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    Predefinito Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Sul governo M5S-Lega e i compiti dei comunisti


    Lo scontro istituzionale sulla formazione del governo si è concluso ormai da settimane, e il nuovo governo targato Cinque Stelle – Lega si è insediato con il beneplacito del Presidente della Repubblica. Quella che segue è l’analisi del Partito Comunista sulle vicende delle ultime settimane, sul carattere del governo M5S-Lega e i compiti dei comunisti nella fase attuale.

    COSA C’È DIETRO LA CRISI ISTITUZIONALE?

    Di questa crisi istituzionale, creatasi dopo il rifiuto del Presidente della Repubblica Mattarella di nominare ministro dell’economia Paolo Savona, ciò che dovrebbe far riflettere non è tanto l’azione esercitata dal Capo dello Stato nel decretare un’esclusione dal punto di vista politico, quanto la giustificazione che, per bocca dello stesso Mattarella, è arrivata a sostegno di questa decisione.

    Il rigetto della prima proposta dell’allora Presidente del Consiglio in pectore Giuseppe Conte è stata motivata con l’intento di evitare le fluttuazioni sui mercati finanziari, l’impennata dello spread, e di rassicurare i grandi investitori stranieri, insomma, il grande capitale, rendendo evidente ciò che i comunisti dicono da sempre: le scelte della politica sono fortemente piegate agli interessi dei settori economicamente dominanti. Sono più attuali che mai le parole che Lenin scriveva un secolo fa: “La potenza del Capitale è tutto, la Borsa è tutto. Il parlamento, le elezioni sono un gioco da marionette, di pupazzi”. Il Presidente della Repubblica ce ne ha dato una prova lampante.

    Sarebbe un errore, però, ritenere che nello scontro in atto, che si è riflesso in Italia nella crisi istituzionale, ci siano attori più o meno vicini agli interessi delle classi popolari e dei lavoratori. Quello a cui abbiamo assistito in queste settimane è una prova di forza del tutto interna alla classe borghese, nella quale si consuma uno scontro fra settori con interessi economici differenti se non addirittura contrapposti, che si ripercuotono in differenti prospettive politiche rispetto al rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica ha accentuato le fratture esistenti nel campo borghese, in senso verticale tra la grande impresa, i monopoli internazionali e la piccola e media produzione nazionale e in senso orizzontale tra le diverse fazioni del grande capitale. La Lega e il Movimento 5 Stelle, seppur ancora timidamente, sono espressione di queste contraddizioni.

    Comprendere lo sviluppo di questi processi nel contesto più generale della crisi economica e del mutamento degli equilibri internazionali è fondamentale per evitare l’errore di porsi semplicemente alla coda degli interessi di uno dei settori oggi in competizione.

    L’attuale fase politica in Italia è caratterizzata dalla crisi di consenso di quelli che per anni sono stati i tradizionali partiti di riferimento delle classi dominanti. È questa la prima chiave di lettura per comprendere la natura del nuovo Governo targato M5S-Lega e lo scontro ancora in corso in seno alla borghesia italiana.

    Le elezioni politiche dello scorso 4 marzo avevano fotografato un sentimento diffuso a livello di massa di sfiducia verso la classe politica “tradizionale”, responsabile dell’attacco ai diritti e del tradimento dei lavoratori. A farne le spese è stato principalmente il Partito Democratico e con esso tutte le forze di sinistra o percepite come tali, a prescindere dalle effettive responsabilità politiche (che comunque nella gran parte dei casi erano presenti). A prevalere, invece, è stato il voto di protesta, che premia le forze percepite come “alternative” allo stato attuale delle cose. Su questa base elettorale, quella di un voto contro l’establishment e la politica, poggia l’illusione del governo “del cambiamento”, legato alla percezione di novità di queste forze politiche, abilmente alimentata dalla retorica politica degli annunci roboanti di Di Maio sulla nascita della “Terza Repubblica”.

    Se per anni il Partito Democratico è stato il principale partito di governo, e per questo il principale riferimento per le grandi imprese, per il grande capitale italiano ed europeo, oggi diventano forze egemoni del panorama istituzionale due forze politiche che in questi anni hanno costruito il proprio consenso in modo interclassista nei settori popolari e tra il ceto medio, modellando, però, le principali proposte politiche sulle parole d’ordine della piccola e media borghesia schiacciata dalla crisi e trascinando i settori popolari alla coda di questi interessi. Il consenso che questi partiti sono riusciti a intercettare tra i settori popolari emerge incontrovertibilmente dalla distribuzione territoriale del voto, con una differenza enorme – ad esempio – fra le periferie, i quartieri popolari e le aree benestanti. Questo dato si è fatto ancora più evidente nel caso della Lega, nell’ultima tornata elettorale amministrativa del 10 giugno. Ma di per sé questo non indica un cambiamento radicale nell’indirizzo politico del paese.

    UN PROGRAMMA DI GOVERNO ANTIPOPOLARE

    Dal “contratto” stipulato tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, base programmatica per la formazione del governo, oltre ad essere elemento di privatizzazione della politica anche nelle forme, si evince chiaramente quale è e sarà l’indirizzo di queste forze politiche nei confronti dei lavoratori, delle loro tutele e dei loro diritti. È proprio sui temi sociali che si evidenzia il carattere inevitabilmente antipopolare di questi partiti.

    Sul tema del lavoro, ad esempio, non si parla mai di abolizione del Jobs Act, e non è un caso se la Confindustria si sia mossa chiedendo a gran voce che non venissero toccate le misure del governo Renzi. Le timide dichiarazioni di Di Maio, che non è andato oltre una generica affermazione per cui il “Jobs Act va rivisto”, confermano questo indirizzo. Non si mette mai davvero in discussione il sistema di lavoro precario costruito in Italia a partire dal “Pacchetto Treu” e proseguito con la Legge Biagi; in compenso si spazia dalla reintroduzione dei voucher (o di una forma giuridica analoga) alla “riduzione del cuneo fiscale” per le imprese che assumono, slogan che per decenni si è tradotto nel semplice trasferimento di risorse dallo Stato alle imprese private, mentre la precarietà non solo non veniva eliminata in modo strutturale, ma al contrario cresceva sempre più. Misure analoghe furono approvate dal governo Renzi negli anni passati con il solo risultato che una volta terminati gli incentivi all’assunzione, per l’appunto gli sgravi fiscali, i lavoratori venivano licenziati. Quella che doveva essere una misura per incentivare l’occupazione si è tradotta nell’ennesima manovra di precarizzazione. Ulteriori alleggerimenti nella tassazione per le imprese erano poi presenti nelle ultime due finanziarie approvate con Renzi come Presidente del Consiglio. Insomma, la continuità con le politiche antipopolari degli ultimi decenni è in questo caso evidente.

    Ben poco sul contrasto alla precarietà, mentre si rilancia la flat tax con aliquota doppia, una misura che comporterebbe la drastica riduzione delle tasse per i ricchi, ma non per i lavoratori. Salvini ha detto candidamente che è giusto che i più facoltosi paghino meno tasse, giustificando questa posizione con la classica favoletta del ricco che investe e fa girare l’economia. L’unico effetto della flat tax sarebbe, al contrario, l’aumentare dei profitti per i pochi che continuano ad arricchirsi andando a penalizzare tutti i settori popolari colpiti dai tagli ai servizi o dall’aumento ventilato dell’IVA, tassa sul consumo che non avendo carattere di proporzionalità colpisce con più forza le fasce economicamente più deboli. Una riforma liberista, esattamente come il reddito di cittadinanza, manovra macroeconomica di sostegno alla domanda che servirà a incentivare il consumo, consentire nuovo deficit e mantenere tollerabile proprio quella situazione di precarietà e insicurezza lavorativa creata dalle riforme sul lavoro di questi anni. Una misura da cui i primi a trarre giovamento saranno i padroni (non a caso la stessa Confindustria ha dato più volte pareri positivi su una manovra di questo tipo), che vedranno una crescita dei loro profitti grazie ai maggiori consumi e potranno continuare a imporre una competizione al ribasso su salari e diritti.

    Non si parla del diritto alla casa e di come garantirlo a tutti, ma in compenso si parla di velocizzare le procedure di sgombero degli immobili occupati. Nulla sulle delocalizzazioni che stanno trasformando l’Italia in un deserto di fabbriche chiuse lasciando migliaia di lavoratori per strada, ma in compenso si propone di istituire un Ministero del Turismo per valorizzare il patrimonio culturale senza spiegare con quali deleghe e quali politiche (mentre risulta chiaro che il patrimonio produttivo viene trasferito all’estero dai grandi capitalisti). Anche sulla scuola, mascherata da critica alle “inefficienze” e ai malfunzionamenti delle riforme del precedente governo, si ritrova nel “contratto” una sostanziale continuità con le politiche di asservimento dell’istruzione agli interessi delle imprese, non si parla mai esplicitamente di abolizione della Buona Scuola o dell’alternanza scuola lavoro ed anzi, Conte ha dichiarato apertamente che non vi saranno stravolgimenti per quanto riguarda la scuola italiana.

