L’alternativa ai kamikaze gialloverdi non potrà che ruotare intorno al Pd, che ne rappresenterà il principale serbatoio di idee e di consenso


Esistono più di cento ragioni per lamentarsi del PD, partendo dai suoi ritardi per arrivare alle sue inadeguatezze e passando per il peso di portare su di sé le sacrosante aspettative di una comunità politica in carne e ossa che vi dedica ogni giorno tempo e passione.

Ma esiste una ragione che più di ogni altra deve spingerci a difenderlo dalla narrazione (o dall’auspicio) di certa stampa sulla sua “irrilevanza”: non sappiamo ancora quale sarà il profilo politico, la leadership e la sostanza dell’alternativa che alle prossime elezioni legislative si contrapporrà ai kamikaze gialloverdi; ma sappiamo con certezza che quell’alternativa non potrà che ruotare intorno al Partito Democratico, che in ogni caso ne rappresenterà l’asse centrale e il principale serbatoio di idee e di consenso. La possibilità stessa di sconfiggere il disegno nazionalpopulista, e con esso il trascinamento dell’Italia dentro il pozzo dell’isolamento e della decrescita, passa dunque per la tenuta e la ripresa di un PD capace sia di conservare il proprio elettorato sia di rivolgersi a quella parte del paese che si sta accorgendo del catastrofico inganno gialloverde.

Significa forse che dovremmo tenerci il PD così com’è? Ovviamente no: tutto (o quasi) andrebbe cambiato dentro e intorno al PD, anche perché fin dalla sua nascita troppo poco è stato fatto per adeguarne la forma e il funzionamento ad un contesto che andava già cambiando con ritmi rapidissimi. In questo senso la sconfitta del 4 marzo è solo parte di un problema più ampio, perché la crisi della rappresentanza politica che riguarda tutta Europa precede quella sconfitta di almeno un decennio e ha concorso anche fuori d’Italia all’affermazione delle ricette sovraniste.

Dalle nostre parti quella crisi ha assunto forme particolarmente violente e pericolose, che con Lega e Cinque Stelle si saldano in un attacco alle basi stesse della nostra convivenza repubblicana. Ragione di più per difendere uno strumento e una comunità che hanno resistito – persino nella sconfitta – alla valanga sovranista più di quanto non sia accaduto in altri paesi europei che non avevano conosciuto, come l’Italia dei primi anni Novanta, una crisi radicale dei vecchi partiti repubblicani e che per questo non si erano dovuti attrezzare come noi con partiti capaci non di frammentare ma di aggregare culture e tradizioni politiche diverse.

Dentro la casa del PD tutto è da migliorare, da rimettere in ordine, da allargare, da rendere più efficace e più inclusivo soprattutto verso quelle forme di protagonismo della società civile ed economica che finalmente segnalano l’aprirsi di una crepa sostanziale nel rapporto tra il governo e l’Italia reale. E in questo senso anche il congresso, per quanto tardivo, rappresenta la duplice occasione sia per un confronto laico e non troppo drammatizzato tra opzioni di leadership diverse, sia per una discussione sul paese che vorremmo dopo la sconfitta dei nazionalpopulisti.

Perché in fin dei conti quello che davvero conterà, quando gli italiani dovranno nuovamente scegliere a chi affidare le chiavi della casa comune, saranno le offerte politiche che sapremo mettere in campo. I kamikaze gialloverdi non si estingueranno per cause naturali né si consumeranno in un falò autoprodotto, ma saranno sconfitti da una proposta di governo alternativa. E prima di buttar via il famoso bambino con la famosa acqua sporca, teniamoci stretto un partito che anche nel momento più difficile della sua giovane storia sta mostrandosi capace di restarne l’unico baricentro possibile.

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