Non siamo un organismo politico, ma un laboratorio di idee per il domani
Farefuturo, il nostro obiettivo
di Alessandro Campi*
È giunto il momento di parlare di noi, di spiegare meglio chi siamo e cosa facciamo. I lettori, che sono benevoli per definizione, scuseranno questo strappo alle regole non scritte della comunicazione. Discutere di sé, esporsi all’attenzione del pubblico in prima persona, rischia di essere sgradevole e magari anche controproducente. Sinora non l’abbiamo mai fatto, non ci siamo mai né incensati né messi in bella mostra. Ma stavolta, seppure con qualche imbarazzo, abbiamo deciso di farlo: parleremo dunque di noi e per una ragione che chi ci segue comprende benissimo e già conosce.
Nelle ultime tre settimane – dopo l’articolo pubblicato su questo sito per la firma di Sofia Ventura, che anticipava i contenuti di un convegno sul tema “Donne e politica” e nel quale veniva criticato il cosiddetto “velinismo” – la Fondazione Farefuturo s’è trovata presa all’interno di un vortice: quotidianamente citata nei giornali e nelle trasmissioni televisive, pressata da giornalisti a caccia di commenti, di indiscrezioni e di anticipazioni, bersagliata da messaggi e contatti da parte di sconosciuti utenti e lettori d’ogni parte d’Italia. Niente da dire, sono stati giorni pesanti e difficili, ma nel complesso, inutile negarlo, felici ed esaltanti. Nessuno aveva messo in conto che da un semplice articolo, da un intervento consegnato, come molti altri in passato, all’universo virtuale del web, da un semplice per quanto ragionato “invito alla discussione”, sarebbero derivate tanta popolarità e tante (non sempre benevole e disinteressate) attenzioni. Chi non conosceva il nostro “marchio”, ora sa della sua esistenza. Coloro che ci conoscevano come una delle tante sigle – molte delle quali effimere e puramente nominali – attive nel panorama politico-culturale italiano, si sono convinti di avere a che fare con qualcosa di serio e solido, con una realtà che merita, da oggi in poi, di essere seguita con attenzione.
Bene, ora che la buriana sembra essere passata, una volta portato all’incasso un indubbio successo mediatico, qualche riflessione s’impone, pacata e sincera, ma anche inevitabilmente critica. Quel che è capitato in questi giorni, infatti, è stato per molti versi assai istruttivo. Ci ha fatto comprendere meglio gli automatismi mentali e le pigre logiche che governano un pezzo del giornalismo politico italiano. Ha messo a nudo gli equivoci e le contraddizioni, ma anche le indiscutibili miserie, che sono al cuore dell’attuale stagione politica. Ci ha messo dinanzi a un enorme vuoto progettuale e di idee, a una visione della lotta politica assai arcaica e povera. Ci ha insomma fatto capire meglio le ragioni per cui siamo nati, le ragioni che giustificano il nostro impegno e il nostro lavoro quotidiano.
Siamo, detta nel modo più semplice, una fondazione di cultura politica. Lavoriamo per la politica, è ovvio, ma tenendoci a debita distanza critica da coloro che la fanno professionalmente e che nelle istituzioni, a qualunque titolo, hanno responsabilità dirette. Un conto, infatti, è la riflessione, tutt’altro è l’azione: hanno punti di partenza e finalità diverse. Si possono certo fornire idee e suggerimenti a chi governa e decide, ma non soluzioni e ricette pronto uso, da applicare alla lettera: l’autonomia della politica, prima che un’enunciazione di principio, è un fatto. Cultura e politica possono intrattenere – il che non sempre accade nell’Italia odierna – una relazione virtuosa, ma non possono confondersi se non al prezzo di un reciproco impoverimento e di una grande confusione: la politica, è vero, non dovrebbe fare a meno delle idee e di una solida base di pensiero, ma la cultura, a sua volta, non può pensare di condizionare o indirizzare i comportamenti e le scelte dei politici. Senza contare che le logiche che governano una controversia intellettuale non sono le stesse che regolano il conflitto politico: nel primo caso sono in ballo la libertà intellettuale e la ricerca di quel bene prezioso ma difficile da delimitare che è la “verità”, nel secondo il potere e il governo degli uomini. Chi pensa è responsabile in prima battuta verso se stesso, chi fa politica e opera nelle istituzioni è sempre responsabile verso gli altri. Una differenza – di metodo, di doveri e incombenze, di orizzonte temporale, di obiettivi – da tenere sempre a mente.