    Insomma, dal punto di vista degli attacchi al mondo del lavoro la prospettiva delle forze “populiste” è in piena continuità con le manovre poste in essere da tutti i governi precedenti. Queste posizioni riflettono l’unità della borghesia in quanto classe che ritrova una totale comunanza d’interessi nelle manovre di abbattimento del costo del lavoro nella propria lotta per la massimizzazione dei profitti. Ad accompagnare tutto questo, le derive reazionarie, se non apertamente autoritarie, che già si profilano sui temi della “sicurezza”, dell’immigrazione e persino dei diritti civili, con un ministro che afferma di voler contrastare ideologicamente il diritto all’aborto e le unioni civili.

    LO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA E LE FRIZIONI FRA UE, BRICS e USA

    Le principali divergenze rispetto ai governi precedenti riguardano gli ambiti in cui la crisi economica ha prodotto (o accentuato) in seno alla borghesia fratture e contraddizioni di cui Lega e Cinque Stelle sono espressione. Questi contrasti non si concretizzano unicamente tra piccola e media impresa con i monopoli internazionali: esiste una divisione interna ai principali settori del grande capitale stesso, tanto in Italia quanto a livello europeo, che si riflette tra le altre cose nella scelta delle alleanze internazionali.

    A fronte di gruppi dominanti che restano saldamente ancorati alla prospettiva del mercato comune europeo e della fedeltà all’Alleanza Atlantica, esistono settori che oggi vedono come vantaggiosa la prospettiva della cooperazione dell’Italia con la Russia, la Cina, e più in generale con l’area dei c.d. paesi “Brics”. Del resto, la “linea dura” promossa dal presidente USA Donald Trump contro la Russia e l’Iran colpisce in primo luogo gli interessi di una parte del capitale europeo, che a causa delle sanzioni contro questi paesi rischia di vedersi costretto a rinunciare a incassi miliardari. È proprio a causa di questi interessi, non del tutto coincidenti con quelli dei grandi monopoli USA, che nel capitale italiano ed europeo lo scontro verte sempre più sui temi del rapporto del mercato europeo, con Russia, Cina, Iran ecc. La recente apertura della Francia di Macron nei confronti della Russia è un sintomo evidente di questo processo come le parole pronunciate dal Presidente Conte durante il discorso per la fiducia in cui si ribadiva la “permanenza dell’Italia nella NATO con gli Stati Uniti come alleato privilegiato” ma si auspicava un riavvicinamento dell’Italia alla Russia e la volontà di una “revisione nel sistema delle sanzioni”. A queste parole non è poi tardata ad arrivare la risposta della cancelliera tedesca Angela Merkel e del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg che hanno invece riaffermato che il regime delle sanzioni deve essere mantenuto.

    In Italia, infatti, la bussola di alcuni settori della grande impresa oscilla sempre di più verso mercati diversi da quello USA, e non è un caso: l’Italia, ad esempio, è il primo partner commerciale dell’Iran in Europa con un volume di interscambio di 1,2 miliardi di euro all’anno e questo è un dato con cui ogni governo nei prossimi anni dovrà fare i conti. La posizioni di disallineamento dalle alleanze tradizionali è ancora minoritaria fra i settori dominanti del capitale italiano, ma avanza a gran velocità fra la media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, che in assenza di un movimento operaio capace di esprimere una posizione autonoma trascina con sé anche ampie fasce di proletariato.

    Lo scontro nel grande capitale internazionale, però, è ben lontano dall’essersi assestato in uno confronto bipolare e anzi presenta elementi di frizione e instabilità interni alle alleanze imperialiste stesse, tra settori differenti in una stessa nazione e tra i monopoli sul piano internazionale. Anche all’interno del campo dello schieramento atlantico, infatti, esistono fratture sull’indirizzo economico e politico da perseguire. Se da un lato gli USA hanno bisogno di un’Europa unita nello scontro commerciale con gli altri principali attori economici non necessariamente sono avvantaggiati dalle politiche di austerità imposte da Bruxelles e dai rapporti di forza esistenti nel quadro dell’Unione Europea. Lo scontro tra i monopoli statunitensi e quelli tedeschi è sempre più forte e si è già manifestato in passato nell’arenarsi delle trattative del TTIP, mai andato in porto proprio per la contrarietà della Germania, a cui ha fatto seguito l’introduzione negli USA dei dazi doganali per l’acciaio e l’alluminio. Le politiche protezioniste USA hanno colpito tutti gli esportatori europei alle cui rimostranze Trump rispose con un tweet dai toni accesi: “L’Unione europea, Paesi meravigliosi che trattano gli Usa molto male sul commercio, si stanno lamentando delle tariffe su acciaio e alluminio. Se lasciano cadere le loro orribili barriere e tariffe su prodotti Usa in entrata, anche noi lasceremo cadere le nostre”.

    La possibilità di una guerra commerciale tra USA e Unione Europea (con un ruolo di primo piano che sarebbe giocato da Germania e Francia), paventata pochi giorni fa anche dall’europarlamentare Guy Verhofstadt durante una seduta del Parlamento Europeo, produce una maggiore intransigenza delle classi dominanti europee rispetto a possibili disallineamenti, e contrariamente un interesse della borghesia USA verso la prospettiva di una UE che non sia completamente a trazione tedesca, contribuendo all’instabilità dei campi imperialisti a livello internazionale con riflessi nella dialettica politica interna ai diversi Stati. È sullo sfondo di questo scontro di portata internazionale, della competizione fra i grandi monopoli capitalisti dei diversi schieramenti, che si sviluppano le discussioni relative all’indirizzo che prenderanno i governi dei diversi paesi europei.

    In questo quadro si può spiegare l’azione operata da Mattarella nel rifiuto di Savona come ministro dell’economia che, pur non essendo meccanicamente interpretabile – come tanti hanno fatto – come una ingerenza di uno Stato terzo nella politica italiana, è certamente espressione di una tensione internazionale realmente esistente ed ha rappresentato un elemento di compensazione tra gli interessi contrapposti della borghesia. Quello in campo infatti non è uno scontro tra realtà statuali (al cui interno sono rappresentati interessi di classe tra loro inconciliabili) quanto semmai il confronto degli interessi di differenti settori del capitale che utilizzano gli Stati per il perseguimento dei propri profitti, e non si tratta di certo di una novità.

    In questo contesto gli appelli di carattere nazionalistico e “patriottico” diventano, nelle mani dei settori che ambiscono a svincolarsi dai legami univoci imposti dal sistema di alleanze atlantico, un’arma potente per la costruzione del consenso. Non è un caso che nel “contratto di governo” ricorra frequentemente lo slogan dell’interesse nazionale, né sono stati casuali i tentativi di strumentalizzare politicamente la giornata del 2 giugno, con gli appelli a manifestare e ad esporre il tricolore italiano. Gli slogan nazionalisti strizzano l’occhio agli interessi di una piccola e media impresa intenta ad invertire il proprio processo di proletarizzazione e che si sente schiacciata all’interno di un mercato comune che oltre ad asfissiarla con la concorrenza spietata dei grandi monopoli le impedisce di ampliare gli orizzonti commerciali per le proprie merci. Ma soprattutto, il nazionalismo diventa un arma per costruire il consenso fra i lavoratori, proiettando il sentimento di rivalsa verso “l’esterno”, celando la responsabilità della borghesia italiana nelle politiche di attacco ai diritti delle classi popolari.

    Sarebbe un errore pensare che sia in atto uno scontro fra il neoliberismo e la sudditanza alla UE, da un lato, e la “sovranità” e l’interesse dei popoli dall’altro, così come intravedere nelle politiche di carattere protezionistico un recupero di “sovranità” a vantaggio delle classi popolari. È vero, al contrario, che politiche di questo tipo corrispondono agli interessi di una fetta del capitale italiano e alla volontà di questi settori di tutelarsi – questo sì – dalla concorrenza del capitale estero, ma solo per poter applicare più a fondo e con maggiori profitti una nuova stagione di politiche di rapina ai danni dei lavoratori.

    IL RUOLO DEL GOVERNO M5S-LEGA RISPETTO ALLO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA

    La politica, però, non può spingersi oltre quello che è l’effettivo livello di rottura dei vari settori del capitale. Il fatto che sul panorama politico si affaccino posizioni che sono espressione delle contraddizioni presenti nel campo borghese non significa automaticamente che queste contraddizioni siano pronte per scoppiare. Le posizioni definite “sovraniste”, seppur abbracciate da larghissime fasce della piccola e media produzione, possono esprimersi concretamente solo laddove incontrino il favore di importanti settori del grande capitale o laddove le contraddizioni internazionali si siano spinte a tal punto da far venir giù l’impianto istituzionale esistente, condizioni che il campo europeo e italiano ancora non presentano.

    È all’interno di questo contesto che avviene un ammorbidimento delle posizioni più “radicali” di Movimento 5 Stelle e Lega, con innumerevoli dichiarazioni di conciliazione, spesso contraddittorie con le posizioni che quei partiti hanno sostenuto fino a poco tempo fa. L’espressione di una linea sempre più conciliatoria è progredita in crescendo, di pari passo con l’avvicinarsi della prospettiva concreta del governo. Sono stati evidenti i tentativi di rassicurare i poteri forti circa la capacità del nuovo governo di garantire gli interessi in ballo. Già in campagna elettorale, fu emblematico il modo in cui entrambe le forze hanno modificato, se non addirittura rinnegato, le loro precedenti posizioni “sovraniste” sull’Unione Europea, in favore di una linea più morbida che si guarda bene dal parlare di rottura con la UE e l’euro.

