La Repubblica delle Donne

Michela Marzano

Nei giorni scorsi l'attrice Keira Knightley ha detto di aver vietato a sua figlia (3 anni) due classici Disney perché diseducativi: ''Cenerentola aspetta il ricco che la viene a salvare''. Un'altra attrice si schiera con lei: Kristen Bell, peraltro voce della principessa Anna di Frozen, che intervistata dalla rivista Parents se l'è presa con il principe che ha salvato Biancaneve: "Trovo strano che lui la baci senza prima chiedere il permesso. Non si può fare". Dichiarazioni che hanno fatto - e fanno - discutere. Abbiamo chiesto a Michela Marzano, filosofa, politica, saggista e accademica italiana, di condurre una riflessione sul senso delle fiabe classiche nell'epoca del MeToo.


Che la vita non sia una fiaba, crescendo lo impariamo tutti. Talvolta anche a nostre spese, soprattutto se ci siamo illusi di incontrare un giorno un “principe azzurro” o una “principessa rosa” capaci di colmare i nostri vuoti e renderci per sempre “felici e contenti”. Ma un conto è insegnare ai bambini a fare la differenza tra la realtà e i sogni, altro conto è partire in guerra contro le principesse in nome del femminismo – anche semplicemente perché il problema di alcune fiabe, se proprio vogliamo parlare di problema, non è tanto quello degli stereotipi di genere, quanto quello della semplificazione eccessiva del reale. Un conto è far credere ai più piccoli che basta una bacchetta magica per risolvere i problemi, altro conto è utilizzare le fiabe e i cartoni animati per stimolare la loro fantasia. Ecco perché i genitori, invece di negare ai figli questo o quel cartone animato, dovrebbero forse guardarli con loro – non sarebbe male, in proposito, andare a rileggersi il libro di Bruno Bettelheim, Il mondo incantato delle fiabe, in cui lo psicanalista spiega proprio come le fiabe, evocando situazioni che permettono ai bambini di affrontare e rielaborare le reali difficoltà della loro esistenza, li aiutano a tradurre in immagini visive i propri stati interiori.

Ma torniamo alla questione del femminismo. Perché il punto essenziale di tutta questa vicenda è proprio questo: siamo sicuri che vietando alle proprie figlie di vedere alcuni cartoni animati le aiutiamo davvero a prendere consapevolezza del proprio valore, a credere in se stesse e a battersi per la difesa della propria dignità? Certo, insegnare a una bambina che è inutile aspettare la salvezza da un uomo, è fondamentale. Così come è importante spiegarle che la chiave del successo non è la bellezza, che l’amore non è né sacrificio né dipendenza, che la donna ha diritto ad autodeterminarsi come un uomo, che conformarsi alle aspettative altrui significa perdersi di vista. Ma tutti questi insegnamenti non passano soprattutto attraverso l’esempio che si dà – il modo di comportarsi o di parlare, di battersi o di non scoraggiarsi?

Quanto ai dibattiti di società sulla condizione femminile, sono senz’altro necessari – la liberazione della parola femminile attraverso il #MeToo ne è una prova più che eloquente. Soprattutto in un’epoca come la nostra in cui tante cose vengono date per scontate e talvolta si pensa che l’uguaglianza uomo-donna sia stata raggiunta, mentre invece la strada da percorrere è ancora lunga sia in ambito lavorativo, sia in ambito relazionale. Ma allora forse non sarebbe più opportuno concentrarsi proprio su questi temi (lavoro, violenze di genere, molestie) invece di disperdersi in polemiche che, a tratti, sembrano un po’ pretestuose? Che frutti ha dato ad esempio l’enorme polemica che l’anno scorso ha animato i dibattiti francesi sulla cosiddetta “scrittura inclusiva”?

Per settimane si è dibattuto della necessità o meno di utilizzare il “point médian” (il “punto mediano”, ossia il “·”) quando ci si riferisce a gruppi di persone appartenenti a generi diversi (cari·e amici·che, molti·e colleghi·ghe, ecc.) e di sostituire all’accordo al maschile – ossia alla regola secondo la quale un aggettivo, quando in una frase qualifica nomi di genere diverso, si declina al maschile plurale (“ho conosciuto un ragazzo e una ragazza spagnoli”) – l’accordo di vicinanza: “ho conosciuto un ragazzo e una ragazza spagnole”. C’è stato chi ha ironizzato spiegando che si sarebbe allora dovuto smettere di parlare di “lingua francese” e si sarebbe dovuto optare per un bel “linguo francese” e chi, reagendo a questo tipo di propositi, ha invece sottolineato che tali osservazioni non erano altro che il frutto della resistenza fallocratica ai cambiamenti. C’è stato un gruppo di oltre trecento insegnanti della scuola primaria e secondaria che hanno firmato in manifesto in cui dichiaravano di assumersi la responsabilità di non insegnare più alle alunne e agli alunni le regole classiche dell’accordo, e l’Académie Française, il corrispettivo francese della nostra Accademia della Crusca, che si è sentita in dovere di replicare: “Davanti a questa aberrazione inclusiva, la lingua francese è ormai in pericolo mortale”. In Francia, per molto tempo, non si è parlato di altro. Ma con quali risultati poi? In realtà, nessuno. Se non quello di sviare l’attenzione dai veri problemi che, in Francia come in Italia, incontrano le donne. Ancora una volta, non si tratta di negare l’importanza del linguaggio o delle immagini. Al contrario. Le parole che si usano e le rappresentazioni che si danno costruiscono l’immaginario collettivo – non è un caso che negli ultimi cartoni animati della Disney, appaiano eroine sempre più forti e diverse come Moana o Tiana. Cerchiamo però di non illuderci che la parità nella vita di tutti i giorni passi per un semplice “accordo di vicinanza” o per il divieto di guardare Cenerentola e la Sirenetta.

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