Non siamo insomma un organismo politico, ma un club di pensiero, un luogo di riflessione, un centro studi, un laboratorio di idee, un circolo intellettuale: ognuno scelga la definizione che gli appare più consona o meno pomposa, l’importante è capirsi. I nostri strumenti di lavoro sono dunque quelli consueti e normali per chi svolge – quanto bene e quanto in modo originale non sta a noi dirlo – questo genere di attività: produciamo rapporti, commissioniamo studi e indagini, partecipiamo a progetti di ricerca, pubblichiamo libri, organizziamo seminari e incontri (talvolta “a porte chiuse”, altre volte aperti al pubblico), presentiamo libri, intratteniamo rapporti di collaborazione con altre strutture (italiane e straniere) che perseguono le nostre medesime finalità, curiamo un periodico online (quello che ora state leggendo), promuoviamo corsi di formazione (rivolti in particolare ai giovani). Un lavoro condotto in massima parte lontano dai riflettori, sottotraccia, con tempi e ritmi che sono assai diversi da quelli, per definizione più contratti e convulsi, più legati alla contingenza, che regolano l’attività politica ordinaria. Un lavoro a volte noioso e non sempre gratificante (non foss’altro per l’impegno organizzativo che comporta), ma a suo modo ricco di soddisfazioni e comunque necessario per dare alla politica sostanza e un’anima, destinato in ogni caso a produrre frutti sul lungo periodo.
Bene, stando così le cose resta da capire per quali ragioni Farefuturo sia stata descritta in questi giorni come una sorta di avamposto politico-intellettuale, come una pattuglia di guastatori e provocatori il cui principale obiettivo è quello di gettare scompiglio e di alzare polveroni, di prendere partito nelle dispute che scandiscono la cronaca politica italiana, di menare fendenti a destra e a manca. Essendo Gianfranco Fini il nostro presidente – questo l’argomento – se ne deduce che il nostro compito sia quello di assecondarne, o magari di anticiparne e giustificarne, le esternazioni e le bordate critiche, per di più rivolte – sembrerebbe – quasi esclusivamente verso Berlusconi e l’attuale maggioranza e motivate, va da sé, dal suo desiderio di proporsi nel futuro più o meno immediato come alternativa o successore del Cavaliere. Ma si tratta di un modo di ragionare – sia detto senza offesa per nessuno – davvero povero e sconsolante, che non tiene conto di una elementare evidenza: il nostro mestiere è esattamente un altro, il che significa che non abbiamo né titolo né voglia, e nemmeno le capacità o forse il necessario pelo sullo stomaco, per stare quotidianamente nella mischia, per partecipare a una qualunque contesa, per prestare armi e argomenti polemici alla lotta politica d’ogni giorno, per fare da puntello ideologico alle ambizioni di carriera di questo o quel leader.
Resta poi da chiedersi, per tornare a Fini e al suo disegno politico-culturale, sul quale oggi tutti si interrogano, chi teorizzando una sua improvvisa “conversione” nel segno del “politicamente corretto”, chi immaginandolo nei panni di un avventuriero politico che naviga a vista, se c’era davvero bisogno di mettere in piedi una struttura tanto complessa, che comporta costi materiali e richiede parecchie energie umane, se l’unico obiettivo che si persegue è quello di mettere i bastoni tra le ruote ai propri avversari o, peggio ancora, quello di soddisfare la propria legittima ambizione di politico. Serve una fondazione per condurre una guerriglia parlamentare o per conquistare un po’ di visibilità sulla scena pubblica? A nessuno è venuto il sospetto che Fini e la “sua” fondazione abbiamo scelto di lavorare per un obiettivo – una nuova cultura politica per l’Italia di domani – che davvero nulla c’entra con la quotidiana ossessione per lo scoop o per la dichiarazione ficcante che regola l’odierno circuito politico-informativo?