    Nel già citato contratto di governo, ad esempio, sulla politica estera compaiono affermazioni morbide che, in proporzione, sono più di continuità che di svolta: “Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)”. Sarà interessante, ad esempio, capire come se la caverà il ministro Di Maio, firmatario in fase elettorale dell’ICAN Parliamentary Pledge (che sottoscrive e aderisce al trattato ONU di non proliferazione delle armi nucleari) con la sostituzione di decine di bombe nucleari in Italia con le nuovissime e ancor più distruttive B61-12.

    Nel punto sull’Unione Europea, è scomparsa ormai da tempo la critica “sovranista” sostituita da enunciati sulla necessità di migliorare e riformare la UE, addirittura elogiando i trattati europei esistenti con affermazioni come “l’Italia chiederà la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona”. Per molti dei punti elencati nel programma, gli obiettivi politici vengono declinati nei termini dell’attività nelle sedi UE per promuovere gli interessi delle imprese italiane. Sull’agricoltura, ad esempio, si afferma che “È necessaria una nuova presenza del Governo italiano a Bruxelles per riformare la politica agricola comune (PAC)”.

    Questo processo di riallineamento però non è bastato, e il governo M5S-Lega sembra aver suscitato comunque preoccupazioni. I settori dominati del capitale italiano e europeo che, volenti o nolenti, si vedono costretti ad avere come riferimento per la tutela dei loro interessi due partiti “diversi” (almeno in parte) da quelli che hanno governato negli ultimi anni. È a partire da questa preoccupazione che si spiega la pressione esercitata da gran parte dei mezzi di comunicazione, le dichiarazioni delle autorità europee sul carattere “populista” del nuovo governo, fino ad arrivare allo scontro con il Presidente della Repubblica in merito al veto posto su Paolo Savona come Ministro dell’Economia.

    D’altra parte, il rifiuto nella nomina del ministro dell’economia da parte di Mattarella ha rischiato di tramutarsi in un vero e proprio passo falso e di trasformare una ipotetica nuova tornata elettorale in plebiscito per Lega e 5 Stelle.

    In queste vicende si intravedono i sintomi evidenti di una fase di assestamento, in cui forze politiche che hanno fondato il loro consenso sul voto “di protesta”, e che hanno fatte proprie molte delle parole d’ordine proprie della media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, devono ancora entrare in totale sintonia con le volontà e le esigenze dei settori dominanti del grande capitale, i cui precedenti partiti di riferimento sono passati in secondo piano nella scena politica. Un assestamento che deve necessariamente arrivare in questa fase se non si mettono in discussione i paradigmi su cui si basa questo sistema, come accaduto in Grecia dove supino il governo Tsipras ha adottato tutte le misure antipopolari richieste, o tutt’al più, in un contesto europeo in mutamento, una frattura politica nell’eurozona porterebbe ad una ricomposizioni degli equilibri e delle alleanze internazionali lasciando inalterati i destini dei popoli.

    I COMPITI DEI COMUNISTI IN ITALIA NELLA FASE ATTUALE

    In questo quadro, è di fondamentale importanza la riflessione sul ruolo dei comunisti nella fase attuale. Diverse voci, anche a sinistra, sono finite a spezzare una lancia in favore del governo M5S-Lega, a partire proprio dall’idea che si tratti di un (potenziale?) governo di “rottura” e di un’opportunità di recupero di “sovranità” dell’Italia. Questa visione è profondamente errata, perché viziata dall’idea di fondo che esistano settori del grande capitale “migliori” (o “meno peggio”, che è lo stesso) di altri, che esista una borghesia “sovranista” più favorevole ai popoli, contrapposta a quella fautrice di un legame esclusivo e privilegiato con il mercato nordamericano ed europeo. Ma assumere questa posizione significa accettare che i lavoratori e le classi popolari siano trascinati alla coda degli interessi di questa o quella fazione del grande capitale, di questo o quello schieramento imperialista.

    Allo stesso modo, sarebbe assolutamente fallimentare riproporre “fronti antifascisti”, come abbiamo sperimentato negli anni dell’anti-berlusconismo, legati alle forze di sinistra e centro-sinistra che in questi anni hanno governato portando avanti politiche di macelleria sociale. Il Partito Democratico è stato il principale riferimento politico del grande capitale italiano e internazionale negli ultimi anni, è un nemico di classe e la nostra lotta dovrà essere sempre diretta tanto nei confronti del nuovo governo quanto nei confronti di quelle forze politiche che fino a ieri hanno governato e che adesso cercano di rifarsi una verginità politica stando all’opposizione. Il modo migliore per contrastare l’avanzata delle forze reazionarie, specialmente nella fase attuale, è il radicamento dei comunisti nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari e di periferia, per costruire una reale alternativa di lotta. Fare opposizione al fianco di quel centro-sinistra che è stato fino a ieri responsabile delle peggiori politiche antipopolari è il più grande favore che oggi si possa fare alle forze reazionarie e di destra più o meno estrema.

    Il compito dei comunisti, quindi, è quello di promuovere in ogni momento una politica autonoma della classe operaia e dei lavoratori, una visione politica indipendente da quella del nemico. Uno sviluppo della fase attuale in senso autoritario e reazionario non è una prospettiva irrealistica, nelle attuali condizioni che vedono i comunisti impreparati dinanzi agli eventi che, come la storia insegna, possono svilupparsi con brusche accelerazioni. Dalla nostra capacità di ricostruire l’unità della classe lavoratrice, di dare coscienza e organizzazione alla lotta delle classi popolari, di rompere la saldatura oggi esistente fra gli interessi di settori della borghesia e ampi strati popolari trascinati alla loro coda, dipenderà il futuro del nostro paese nei prossimi decenni. Renderci complici di questa saldatura sarebbe l’errore più grande che potremmo fare. Lavoriamo, quindi, ogni giorno al rafforzamento politico, ideologico e organizzativo del Partito Comunista per dotare i lavoratori di una forte organizzazione di classe che rappresenti, per dirla con Gramsci, quel campo autonomo e impenetrabile alle idee del nemico, che lotti in maniera indipendente per gli interessi dei lavoratori.

    Sappiamo bene che oggi il sentimento diffuso nelle ampie fasce di elettorato che hanno votato il M5S e la Lega è quello di una generica fiducia che si esprimerà anche in un appoggio a questo governo. Il Partito Comunista non alimenterà illusioni. Non staremo a guardare, né perderemo tempo, porteremo nelle piazze e sui luoghi di lavoro la nostra analisi, smascherando tutti gli interessi che si celano dietro questo scontro politico. Metteremo fin da subito in campo le nostre forze contro il governo 5 Stelle – Lega, rivendicando l’autonomia della lotta della classe operaia e delle fasce popolari contro l’UE, la NATO. Lavorando instancabilmente nella costruzione di un’alternativa di classe che possa esprimere i reali interessi delle classi subalterne, che ponga il potere nelle mani dei lavoratori. Questa alternativa si chiama socialismo.
    Ultima modifica di Lord Attilio; 30-06-18 alle 18:11
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  2. #2
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    Iniziativa Comunista Europea: «Giù le mani dal diritto di sciopero»

    Lo scorso 26 giugno, l’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa ha rilasciato una dichiarazione relativa agli attacchi contro il diritto di sciopero che si susseguono in Europa (ultimo caso in Svezia). La dichiarazione rammenta i proclami formali sui diritti umani fatti nell’ambito della democrazia borghese che sono negati nella pratica ogni volta che entrano in conflitto con gli interessi di classe della borghesia e la massimizzazione dei profitti. E il diritto di sciopero, che è formalmente riconosciuto da molte costituzioni borghesi, non fa eccezione. La dichiarazione asserisce che il duro attacco lanciato con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il consolidamento del riformismo all’interno dei sindacati sta diventando più profondo e acuto portato avanti in modo pianificato e coordinato da parte degli organi dell’UE e dai governi borghesi.

    Pianificato e coordinato a livello UE con «la complicità attiva dei sindacati collaborazionisti ufficiali, nuovi e vecchi socialdemocratici e opportunisti nel movimento operaio», si legge nella dichiarazione dell’organizzazione internazionale che raggruppa 29 partiti comunisti. La strategia adottata dall’UE, dal capitale e governi per limitare il diritto di sciopero è interpretato come «parte di un più generale attacco del capitale contro la classe lavoratrice al fine di garantire alla borghesia piena governabilità e controllo del processo di ristrutturazione capitalista».

    I partiti della Iniziativa Comunista Europea, tra cui il Partito Comunista per l’Italia, invitano la classe operaia e le classi popolari a lottare per:

    • Giù le mani dal diritto di sciopero e dall’attività sindacale
    • Abolire di ogni pratica contro gli scioperi ed esporre e isolare i leader riformisti compromessi nel movimento sindacale
    • Rafforzare la lotta contro l’UE, il capitale e i governi borghesi a favore dei contratti collettivi di lavoro e dei diritti dei lavoratori.

