Quell’accordo che non quadra con Bruxelles
Ha pienamente ragione chi sostiene che i rapporti tra la Svizzera e l’Unione europea sono anche in questo 2019 la questione politica centrale per tutti noi. Siamo ad uno snodo delicatissimo. Sul tavolo della discussione c’è la bozza dell’Accordo quadro istituzionale. Governo, Camere federali e cittadini sono posti di fronte ad un dilemma che divide e genera una forte contrapposizione. La spaccatura politica e sociale è del resto un tratto caratteristico di questo periodo storico, in quasi tutti i Paesi. La polarizzazione trova spazio nel nostro giornale, aperto alle differenti opinioni, anche, anzi a maggior ragione, sulla questione dei rapporti Svizzera-UE. Siamo fermamente dell’idea che il settarismo, l’unilateralismo, il pensiero unico siano dannosi al progresso sociale e alla convivenza civile, oltre che poco compatibili con il ruolo di una testata indipendente (che non vuole dire – sia ben chiaro – neutrale) ispirata al modello liberaldemocratico di organizzazione della società e dello Stato.
Premessa essenziale per un utile confronto delle idee è l’uso corretto e preciso delle parole. Sulla questione dominante (rapporti Svizzera-UE)
purtroppo, da tempo, c’è un termine che viene utilizzato in modo del tutto inappropriato e incoerente. È il nome Europa. Siamo riusciti, sciaguratamente, a farlo diventare qualcosa di molto negativo, una parola da rigettare, che indica una realtà da cui il nostro Paese dovrebbe stare alla larga. Eppure l’Europa è la culla della nostra civiltà e della nostra cultura; ha prodotto il modello di società aperta garante dei diritti e delle libertà individuali, lo Stato di diritto, la democrazia.
La Svizzera è pienamente un Paese europeo, sta addirittura nel cuore del Vecchio Continente. La connotazione negativa è dovuta all’identificazione tra Europa ed Unione europea. È divenuto un automatismo linguistico: quando ci si riferisce ai 28 Paesi membri si parla di Europa, mentre si dovrebbe parlare solo ed esclusivamente di UE. L’Europa è qualcosa di molto più ampio dell’Unione. Mortificarla, ingabbiarla ed esaurirla nell’entità sovranazionale che riunisce una parte degli Stati che la formano (28 - tra poco 27 - su quasi 50) è un madornale errore, non solo linguistico.
La Svizzera deve dunque operare scelte importanti non su come collocarsi in Europa, ma su come rapportarsi all’UE. La volontà, più volte espressa dalla maggioranza dei cittadini che votano e anche dalla maggioranza dei Cantoni (sebbene quest’ultima non sempre fosse necessaria), è la modalità bilaterale. Non l’adesione all’UE, non la via solitaria, ma la strada maestra – almeno per noi – delle intese pragmaticamente perseguite e concluse con Bruxelles e con gli Stati membri dell’UE. Questo è un punto essenziale, che non andrebbe mai dimenticato. Gli Accordi bilaterali non sono una scelta del cosiddetto establishment, ma sono volontà popolare, reiteratamente manifestata. Una scelta che non è mai stata rimessa in discussione, nemmeno il 9 febbraio 2014 quando popolo e Cantoni hanno approvato, con uno scarto risicatissimo (meno di ventimila voti su 2,9 milioni), gli articoli costituzionali “contro l’immigrazione di massa”: le modifiche inserite nella nostra Carta fondamentale non chiedono di disdire l’Accordo sulla libera circolazione delle persone (men che meno gli altri accordi bilaterali), bensì di rinegoziarlo (senza nulla dire su cosa si debba fare se il negoziato non va a buon fine, come è avvenuto).
Da quasi 17 anni viviamo nella cornice dei Bilaterali. Secondo noi con più benefici che svantaggi (ma su questo sappiamo bene che le valutazioni sono drasticamente discordanti). Non è invece ragionevolmente contestabile l’affermazione che dal profilo giuridico dell’applicazione dei diversi accordi non ci sono stati problemi insormontabili.
Di qui le domande di fondo: ma è proprio necessario stipulare ora un accordo quadro istituzionale per facilitare (questo è l’obiettivo dichiarato) le relazioni tra l’UE e la Svizzera per quanto attiene agli ambiti del mercato interno ai quali noi partecipiamo? Ci sono stati, in questi quasi 17 anni, ostacoli e divergenze tali da rendere impossibili le relazioni senza il complesso meccanismo istituzionale di vigilanza sugli accordi e di risoluzione delle discrepanze?
A queste domande
non è stata data finora – a nostro avviso – una risposta fondata e convincente. Viene data – mutatis mutandis – la risposta che venne data all’inizio degli anni Novanta a chi si opponeva all’adesione della Svizzera allo Spazio economico europeo
(“Occorre aderire perché la via bilaterale non è più praticabile”). Oggi si sostiene che, senza l’accordo quadro, altre intese bilaterali non sarebbero più possibili e anzi che anche quelle esistenti rischiano col tempo di rattrappirsi fino a perdere di efficacia.
È una tesi debolissima, che presuppone il medesimo atto di fede che era stato richiesto nel 1992 dai fautori dello SEE (e che non venne concesso).
Forte è, per contro, l’obiezione su un punto cruciale del progetto di accordo quadro istituzionale ora in discussione: l’assoggettamento della Svizzera e delle sue autorità alle sentenze e alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (che non ha nulla a che vedere – è bene ricordarlo – con la Corte europea dei diritti dell’uomo, la CEDU, organismo estraneo all’UE). I nervi scoperti sono due: il secondo capoverso dell’articolo 4
(interpretazione uniforme degli accordi bilaterali e degli atti giuridici ai quali gli accordi fanno riferimento: fa stato la giurisprudenza, passata e futura, della Corte dell’UE); il capoverso 3 dell’articolo 10
(le sentenze della Corte di giustizia dell’UE sono vincolanti per il tribunale arbitrale chiamato a risolvere i contenziosi).
Sono due nervi scoperti sensibilissimi. Un errore iniziale di impostazione che rende molto problematico l’accordo quadro. È come se in una causa civile a decidere fosse l’avvocato di una delle due parti e non il pretore.
Non è solo o non è tanto una questione di sovranità, ma di garanzia della parità e dell’equità di trattamento, basilare quando si è nel campo delle intese bilaterali, nelle quali una parte non può dominare sull’altra.