consistenza, i suoi contenuti effettivi. E questo non mi pare lo abbia fatto nessuno. Almeno in concreto.

    D. Possiamo tentare di farlo adesso?

    R. Il terreno, certo, è impervio, ma alcuni punti fermi sui quali poggiare il discorso mi pare ci siano. Su uno almeno vorrei insistere, tralasciando per brevità altri che pure potrebbero essere addotti. L’egemonia comunista in Italia oggi è assai più egemonia che si caratterizza al negativo che al positivo. Mi spiego: il Pci è riuscito a realizzare una vasta egemonia che si basa però molto più sui no, su ciò che viene negato, si vuole che finisca, che sui sì, su una visione abbastanza chiara e comune di ciò che si vuole realizzare in positivo. Vertice, quadri intermedi, base, vecchi militanti, giovani, intellettuali, compagni di strada, elettori, ecc. vedono il futuro in termini diversi; talvolta, non lo vedono che come diversità e negazione del presente, nulla più. A livello di massa il vero comun denominatore è questo. Il minimo comun denominatore, in positivo, è di una élite.
    In una logica e in una prospettiva di tipo rivoluzionario “classico”, in cui sono sostanzialmente le élites attive che determinano lo sviluppo del processo rivoluzionario, ciò sarebbe probabilmente sufficiente. In una logica e in una prospettiva che non sono di tipo rivoluzionario classico non mi pare che questo tipo di egemonia sia sufficiente, o, meglio, dia garanzie sufficienti per il futuro. Da qui, a mio avviso, la necessità del pluralismo. Certo, si potrà dire che questa è una opinione, ma che i fatti sono diversi, che l’egemonia è reale: sia in negativo che in positivo. Ma allora mi chiedo perché i comunisti si sono tanto impressionati per gli avvenimenti cileni e hanno ispirato a questi – alla preoccupazione di evitarne la ripetizione in Italia – tutta la loro strategia di questi ultimi anni? La situazione italiana è assai diversa da quella cilena. Per tenere conto che anche in Italia si possa riprodurre la sequenza Allende-Pinochet, che cioè il consenso raccolto in un primo tempo possa sfaldarsi al punto da permettere in un secondo tempo un capovolgimento del rapporto di forze contrapposte e, quindi, di tutta la situazione politica, bisogna che i dirigenti del Pci siano consapevoli o, almeno, temano molto che l’egemonia comunista sia più apparente che reale. Fondata appunto più sui no che sui sì. Al punto che una buona parte di no potrebbe, di fronte a una realtà economica più dura dell’attuale, cambiare il destinatario del proprio rifiuto in un modo così radicale.


    [1] M. L. Salvadori, Gramsci e il PCI: due concezioni dell’egemonia, in «Mondoperaio», n. 11, novembre 1976.

    [2] N. Bobbio, Che cos’è il pluralismo, in «La Stampa», 21 settembre 1976; Id., Come intendere il pluralismo, ivi, 22 settembre 1976. [I due articoli di Bobbio sono consultabili qui: Norberto Bobbio - Pluralismo, ndr].
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