    Credendo che le leggi anti-lavoro non saranno mai in grado di abolire le lotte operaie o fermare scioperi e azioni collettive, la dichiarazione termina come segue:

    «Le restrizioni legali e la repressione non sconfiggeranno la classe operaia e la loro resistenza, fino alla vittoria finale, finché la classe lavoratrice non diventerà padrone della ricchezza che produce!»

    Iniziativa Comunista Europea: «Giù le mani dal diritto di sciopero» | La Riscossa
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  3. #3
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Ministro Trenta: «Nessun taglio agli F-35 e impegno a incrementare spesa NATO»

    In una intervista rilasciata al portale americano Defense News, tra le riviste più accreditate a livello internazionale in materia di difesa, il Ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha rassicurato che il nuovo governo M5S-Lega non intende tagliare l’ordine dei discussi caccia F-35, ulteriormente rimpinguato recentemente dal ministro uscente Pinotti (30 in totale per un costo di circa 150mln l’uno). «E’ un programma che abbiamo ereditato e su cui abbiamo molte domante; per questo valuteremo il programma considerando i vantaggi industriali e tecnologici per l’interesse nazionale, visto che siamo il nuovo governo», ha affermato precisando però che «cercheremo di allungare le consegne ma non di tagliare l’ordine».

    Inoltre ha annunciato che nel corso dell’incontro con il Consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, John Bolton, avvenuto lo scorso 26 giugno in visita a Roma, ha garantito l’impegno dell’Italia a raggiungere l’obiettivo di spesa della NATO del 2% del Prodotto Interno Lordo (come già assicurato anche dal ministro degli Esteri, Moavero), che significa quasi un raddoppio dell’attuale spesa corrispondente all’1.1% del PIL sottraendo ulteriori risorse alla spesa sociale. «Ma vorremmo anche che la nostra forte presenza nelle missioni militari fosse riconosciuta come valore aggiunto», ha precisato, ribadendo inoltre che «gli Stati Uniti sono il nostro storico alleato, non ne abbiamo mai dubitato».

    Tra queste missioni viene confermato anche l’impegno in Afghanistan (come in Libano e Iraq), particolarmente richiesto dagli USA. «Non vogliamo ridurre la stabilità o ridurre il sostegno per gli afghani» ha affermato il Ministro Trenta. «Vogliamo iniziare un cambio di passo, come già stabilito dal precedente governo, mantenendo allo stesso tempo operativa la missione». Si parla di un piano di riduzione del personale italiano da 900 a 700 unità ma solo se altre nazioni sono disponibili a rimpiazzarli, rassicura il Ministro affermando che «non vogliamo indebolire la missione, quindi cercheremo altri partner per assumere compiti come la logistica».

    In cambio del mantenimento dell’impegno in Afghanistan, il Ministro Trenta ha dichiarato di aver richiesto sostegno agli USA per lanciare una missione militare italiana pianificata in Africa, e precisamente in Niger, con il pretesto della lotta al traffico di migranti che attraverso il Sahara giungono in Libia da dove si imbarcano verso l’Europa. Una missione che lo scorso anno era stata pianificata dal governo Gentiloni ma bloccata dal governo del Niger e che aveva ricevuto l’opposizione da parte del M5S in parlamento (mentre la Lega si era astenuta) cambiando radicalmente posizione adesso che è al governo. Secondo l’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), la missione italiana in Niger come pianificata dal precedente governo si concretizzerebbe nello schieramento di un contingente di 470 militari, 130 mezzi terrestri, due aerei ed equipaggiamenti logistici affiancando la missione già in atto in Libia composta da circa 300 militari di stanza a Misurata e a quella NATO in Tunisia a cui prenderanno parte 60 soldati italiani.

    Proseguendo con l’intervista, la Trenta dichiara di aver chiesto a Bolton di “aiutare” l’Italia anche ad assumere un ruolo di “leadership” in Libia per accrescere la sua influenza nella competizione con la Francia (che ha circa 4.000 militari dislocati nel Sahel con basi sparse dalla Mauritania al Ciad) in particolare sulla “torta petrolifera”, come avrebbe ribadito anche nella telefonata all’omologa francese Florence Parly riportata dall’Huffington Post.

    L’Italia vuol rafforzare il governo di Tripoli guidato da Fayez al-Serraj, di contro la Francia supporta l’uomo forte di Bengasi, il generale Khalifa Haftar che lunedì scorso, dopo aver riconquistato i terminal petroliferi, delle navi cisterna e dei grandi serbatoi di Ras Lanuf e Sindra in Cirenaica, con una battaglia vinta sul campo a caro prezzo (184 soldati morti, 300 vittime in meno di due settimane di combattimenti e 800 milioni di dollari di danni) contro i mercenari del Ciad al comando dell’ex capo delle guardie petrolifere Ibrahim al Jadhran, ha annunciato che il suo governo (non riconosciuto dalla comunità internazionale) avrebbe iniziato a vendere il petrolio autonomamente da Tripoli, cosa che comporterebbe la riduzione di circa il 40% delle entrate del bilancio statale del governo di al-Serraj. Progetto bloccato immediatamente dal messaggio inviato dal segretario generale della Nazioni Unite Antonio Guterres per cui «tutte le risorse naturali, la loro produzione e i loro introiti devono rimanere sotto il controllo delle autorità libiche riconosciute», ossia la Noc con sede a Tripoli capitanata da Mustafa Sanallah.

    Nel recente viaggio in Libia, il Ministro degli Interni Salvini, pur senza citare la Francia, ha ipocritamente criticato «l’occupazione economica» della Libia enfatizzando come il vicepremier libico abbia insistito nel dire che «la Libia vuole rafforzare il rapporto con l’Italia e non con qualche altro paese». L’Italia attualmente è il paese che mantiene la posizione migliore nel saccheggio del settore energetico libico, la cui produzione di greggio è tornata quasi ai livelli dell’ultimo periodo di Gheddafi (1.5 milioni) a un milione di barili al giorno, con l’ENI che possiede importanti investimenti e attività nella regione del Fezzan, a sud di Tripoli, con contratti fino al 2046-2047. Un ruolo che verrebbe minacciato dall’indebolimento del governo di Tripoli nei confronti di quello della Cirenaica, dove fra l’altro si trovano i giacimenti petroliferi più ricchi sotto il controllo di Haftar, mentre soffiano sempre più forti i venti di una guerra civile.

    Il governo di al-Serraj ha chiesto al governo italiano di completare l’opera di costruzione dell’autostrada di 1700 km dal confine tunisino a quello egiziano sul tracciato della vecchia Via Balbia per il costo di 5miliardi di euro da finanziaria lotto per lotta nel periodo di vent’anni con fondi dell’ENI, e della cui costruzione si dovrebbe occupare la Impregilo, come promesso da Berlusconi nel 2008 a Gheddafi. Altri progetti nel cassetto pronto ad esser aperto per gli affari dei monopoli italiani sono i lavori della Piacentini al porto di Zawara e quelli della ristrutturazione dell’aeroporto internazionale di Tripoli da parte del consorzio italiano Aeneas.

    Nell’intervista, il Ministro Trenta, ha evidenziato la contrarietà italiana alle azioni della diplomazia francese sul sostegno ad Haftar e al progetto per un processo elettorale entro la fine dell’anno. «Non è la cosa migliore da fare», – ha dichiarato Trenta in rifermento al piano elettorale – «gli Stati Uniti hanno visto in Iraq cosa succede quando si affrettano le cose».

    Sulla pelle dei migranti si gioca la grande partita del conflitto d’interessi economici, e non solo, sia in Europa che in Africa con alla base il profitto dei monopoli e il coinvolgimento, più o meno diretto, dei grandi centri imperialisti interessati alla spartizione delle risorse energetiche, vie di comunicazione e zone d’influenza geostrategiche. «Come richiesto dal governo di quel paese, la NATO è pronta ad “aiutare” la Libia a costruire le sue istituzioni di sicurezza, sotto il controllo civile del governo, in coordinamento con l’Unione europea e in accordo con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e gli sforzi bilaterali», ha dichiarato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, in un’intervista del 24 giugno a Repubblica. «Gli esperti Nato– aggiunge Stoltenberg- restano in contatto con le autorità libiche per vedere come assisterle al meglio. Darei il benvenuto a ogni offerta di supporto da parte dell’Italia, ma la decisione spetta al governo italiano».

    Il nuovo governo italiano, con il forte mantello ideologico della retorica anti-immigrati del ministro Salvini ma parecchio debole e eclettico al suo interno, tenta la contrattazione all’interno dei conglomerati imperialistici di UE e NATO (non opponendosi come aveva minacciato nemmeno alle sanzioni alla Russia relativi agli accordi di Minsk così come già fu per quelli relativi alla Crimea) per assumere maggior peso nel cosiddetto fronte Sud con il supporto degli Stati Uniti e spingendo al rafforzamento dell’alleanza atlantica nell’ampia regione del Mediterraneo e Nord Africa. In questo ambito va letta la disputa sui criminali hot spot da installare in nord africa, precisamente in Niger, Ciad, Mali e Sudan con una rimodulazione dell’intervento militare anche in Libia, che vede contrario in primis la Francia come evidenziato nel vertice di ieri sull’immigrazione del Consiglio Europeo dove, al di là dei toni trionfalistici, quasi nulla è stato “conquistato” dall’Italia in termini di redistribuzione dei rifugiati, con un ulteriore stretta criminale e reazionaria nella gestione dei flussi migratori.