Ciò che bisognerebbe chiedersi – questa la domanda che rivolgiamo a tutti coloro che in questi giorni ci hanno considerati, senza troppa fantasia o con un eccesso di malizia, la “spina nel fianco” di Berlusconi e del centrodestra – è se la politica, anche in questa Italia sgangherata e declinante, possa essere ridotta a uno scontro tra singole personalità o a una sotterranea lotta di potere, nel quale le idee e gli intellettuali che le elaborano servono soltanto da pretesto o da copertura per interessi inconfessabili ma in realtà sin troppo palesi. Viene il sospetto, a leggere certe cronache e certe ricostruzioni apparse nei giorni passati, che a molti osservatori non sia ben chiara la differenza, per dirla all’ingrosso, tra la tattica e la strategia, tra un lancio d’agenzia dettato in tre minuti e un progetto di ricerca che richiede due anni di lavoro, tra le parole che si consumano nell’arco di una giornata, in attesa del telegiornale della sera, e il lavoro di sedimentazione e di costruzione che rappresenta, sino a prova contraria, il sale della politica e il suo tratto di nobiltà. Che è poi la differenza, appunto, tra la polemica spiccia, tra la provocazione che dura un attimo, e la riflessione che guarda al futuro.
La verità delle cose è spesso assai più semplice, e assai più immediata, di certe fantasiose letture, di un modo di leggere le dinamiche politiche tanto cervellotico quanto inconcludente. È evidente che Farefuturo persegue, sin dalla sua nascita, un progetto politico-culturale ben determinato, che presenta una sua autonomia e originalità (almeno nelle intenzioni). Non sfugge a nessuno che molte delle sue prese di posizione e delle sue linee di intervento non sempre collimano con quelle che attualmente hanno legittimo corso nella politica italiana e in particolare all’interno del centrodestra. Ma proprio questo è il punto che ci qualifica. Siamo nati per stimolare dibattiti e discussioni, per fare da battistrada alla politica, non per amplificarne le posizioni già note e acquisite o per darle una patina di rispettabilità culturale. Non siamo la “spina nel fianco” del centrodestra, o la sua copertura intellettuale; ne siamo piuttosto il lievito creativo e la coscienza critica. E dell’esercizio di un simile ruolo – che non richiede contropartite, che non nasconde secondi fini – ci si dovrebbe essere grati.
La nostra idea generale – discutibile, ma è la nostra idea – è che in questi anni si sia sin troppo navigato a vista: perse o rinnegate le antiche appartenenze ideologiche, la classe politica, della destra e della sinistra, a tutti i livelli, ha preso a muoversi in un deserto di valori e di idee, si è messa a inseguire la cronaca a danno della storia, ha rinunciato a ragionare del passato e del futuro per rinchiudersi in una sorta di eterno presente. La politica italiana, molto semplicemente, ha smesso di pensare, se stessa e il proprio compito, ha rinunciato al governo strategico della società accontentandosi della sua ordinaria amministrazione, ha messo in soffitta passioni e ideali, i pensieri alti e nobili, e si è preoccupata solo di gestire il potere in sé, sganciato da qualunque progetto o visione.
Le fondazioni di cultura politica – la nostra compresa – sono nate proprio con l’obiettivo di colmare tale vuoto: con l’idea di dare alla politica e ai partiti (a quel che ne resta) un nuovo slancio, di rivitalizzare il dibattito pubblico, di colmare il divario sempre più crescente tra conoscenza e azione, di battere per quanto possibile nuove piste e nuovi orizzonti, di studiare (per poi renderle politicamente governabili) le trasformazioni in atto nella società e nell’immaginario collettivo, di superare la crisi irreversibile delle ideologie non attraverso la scorciatoia del pragmatismo ma mettendo a punto nuovi sistemi di idee e nuove chiavi di lettura del mondo reale. Quanto le fondazioni di cultura politica – la nostra compresa – possano riuscire in un simile, certamente ambizioso, tentativo è tutto da dimostrare. Si tratta di strumenti che hanno alle loro spalle pochi anni di vita, importati da altri contesti politico-culturali (a partire da quello anglosassone, dove invece rappresentano da lungo tempo una realtà assai solida e influente) e per questo motivo ancora poco considerate, ma che questa sia la loro unica ragion d’essere è altrettanto evidente. Che alcune “fondazioni”, tra le molte che operano attualmente in Italia, siano poco più che sigle, messe in opera da politici desiderosi di apparire à la page o di darsi una vernice di rispettabilità intellettuale, è un fatto e sarebbe ipocrita negarlo. Ma in maggioranza sono realtà serie e solide, luoghi di formazione ed elaborazione culturale, attivamente impegnate sul piano della ricerca e del dibattito pubblico, ognuna ovviamente con un suo specifico orientamento politico o, in molti casi, con un particolare campo di specializzazione. Alla luce di queste considerazioni, l’immagine che ci è stata cucita addosso, per comodità o pigrizia, di un gruppetto di guastatori che si diverte a spararla grossa, lascia davvero il tempo che trova. Semplicemente, non si è capito, in molti casi, di cosa si sta davvero parlando.