    Principalmente dal prossimo vertice NATO dell’11-12 luglio, ma anche dall’incontro a Washington tra il premier italiano Conte e quello statunitense Trump del 30 luglio, si delineiranno meglio gli scenari nel contesto della sempre più esacerbata competizione interimperialista. Quello che è certo è che il governo M5S-Lega, in continuità con il precedente, proseguirà nel coinvolgere il nostro paese nei pericolosi piani imperialisti, guerre, interventi e militarizzazione del nostro territorio che trovano l’ambiente ideale infiammando la questione immigrazione e con la retorica dell’”interesse nazionale” che sempre in bocca al governo come all’opposizione non vuol dir altro che la salvaguardia dei profitti delle grandi imprese e dei suoi azionisti legati al capitalismo transnazionale, in altre parole dell’oligarchia finanziaria, sul sangue e sudore dei lavoratori e dei popoli.

    Ministro Trenta: «Nessun taglio agli F-35 e impegno a incrementare spesa NATO» | La Riscossa
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  4. #4
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    La dignità dei lavoratori non può esser elargita da un governo dei padroni. Solo l’organizzazione e la lotta paga

    Il governo Lega-5 Stelle, dopo essersi smascherato in politica estera (vedi qui e qui), ora mostra il suo vero volto antipopolare anche in politica economica – e non poteva essere diversamente. Vediamo in dettaglio cosa prevede il “decreto dignità”.

    1. Contratti a tempo determinato. Le aziende non potranno prorogare più di 4 volte queste tipologia di rapporto di lavoro (mentre prima il limite era 5), fino a un massimo di 24 mesi (contro i 36 di prima). Ma solo il 22% dei contratti a termini e l’1% in somministrazione hanno in realtà durata superiore ai 365 giorni. A fronte di un aggravio dello 0,5% in più di spese contributive (per finanziare la Naspi), se un’azienda vorrà rinnovare un contratto oltre i 12 mesi, dovrà darne “giustificazione”. Le imprese non faticheranno comunque ad adattarsi, licenziando i precari dopo 12 mesi. Ciò significa semplicemente che si creerà una rotazione dei lavoratori, confermando quello che abbiamo sempre detto: il lavoro non è precario, quello è stabile, sono i lavoratori ad essere precari!
    2. Aumento degli indennizzi per i licenziamenti senza giusta causa previsti dal Jobs Act: +50% e comunque non oltre un tetto massimo di 36 mensilità. Ciò, oltre a non mettere in discussione il “licenziamento senza giusta causa”, costituisce solo fumo negli occhi ai lavoratori. Infatti questa forma di licenziamento è raramente usata, mentre quella più pratica per l’azienda, che vuole disfarsi di un dipendente, è “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”, senza contestazione disciplinare e dove le cosiddette “ragioni aziendali” non devono necessariamente consistere in una situazione di crisi (per esempio è stata considerata valida la decisione del datore di lavoro di sopprimere un posto perché poco produttivo; così come è legittimo affidare le mansioni del dipendente a una azienda esterna (“esternalizzazione”). Inoltre, tutti i nuovi assunti sono senza la tutela dell’articolo 18, cioè il loro contratto a tempo indeterminato in realtà è un contratto precario, possono essere licenziati in qualsiasi momento.
    3. Su delocalizzazione e incentivi, le aziende che ricevono qualsiasi tipo di aiuto di stato dovranno restituirlo da due a 4 volte se delocalizzano, sia in Europa che fuori, entro 5 anni (dimezzato dagli annunciati 10). Revoca anche per le imprese che, senza delocalizzare l’impianto, riducono l’occupazione nelle unità interessate dal contributo (sempre entro i 5 anni). A parte il fatto che non è specificata la soglia minima di licenziamenti né il momento dell’entrata in vigore e che una norma similare era stata già approvata nella scorsa legislatura all’interno della legge di Stabilità del 2014, i fondi europei e le esenzioni fiscali non sono considerati aiuti di stato. Si dovrà vedere alla fine cosa resterà di questa norma dopo il passaggio parlamentare e come esso verrà realmente applicato, in particolare in riferimento ai paesi all’interno dell’UE, e quanto la sanzione possa esser realmente un freno rispetto ai benefici che il padrone trae dalla delocalizzazione. Quindi anche qui possiamo parlare senz’altro di fumo buttato negli occhi dei lavoratori.
    4. Pubblicità del gioco d’azzardo vietata sui media. Un divieto che non si applicherà sui contratti in essere, né su lotterie a estrazione in differita (una su tutti, la Lotteria Italia). Esclusi, inoltre, tutti quei giochi che hanno ottenuto il logo “Gioco sicuro e responsabile”, sul resto si applicherà una risibile multa del 5%. Insomma, salvato il gettito fiscale proveniente da gratta e vinci e altri “giochi” gestiti dallo Stato.
    5. Le nuove norme sul fisco. L’esecutivo ha ridotto infatti il redditometro e ha allungato i termini dello spesometro (misure entrambe introdotte contro l’evasione dell’IVA). Quindi, la strada del tutto opposta alla lotta all’evasione promessa.
    6. Salta la prevista abolizione dello staff leasing, ossia la possibilità concessa alle agenzie di lavoro di assumere persone a tempo indeterminato, collocando poi queste ultime presso i propri clienti attraverso la stipula di contratti a somministrazione (con unico paletto inserito del tetto del 20% massimo per impresa). Questo è il meccanismo più utilizzato per rendere flessibile il mercato del lavoro in Italia.
    7. Salta la compensazione universale automatica tra crediti e debiti nei confronti della pubblica amministrazione, che costituisce il più grosso peso (31 miliardi) a carico delle piccole imprese
    8. Saltano le nuove norme sui riders, sui quali lunedì è partito al Ministero del Lavoro il tavolo negoziale con le società di food delivery, le quali metteranno in campo tutte le solite argomentazioni. Dall’altro lato i sindacati concertativi hanno avanzato proposte del tutto arretrate (contratti co.co.co.) mentre i rappresentanti dei lavoratori non sono stati neanche ricevuti.


    Le reazioni di Confindustria amplificano come solito le lagnanze dei padroni, che non sono mai contenti delle regalie pubbliche, e quelle del PD, ovviamente in perfetta sintonia con quelle di Confindustria, confermando come questo partito cerca ancora di proporsi come il più fedele interprete degli interessi padronali.

    D’altro lato, Di Maio si affrettato a tranquillizzare i padroni dicendo che il governo individuerà «le coperture per abbassare il costo del lavoro in modo selettivo su professioni, tipi di impresa e investimento che hanno un margine di crescita» nella prossima legge di Bilancio, confermando anche in questo la porzione della borghesia di cui M5S intende essere riferimento.

    ***

    Possiamo quindi avanzare un commento ai primi passi del governo giallo-verde, in piena sintonia con quello che ci si aspettava da un governo filo-padronale:

    1) la distanza enorme tra quello promesso, per quanto in modo molto fumoso, in campagna elettorale (cancellazione del Jobs Act, del lavoro somministrato e precario, ripristino dell’art.18, salario minimo ecc.) e quanto mantenuto.

    2) Sui riders, si è individuata una categoria nuova, priva di ogni diritto, per farne un simbolo di propaganda del governo con il quale far passare il messaggio delle «tutele minime» come il massimo delle conquiste, con una contrattazione che deve eliminare il conflitto, confidando nella “sapienza” del governo/ministro. Un capolavoro di manipolazione degli interessi dei lavoratori: si parte da una esigenza giusta e sentita, anche se investe una parte minima dei lavoratori, si finge di farla propria e alla fine si propone una soluzione che in realtà nega il vero problema e anzi pone artificialmente tutto il resto della classe operaia su un piano di “privilegio”.

    3) Ai proclami trionfalistici di Di Maio, per cui questo decreto sarebbe la «Waterloo del precariato», si associa la “narrazione” forviante dei sostenitori del governo secondo cui “è pur sempre un miglioramento e un cambio di tendenza” (magari cooptando anche qualche settore sindacale accomodato sul collaborazionismo, come abbiamo visto all’ultimo congresso UIL e le dichiarazioni di Barbagallo e di Cofferati). Ma qual è in realtà il piano? Niente conflitto, niente conquiste, niente organizzazione di classe, ma qualche “concessione” del presunto “governo amico” nel quadro della comunione di intenti tra imprenditori e lavoratori assimilando questi ultimi alla tesi della fine delle contrapposizioni nella difesa dell’“interesse nazionale”. Mentre la narrazione di PD/FI/FdI è che si tratterebbe di un attacco alle imprese e quindi in ultima analisi agli interessi dei lavoratori, che alla fine coinciderebbero anche in questo caso con quella dei padroni. Un gioco delle parti con Confindustria che prepara il depotenziamento delle già misere misure del decreto in parlamento e a far cassa con gli annunciati “tagli del costo del lavoro” in nome della competitività.

    Le cose stanno andando da subito molto peggio di come si poteva prevedere a partire da un’analisi sulla natura di classe del governo (vedi qui la posizione del Partito Comunista). Quelle briciole che potrebbero arrivare si sono perse per strada. E del resto, mancando una forte opposizione di massa alle scelte del governo, perché i padroni dovrebbero concederle?

    Dopo questi primi provvedimenti, molti lavoratori che – dopo essere stati platealmente traditi dal PD e delusi dalle sirene berlusconiane – per disperazione si erano rivolti, al nord e al sud, a questi due partiti, Lega e M5S, possono già vedere la reale natura di questo governo.

    Occorre smascherare la natura di questo governo, che utilizzando la demagogia “populista” (qualunque cosa ciò possa significare), è in piena continuità con le scelte filo-padronali del passato, da Berlusconi al PD. Pertanto solo una presa di posizione indipendente della classe operaia, che non la collochi sotto questa o quella bandiera della borghesia, può costituire il primo passo per la ricostruzione di un fronte di classe in Italia per delle vere conquiste e non elemosine.

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  5. #5
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Russia, dopo 90 anni il governo di Putin smantella il sistema pensionistico sovietico

    Mentre l’attenzione è tutta rivolta ai mondiali di calcio, il governo borghese russo guidato da Putin-Medvedev, sta portando avanti una riforma del sistema pensionistico che aumenta l’età pensionabile di 5 anni per gli uomini e di 8 per le donne, insieme ad altre misure antipopolari come l’incremento del 2% dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) dal prossimo 1° gennaio 2019, del costo della benzina, degli alloggi e dei servizi comunali. Come in tutti paesi capitalistici, prosegue anche in Russia una aggressiva politica antipopolare che assesta un altro duro colpo per la distruzione dello Stato sociale ereditato dall’era socialista nel processo di restaurazione capitalistica, continuando a violare i diritti e le libertà dei lavoratori e degli sfruttati con una diseguaglianza sociale che ha raggiunto dimensioni gigantesche con 200 famiglie (biznesmeny) che possiedono oltre il 90% della ricchezza nazionale. Lo scorso anno, secondo Forbes Russia il patrimonio di costoro è cresciuto di 100 miliardi di dollari rispetto al 2016, raggiungendo la cifra di 460 miliardi, con al primo posto il coproprietario della compagnia di gas privata “Novatäk”, Leonid Mikhelson (18,4 mld $), mentre i salari del 29% dei lavoratori russi sono al di sotto della soglia di sopravvivenza.

    Il Consiglio dei Ministri ha introdotto nella Duma di Stato lo scorso 16 giugno la proposta sui cambiamenti nel sistema pensionistico che entreranno in vigore gradualmente a partire dal 2019 fino al 2028 per gli uomini e 2034 per le donne, e riguarderà gli uomini nati dal 1959 e le donne dal 1964, mantenendo il diritto al pre-pensionamento per l’industria pesante. Mentre la pensione sociale sarà erogata a 70 anni per gli uomini e 68 per le donne. La motivazione adottata dal primo ministro Medvedev è relativa all’aumento dell’aspettativa di vita, ma i dati ufficiali di Rosstat rilevano anche che in 62 (su 85) entità federali della Federazione Russa l’aspettativa di vita media è di 65 anni e addirittura in 3 sotto i 60 anni. Alcuni studi riportati dalla Confederazione del Lavoro della Russia rilevano che l’aspettativa di vita del 40% dei lavoratori russi sarebbe prossima ai limiti di età previsti dalla riforma.

    La decisione, relazionata con la necessità della “stabilità del bilancio statale”, sta suscitando grandi preoccupazioni e proteste tra le classi popolari russe, e secondo varie inchieste 9 cittadini su 10 sono contrari alla riforma. Il livello reale delle pensioni, da ottobre 2014 è calato del 6,9%, mentre i prezzi al consumo, di prodotti alimentari e non, da novembre 2014 sono cresciuti in media del 25,7%, con una diminuzione del volume di circolazione di beni e servizi del 19,4%.

    La questione dell’innalzamento dell’età di pensionamento fu sollevata per la prima volta nel 1997, per esser poi fortemente dibattuta nel 2010-11. Nel gennaio 2015, fu l’allora ministro delle finanze Ulyukaev ad annunciare una riforma delle pensioni che adesso sembra giungere in porto. Il sistema pensionistico vigente in Russia è quello introdotto nel 1928 dal governo sovietico di Stalin che stabilì l’età pensionistica più bassa al mondo: 60 anni per gli uomini e 55 per le donne, inoltre per i lavoratori che svolgevano lavori usuranti e pericolosi l’età era di 50-55 per gli uomini e 45-50 per le donne, che si associava alla drastica riduzione dell’orario di lavoro.

    Il Partito Comunista Operaio Russo, membro della Iniziativa Comunista Europea, evidenzia come la «riforma delle pensioni sia un chiaro esempio del risultato della controrivoluzione borghese con la quale la nostra società è andata verso i rapporti capitalistici di sfruttamento e oppressione». «I lavoratori russi stanno oggi lavorando più che in qualsiasi cosiddetto paese sviluppato, con salari molto più bassi e un’aspettativa di vita più breve», denunciano i comunisti. «Ma questo non è abbastanza per i padroni, vogliono ancora più profitti, più plusvalore creato dal lavoro per accrescere i conti di oligarchi e funzionari», prosegue il PCOR, sottolineando come la riforma pensionistica serva anche ad incrementare il livello di asservimento dei lavoratori, incrementando la paura e sottomissione all’arbitrarietà dei padroni aumentando la competizione tra i lavoratori che di conseguenza permette di abbassare i salari. Evidenziando la superiorità del sistema socialista, il PCOR afferma che «il sistema sovietico, che ha posto l’accento sullo sviluppo globale di tutti, compresa la previdenza, ha liberato la persona. Il sistema borghese, volto ad appropriarsi del lavoro della maggioranza da parte di uno stretto gruppo di parassiti, rende schiava la persona, privandola anche del suo diritto al riposo». Per i comunisti la riforma ha pertanto un inequivocabile carattere antipopolare che mira ad aumentare il grado di sfruttamento dei lavoratori, ad aumentare i profitti dei capitalisti e a rafforzare lo stato borghese a spese dei lavoratori.

    In migliaia stanno partecipando alle azioni e manifestazioni di protesta che si susseguono in varie città del paese, blindato per i mondiali di calcio e con il divieto di protesta nelle città coinvolte. Attive le organizzazioni della sinistra di classe russa, del Rot Front (Fronte Unito del Lavoro Russo), del PCOR e RKSM(b) che aderiscono al comitato “Il popolo contro l’innalzamento dell’età pensionabile”, con il compagno Alexander Batov, segretario del Rot Front di Mosca che, annunciando la manifestazione nella capitale del prossimo 18 luglio (alla vigilia della discussione alla Duma della riforma), ha dichiarato che «non ci possono esser concessioni, né scambi con le autorità sulla riforma delle pensioni. Solo cancellazione!».

    L’offensiva del capitale non conosce confini e parla la stessa lingua. L’unica barriera è la lotta organizzata dei lavoratori sulle cui spalle viene caricato il peso della ristrutturazione capitalista e della competizione interimperialista.

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  6. #6
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    Putin vuole fare la fine di Forza Italia e PD?
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  7. #7
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    L’Iniziativa Comunista Europea contro il Vertice NATO a Bruxelles

    L’11 e 12 luglio si terrà a Bruxelles, in Belgio, un vertice dei capi di Stato e di governo della NATO, con un pericoloso programma a danno dei popoli.

    Vertici precedenti di questo tipo sono stati usati per introdurre nuove politiche reazionarie e ammettere nuovi membri nella NATO. Negli ultimi anni, la NATO ha avanzato decisioni per la creazione di formazioni militari multi-tentacolari intorno alla Russia, un nuovo corpo di intervento rapido imperialista, una più profonda cooperazione con l’UE nonostante le rivalità sempre più intense tra USA e UE, per l’assegnazione del 2% del PIL degli stati membri alle spese militari. L’incontro dello scorso anno è coinciso con la controversa integrazione del Montenegro nell’alleanza contro la volontà popolare dei montenegrini, mentre a margine dell’intenzione di espandere il controllo euro-atlantico dei Balcani occidentali e del Mar Nero sta adesso preparando l’integrazione della FYROM, così come dell’Ucraina e della Georgia. L’accordo tra i governi della Grecia e della FYROM viene utilizzato come lasciapassare ai fini dell’integrazione della FYROM, che promuove i pericolosi piani UE-NATO nei Balcani.

    Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la NATO si è costantemente espansa in Europa e oltre, il che contrasta con le sue affermazioni sul rafforzamento la stabilità, ha ulteriormente aggravato le contraddizioni inter-imperialiste e incoraggiato i suoi Stati associati, membri a pieno titolo o meno, a promuovere e intensificare le misure anti-popolari. I governi allineati alla NATO sono stati in grado di perseguire politiche che alimentano conflitti etnici come nei Balcani, negli Stati baltici, in Georgia o in Ucraina, per servire gli interessi dei monopoli nel loro obiettivo di controllare le risorse energetiche, le loro vie di trasporto, i mercati.