Siamo, come detto, una fondazione di cultura politica, ma con una chiara e riconoscibile impronta di tipo, appunto, politico-culturale. Non siamo un organismo super partes o un centro studi che opera in modo neutrale sulla scena pubblica. La nostra area di riferimento è ciò che convenzionalmente si definisce “centrodestra”. Operiamo, con la necessaria e indispensabile autonomia, all’interno del Popolo della libertà. Ma non siamo, per quanto strano possa apparire a occhi esterni, una struttura organica del Pdl. E per quanto possa apparire ancora più strano non siamo nemmeno il portavoce collettivo di Gianfranco Fini. Non c’è dunque da stupirsi se le nostre posizioni, frutto comunque di un’elaborazione per quanto possibile meditata e “strategica”, possano risultare difformi rispetto alle posizioni ufficiali del Pdl e a quelle dello stesso presidente della Camera.
A un gruppo di “intellettuali” – lasciamo perdere quale sia il loro valore e risparmiamoci ogni ironia su una parola tanto abusata – tutto si può chiedere meno che l’ortodossia o il rispetto di una qualunque linea. Se essi hanno una qualche utilità – molti, e con ragione, ne dubitano – dipende solo dalla loro capacità di mantenersi liberi e indipendenti, critici e vigili, ironici e persino irriverenti, rigorosi ma senza troppo prendersi sul serio. Tanto più se si ha come riferimento ideale di massima un partito e un’area politica che della “libertà” hanno fatto la loro ragione sociale. Tanto più se è vero che il Pdl, come ci è stato spiegato molte volte in questi mesi, intende porsi sulla scena pubblica come un partito aperto, inclusivo e plurale, un partito dalle molte anime e sensibilità, dialettico e dialogante in primis al suo interno. Tanto più, infine, se si considera che il lavoro di una fondazione acquisisce senso e significato solo se si è capaci di anticipare i temi di discussione, di porre dubbi e questioni, di proiettarsi oltre la quotidianità, di affrontare in modo originale e non scontato i problemi, per lo più inediti e comunque grandiosi e impegnativi, che la politica si trova oggi ad affrontare e che non possono certo essere risolti a colpi di slogan e trovate propagandistiche.
L’abbiamo fatta lunga. I lettori – che sono generosi, ma la cui pazienza non è infinita – ci perdoneranno. Ma dopo quel che è accaduto, le polemiche e i pettegolezzi, i titoli a effetto e i retroscena piccanti, era necessario precisare il senso generale del nostro lavoro. Sempre condotto, in questi due anni, alla luce del sole e in modo (speriamo e crediamo) rigoroso, senza mai nascondere le nostre reali intenzioni e posizioni, sulla base di un comune sentire, di una sensibilità condivisa, che sono il presupposto necessario perché un’opera intellettuale collettiva abbia un minimo di senso. Puntiamo a creare – a destra, non contro la destra, ma certe categorie per dirla tutta nemmeno ci appassionano più di tanto – un nuovo paesaggio mentale, riteniamo che certi problemi – l’immigrazione, l’identità nazionale, il rapporto con le civiltà diverse dall’occidentale, le questioni di bioetica, le riforme istituzionali, il tema dell’ambiente e dello sviluppo, la sfida dei nuovi diritti – richiedano soluzioni in molti casi nuove e originali. Riteniamo, per dirla tutta e in conclusione, che la politica non sia solo lotta per il potere, ma confronto tra idee e valori, tra progetti e diverse visioni del domani. Vorremmo – alla nostra maniera, per quanto ne saremo capaci – “fare futuro”.
È tutto molto semplice, è tutto terribilmente difficile e faticoso. Ma è il compito che ci siamo dati. Ci diverte, lo riteniamo necessario e ci sforziamo di realizzarlo. Tutto il resto – i giochi di ruolo e le private suscettibilità, la politica politicante e gli equivoci montati ad arte – semplicemente non ci interessa.
*Direttore scientifico della Fondazione Farefuturo
19 maggio 2009
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