    I paesi della NATO si sono recentemente impegnati a erogare il 20% delle loro spese per la difesa nelle principali spese di equipaggiamento, fornendo una notevole fonte di reddito ai suoi monopoli. Il recente annuncio della Colombia come “partner globale” della NATO, implica non solo un rafforzamento degli Stati Uniti nel continente sudamericano, ma anche nuove ampie opportunità economiche per i monopoli nei mercati del Centro e Sud America.

    Attualmente si evidenziano serie competizioni all’interno dell’alleanza imperialista, che si vedono in pratica nel sorgere di una guerra commerciale principalmente tra gli Stati Uniti e altri membri dell’organizzazione. In questo contesto, l’intensificazione della militarizzazione dell’UE con la sua politica di sicurezza e di difesa comune e la “Strategia internazionale” dell’UE che prevedono pericolosi piani come la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), l’Iniziativa Europea d’Intervento e la cosiddetta Mobilità Militare, nel quadro della cooperazione con la NATO, ma che vedrà a loro volta gli imperialisti dell’UE portar avanti i propri interessi in modo indipendente, con il continente Africano e il Medio Oriente come obiettivi specifici del coinvolgimento militare dell’UE e dei suoi stati membri.

    Alla luce di questi sviluppi, è chiaro che le alleanze imperialiste stanno diventando sempre più instabili, che non possono esser permanenti e che il sistema capitalista alla loro base sta diventando sempre più reazionario e pericoloso. Il reiterato mito borghese dell’UE come progetto di pace si è rilevato in realtà l’esatto opposto.

    Rafforziamo la lotta contro la guerra imperialista, l’UE, la NATO e tutte le alleanze imperialiste!

    Mettiamo fine al sistema capitalista che genera guerre, crisi, rifugiati, sfruttamento!

    Viva il socialismo!

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  8. #8
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    Attacco incendiario contro il presidio No Muos. Attivisti: «Sospetti su militari statunitensi»

    Un attacco incendiario è avvenuto nel tardo pomeriggio di ieri contro il presidio No Muos in c.da Ulmo a Niscemi (Caltanissetta) nelle vicinanze della base della marina USA dove è installato il contestato sistema di comunicazione satellitare. Le fiamme hanno lambito la struttura (bruciando all’esterno anche uno striscione appeso alla recinzione) in cui sono in corso i preparativi per il campeggio antimperialista che si svolgerà dal 2 al 5 agosto e la manifestazione del 4 agosto che giungerà ai cancelli della base americana.

    «Erano quasi le sette quando una macchina bianca in transito — del tutto simile a quelle in uso agli appartenenti alla US Navy, la marina degli Stati Uniti — ha lanciato un innesco incendiario contro il tendone del presidio No Muos dove in questi giorni è in via di allestimento il campeggio che si terrà fino al cinque agosto», denunciano gli attivisti No Muos in un comunicato. «Gli attentatori hanno atteso che tutte le macchine degli attivisti si allontanassero prima di passare all’azione. Non avevano però considerato che un piccolo gruppo di militanti No Muos, non visto, fosse rimasto “di guardia” all’interno del presidio. Questi nostri compagni, uomini e donne, sono riusciti a domare l’incendio mentre i Vigili del fuoco davano forfait perché impegnati su altri fronti», prosegue il comunicato, sottolineando come potevano esser ben più gravi le conseguenze se le fiamme avessero colpito le strutture del presidio propagandosi alla confinante Sughereta (Riserva naturale).

    «È inaccettabile che fatti del genere succedano impunemente nella contrada Ulmo di Niscemi: la zona più militarizzata della Sicilia e una fra le più militarizzate del mondo», denuncia infine il movimento evidenziando come «le pattuglie di strade sicure presenti al momento dell’incendio erano due, dopo che una terza si era appena allontanata. I militari, incalzati dagli attivisti, hanno affermato di non aver visto niente, e di non potere essere utili per testimoniare contro gli attentatori, andando subito via e rifiutandosi altresì di avvertire la forestale».

    Condanna e solidarietà da parte della federazione siciliana del Partito Comunista che in un comunicato rilancia la denuncia del movimento affermando che «questo vile atto provocatorio e intimidatorio, che poteva avere conseguenze ben più gravi, dimostra ancora una volta l’arroganza e il crimine della presenza militare statunitense nel nostro territorio e la collusione delle istituzioni borghesi italiane. Dimostra ulteriormente le ragioni della lotta No MUOS. Non è la prima volta che accadono episodi simili, la risposta è nel rafforzare la lotta per smantellare il MUOS e chiudere tutte le basi e installazioni USA-NATO nel nostro territorio, per sabotare i piani che trasformano la nostra isola in una piattaforma strategica per le guerre e interventi imperialisti contro i popoli e i lavoratori».

    La manifestazione è in programma per il 4 agosto ore 15 dal presidio in c.da Ulmo di Niscemi (CL) fino al cancello 1 della base americana.

    Attacco incendiario contro il presidio No Muos. Attivisti: «Sospetti su militari statunitensi» | La Riscossa
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  9. #9
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    DISASTRO AUTOSTRADA A10 GENOVA, NESSUNA FATALITÀ MA PRECISE RESPONSABILITÀ. (Dichiarazione di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista)

    Prima di tutto vogliamo fare le condoglianze alle famiglie delle vittime del disastro, che però non è certo il frutto dell’imponderabilità della natura. Le cause generali sono dovute ai processi di privatizzazione delle infrastrutture strategiche. Nel particolare, quel tratto autostradale è tra quelli a massimo pedaggio e a massima redditività. Per chi? Per i privati che gestiscono le autostrade. E cioè per chi aveva e ha l’obbligo di compiere le manutenzioni straordinarie ed anche le sostituzioni (i ponti quando sono vetusti si ricostruiscono). Solo l’ingordigia del capitalismo (oggi globalizzato) può imporre un modello in cui i servizi fondamentali di una nazione (trasporti, sanità, istruzione ecc.) debbano esser vincolati al profitto di privati e non al benessere pubblico. Il problema è che, da almeno trent’anni, la maggioranza degli italiani (colpevole soprattutto la finta sinistra che ha sposato in pieno il liberismo) credono a questa favola. Forse tragedie come quella di Genova possono iniziare a fare riflettere. La soluzione non è quella di nuovi padroni (buoni, meno voraci ed efficienti) bensì l’espropriazione, la collettivizzazione e una gestione puntuale di questi settori, insieme a quelli della produzione industriale strategica (grande manifattura, acciaio, alluminio…). Pare che su quel maledetto ponte passassero 25 milioni di utenti all’anno. Quanti miliardi di € si sono intascati i privati infischiandosene evidentemente della sicurezza? La tragedia è simile a quella occorsa nelle Marche nel 2017. Questi “signori del mercato” privatizzano i loro profitti scaricando pericoli e insicurezza su tutto il popolo. A volte non sono neanche multinazionali ma, come in questo caso, “padroni” italiani, a riprova che il problema non è la sovranità bensì il mercato. Il problema è il capitalismo. Bisogna appunto espropriare, nazionalizzare e, con le risorse riacquisite, allestire un grande piano di manutenzione (anche del territorio) che garantisca sicurezza e centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, rompendo tutti i vincoli di compatibilità UE. Riprendiamoci il maltolto. Per fare questo serve lo Stato.Uno Stato diverso da quello borghese.Per fare questo serve il Socialismo.Chissà se il “cambiamento” passerà anche da Genova?

    DISASTRO AUTOSTRADA A10 GENOVA, NESSUNA FATALITÀ MA PRECISE RESPONSABILITÀ. (Dichiarazione di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista)
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  10. #10
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    Predefinito re: Partito Comunista/ Fronte Gioventù Comunista

    Incontro Merkel-Putin tra scontri e interessi imperialistici

    *di Lorenzo Vagni

    Lo scorso 18 agosto si è tenuto presso il castello di Meseberg, a Gransee, in Germania, un incontro tra Angela Merkel e Vladimir Putin. Il vertice segna una riapertura del dialogo tra i due capi di stato dopo l’inasprimento dei rapporti a seguito delle sanzioni economiche imposte alla Russia dall’Unione Europea in risposta all’annessione della Crimea. Nell’incontro si sono trattate varie tematiche di politica internazionale: dalla guerra del Donbass, per la quale la Merkel chiede l’applicazione degli accordi di Minsk, a quella in Siria. Si è parlato inoltre della possibile estensione del Nord Stream, il gasdotto che collega la Russia alla Germania attraverso il mar Baltico.

    Il progetto Nord Stream, chiamato inizialmente North Transgas e in seguito North European Gas Pipeline, risale al 1997, anno in cui il colosso russo Gazprom e la compagnia finlandese Neste decidono la costruzione di un gasdotto che non transitasse per altri paesi nel tragitto tra Russia e Germania. Nel 2005 Gazprom rilevò le quote di Fortum (nome assunto nel frattempo da Neste) della società per la costruzione del gasdotto, divenendone unico proprietario, e iniziò i lavori di costruzione sulla terraferma. In seguito subentrarono acquistando quote altre grandi imprese europee, mentre le italiane Snamprogetti e Saipem parteciparono alla progettazione e alla costruzione del gasdotto. La prima linea del Nord Stream fu ultimata nel 2011, mentre l’anno successivo fu terminata una seconda conduttura.

    Dal 2011 si iniziò ad ipotizzare l’espansione del Nord Stream, chiamata appunto Nord Stream 2, che prevedeva la realizzazione di altre 2 linee che portassero la capacità del gasdotto dai 55 miliardi di metri cubi attuali a 110 miliardi di metri cubi. La costruzione degli impianti terrestri in Germania è iniziata a maggio, e si prevede che il Nord Stream 2 possa essere operativo entro il 2020.

    Il progetto, fortemente sostenuto da Putin, ha visto l’opposizione da parte di Polonia, Slovacchia e Ucraina, che temono di rimanere tagliate fuori dai collegamenti del gas tra UE e Russia, la quale al contrario sarebbe meno esposta a pressioni da parte degli stati attraversati dai gasdotti rafforzando i collegamenti via mare. Si sono inoltre espressi sfavorevolmente alla realizzazione del Nord Stream 2 Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, secondo cui il progetto sarebbe contro gli interessi dell’UE in quanto «il Nord Stream 2 non aiuta la diversificazione, né riduce la nostra dipendenza energetica», e Donald Trump, secondo il quale l’accordo renderebbe la Germania «totalmente controllata dalla Russia». Perfino Matteo Renzi, durante la sua presidenza, si era scagliato con veemenza contro la decisione della Germania di raddoppiare il gasdotto, definendo tale decisione incoerente con le sanzioni.

    La posizione di opposizione al Nord Stream 2 da parte degli Stati Uniti è di facile lettura, in quanto gli USA temono che la Germania aumenti la propria dipendenza dalla Russia, a scapito proprio degli stessi Stati Uniti che, per tale motivo, promuovono invece il progetto del Trans Adriatic Pipeline (TAP) che dall’Azerbaijan giunge in Italia in funzione di “diversificare le fonti di approvvigionamento dell’UE” (limitando la Russia) insieme all’esportazione del suo gas naturale liquefatto (GNL) in Europa. La Germania è già peraltro il maggior importatore di gas dalla Russia, acquistando il 27,5 % delle esportazioni di Gazprom. Nel primo semestre del 2018 le importazioni di gas russo sono aumentate del 12,2 % (ovvero 3,5 miliardi di metri cubi), e l’espansione del Nord Stream potrebbe aumentare ulteriormente tali cifre. Questo ha portato Trump ad affermare che «la Germania è prigioniera della Russia sull’energia e poi noi dovremmo proteggerla dalla Russia».

    La Germania al contrario guarda con interesse allo sviluppo del commercio con la Russia, seppur in forma limitata e senza rinunciare alle sanzioni, a causa della possibile instabilità dei rapporti tra UE e USA a seguito delle politiche di Trump sui dazi e dalla differente strategia a livello internazionale di quest’ultimo. In tal senso, la Russia di Putin rappresenta un partner commerciale ritenuto affidabile, ma l’interesse tedesco si estende anche per tutta un’area considerata “spazio vitale” dalla Russia, il Caucaso meridionale. La Merkel, insieme ad una delegazione di imprese tedesche, ha fatto infatti visita anche in Georgia, Armenia e Azerbaijan (che fanno parte del partenariato orientale dell’UE), dove ha evidenziato l’intenzione tedesca di assumere “maggiore responsabilità” nei conflitti dell’area (oltre quello Ucraina-Russia anche quello tra Armenia- Azerbaijan) sottolineandone l’importanza geostrategica (come avamposto verso l’Iran e l’Asia centrale) per la Germania e l’UE, dimostrando il suo interesse anche per il cosiddetto “corridoio meridionale” di trasporto del gas attraverso TAP e TANAP (Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline, che dall’Azerbaijan passa dalla Turchia per finire in Europa) e firmando diversi accordi commerciali. Significativo il caso dell’Armenia che ha firmato un accordo con l’UE (Trattato di partenariato globale e rafforzato – CEPA) negli ultimi mesi pur essendo membro dell’Unione Economica Eurasiatica a guida russa. A tal proposito la Merkel, sottolineando il ruolo tedesco nel buon esito dell’accordo, ha dichiarato: «L’Armenia può essere un esempio di come si possa trovare una buona cooperazione con la Russia e l’UE allo stesso tempo».[1]

    Reclamando una maggiore autonomia commerciale dagli USA, la Germania intende inoltre porsi come capofila di un’Unione Europea che abbia ulteriore peso nel contesto internazionale, come testimoniato dalle parole di Heiko Maas, ministro degli Esteri tedesco[2]:

    «Il fatto che l’Atlantico è diventato politicamente più largo non è dovuto solamente a Donald Trump. Gli Stati Uniti e l’Europa si stanno allontanando da anni. L’intersezione di valori e interessi che ha plasmato il nostro rapporto per due generazioni è in declino. […] È giunto il momento di rivedere la nostra partnership – non di metterla da parte, ma di rinnovarla e preservarla. Come progetto, abbiamo l’idea di una partnership equilibrata, in cui assumiamo la nostra parte della responsabilità. In cui facciamo da contrappeso quando gli Stati Uniti superano certi limiti. In cui mettiamo il nostro peso, quando l’America si ritira. E in cui iniziamo un nuovo dialogo. Da soli, falliremmo in questo compito. L’obiettivo principale della nostra politica estera è quindi quello di costruire un’Europa forte e sovrana. Solo in stretta collaborazione con la Francia e gli altri paesi europei è possibile raggiungere un equilibrio con gli Stati Uniti. L’Unione Europea deve diventare un cardine dell’ordine internazionale, un partner per tutti coloro che si sono impegnati in esso. […] In nessun altro tema il legame transatlantico è indispensabile per noi quanto lo è per la sicurezza. Sia come partner nella NATO o nella lotta contro il terrorismo, abbiamo bisogno degli Stati Uniti. Ma da ciò dobbiamo trarre le giuste conclusioni. È nel nostro stesso interesse rafforzare il pilastro europeo dell’Alleanza del Nord Atlantico. Non perché Donald Trump stabilisca sempre nuovi obiettivi percentuali, ma perché non possiamo contare su Washington come prima.»

    Gli fa eco il 27 agosto il presidente francese Emmanuel Macron [3], dicendo davanti agli ambasciatori di Francia riuniti a Parigi che intende varare «nei prossimi mesi» un progetto di rafforzamento della sicurezza in Europa e che gli europei «non possono più far affidamento esclusivamente sugli Stati Uniti». «Dobbiamo trarre tutte le conseguenze della fine della guerra fredda. Sta a noi prenderci le nostre responsabilità e garantire la sicurezza e la sovranità europea.» La sicurezza, ha detto Macron, dovrà coinvolgere «tutti i partner dell’Europa, fra cui la Russia». A condizione, però di «progressi sostanziali verso la soluzione della crisi ucraina e il rispetto del quadro Osce».

    Ovviamente sono in ballo anche scottanti temi economici. Il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha confermato ieri che Berlino e Parigi stanno studiando il modo di aggirare le sanzioni Usa contro paesi come l’Iran. «Voglio che l’Europa sia un continente sovrano – ha detto – non un vassallo. E questo significa avere strumenti finanziari indipendenti che non esistono oggi».

    Queste dichiarazioni di affermazione di una maggiore autonomia dell’Unione Europea dagli Stati Uniti rappresentano la volontà di imporre il proprio imperialismo in forma più autonoma da quello americano e non possono essere interpretate positivamente. Nulla di buono la classe operaia europea può aspettarsi da tutto ciò. Un’Unione Europea totalmente subalterna agli USA, o un imperialismo europeo che scalpita per risalire nel rango della piramide imperialista, sarà sempre a spese dei lavoratori europei. Nel secondo caso infatti questi dovranno pagarne il conto, a cominciare dall’incremento delle spese militari che comporteranno, mentre gli eventuali profitti che ne dovessero scaturire per “l’Europa”, saranno sempre a beneficio dei capitalisti europei.

    Il Partito Comunista aveva intuito già dal 2016 la possibilità che una tale esigenza da parte dei monopoli europei si sarebbe manifestata. Infatti, come afferma il documento politico del II Congresso del PC [4]:

    «Oggi l’asse tra USA e UE si mantiene per interessi dei settori maggioritari del capitale monopolistico europeo e statunitense. È possibile che in futuro tale asse venga ad allentarsi, come in alcuni casi già si intravede, nel contesto della competizione interimperialistica e di maggiori guadagni da una politica più autonoma. Ciò non muterebbe il carattere imperialistico del ruolo della UE né il carattere degli interessi che essa difende e delle politiche che attua.»


    [1] https://armenpress.am/eng/news/944907.html

    [2] https://global.handelsblatt.com/opin...-europe-956306

    [3] http://www.ilsole24ore.com/art/mondo...?uuid=AEHQyrfF

    [4] http://ilpartitocomunista.it/wp-cont...SO-PC-2017.pdf

    http://www.lariscossa.com/2018/08/28...mperialistici/
    Venezuela e Zimbabwe nei nostri cuori!

 

 
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