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Discussione: L'Angolo Culturale

  1. #1
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito L'Angolo Culturale

    Volevo inaugurare uno spazio dedicato alla cultura nel senso più ampio possibile, quindi non solo eventi a tema o libri. Se la cosa andrà avanti, metterò la discussione in rilievo.
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  2. #2
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Pasolini ucciso una seconda volta




    di Diego Fusaro

    Tutti intenti a celebrare Pasolini nell’anniversario della sua morte (2 novembre 1975). Non vi è giornale, canale televisivo e radionifico, sito internet e programma, che non si produca, oggi, in una commovente e lacrimevole rievocazione del pensatore Pasolini, l’innocente stritolato dagli ingranaggi terribili del potere.

    Perfino in prima serata, nella trasmissione su Rai3 di Fabio Fazio, il tempio dell’anima bella della sinistra politicamente corretta e della gente di una “Certa Kual Kultura” (Stefano Benni), si è ampiamente discusso dell’eroe ucciso per le sue idee. Se ne è parlato, certo, in termini celebrativi, senza mai andare a toccare i cristalli del potere: ed ecco, allora, che, con Morandi e Maraini in studio (chi meglio di loro, del resto, potrebbe parlare del poeta e del pensatore?) si è presentato Pasolini come un calciatore provetto e un po’ stralunato, familiare e simpatico, anche se un po’ sulle sue.
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    Ovviamente, in questo modo pagliaccesco di affrontare la questione, non si è fatto mai cenno a ciò che Pasolini diceva della televisione e del capitale, del potere e della civiltà dei consumi. Nemmeno un cenno, nemmeno una parola. Almeno, nel famoso dialogo televisivo con Enzo Biagi, a suo tempo, questi problemi si erano in certa misura affrontati. Oggi non è più possibile, tanto sono capillari il dominio mediatico e l’ottundimento programmato delle coscienze.

    Perché, in fondo, nel tempo della mediacrazia e dell’integralismo economico-consumistico Pasolini deve essere ricordato così, e dunque, diciamolo, deve essere ucciso una seconda volta: come un giusto e candido, morto quasi per caso, un poeta eccellente spentosi prematuramente; mai – si badi – come lo sferzante critico della società di mercato, di quella civiltà dei consumi che, come magistralmente raffigurato in “Salò” (1975), fa quotidianamente mangiare merda ai suoi sudditi, torturandone le anime ancor prima dei corpi. Non lo si deve mai ricordare come colui che disse apertamente che “l’antifascismo archeologico” e liturgico serve oggi da alibi per legittimare la società dei consumi e il classismo planetario, ossia il nuovo fascismo che si presenta come libertà universale.
    Insomma, Pasolini fa oggi tristemente la fine del Che Guevara sulle magliette, effigie trionfante della società contro cui entrambi, pur diversamente, hanno combattuto.

    La società di mercato, si sa, è forte proprio perché tutto digerisce, dirottando anche le voci oppositive nei circuiti della mercificazione. Celebra Pasolini e, insieme, lo addomestica e lo normalizza: ce lo restituisce in forme “decaffeinate” e inoffensive, come soprammobile e come monumento, mai come possibile compagno nelle lotte contro il fanatismo economico-consumistico dilagante sotto il cielo. Insomma, lo ricorda encomiandolo e, insieme, lo uccide una seconda volta anestetizzandolo.

    È la prassi del potere, in fondo. Ed è anche quello che vorrei chiamare il “complesso di Achille”, in riferimento alle pagine conclusive del primo poema omerico: quelle in cui Priamo si reca al cospetto del principe acheo che ha barbaramente ucciso suo figlio, per pregarlo affinché gli restituisca il corpo di Ettore di modo che possa avere giusta sepoltura. Achille scoppia in lacrime, commosso dal dolore di un padre che gli ricorda il suo: “a queste voci intenerito Achille, membrando il genitor, / proruppe in pianto” (Iliade, XXIV, vv. 643-644).
    Il complesso di Achille torna ora a farsi sentire al cospetto di Pasolini: tutti, compreso il potere che l’ha messo a morte, prorompono in lacrime a ricordarlo, a celebrarne la memoria, e evocarne tutti i momenti fuorché quelli che potrebbero tornare a mettere in discussione l’ordine totalitario del nuovo fascismo della civiltà dei consumi.

    E intanto il potere è pronto di nuovo a uccidere, silenziando e diffamando, chiunque osi svelare gli arcani del dominio, le leggi del pensiero unico e le forme dell’ingiustizia che non ha smesso di dilagare. E rinsalda ogni giorno il suo dominio, rendendo gli schiavi sempre più indisponibili alla rivolta, sempre più incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano:

    “La morte non è

    nel non poter comunicare

    ma nel non poter più essere compresi”.

    (Una disperata vitalità)

    https://www.ilfattoquotidiano.it/201...volta/2180845/
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  3. #3
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    John Carpenter. Raccontare Verità Attraverso Un Cinema “Sinistro”

    By Ultima Voce On Mag 25, 2016

    Scatenare tachicardie parossistiche è il suo mestiere!

    John Carpenter, classe 1948, cresciuto in Kentucky. Fin da bambino ha le idee chiare. Girare film!

    “Mia madre mi ha regalato la fantasia, mio padre la musica. Due regali non da poco“. Fin da bambino Carpenter va spesso al cinema con la madre, mentre suo padre lo costringe a studiare pianoforte e violino.

    Dopo aver visto “Destinazione Terra” di Jack Arnold nel 1953, verrà fuori la sua vocazione e da li deciderà che da grande realizzerà qualcosa di simile. Così inizia a girare film in 8mm fin dall’adolescenza e contemporaneamente mette su la sua prima cover band.

    Nel 1960 decide di iscriversi alla prestigiosa USC di Los Angeles, dove si diploma con un cortometraggio successivamente “gonfiato” a 35mm e arricchito di alcune scene, per essere distribuito nelle sale (Dark Star 1974).

    Nel 1976 gira il film che lo fa conoscere al grande pubblico “Distretto 13 – Le brigate della morte” e il 1978 vede l’uscita di “Halloween: la notte delle streghe” e da quel momento viene acclamato come innovatore del cinema horror.

    Il punto di forza di John Carpente è il riuscire a fondere leggende e miti, con uno stile tra il classico e il moderno capace di creare quell’ambiente sinistro e gotico in un clima urbano comune. Come avviene in “The Fog” (1979), girato a Stonehenge di fronte la pianura inglese, oppressa dalla nebbia. In questo frangente ci regala un infinità di orrori e maledizioni, mescolati ad una colonna sonora da brividi.

    Come sappiamo, uno dei pupilli di John Carpenter, Kurt Russel, impersona vari ruoli in molti lavori diventati “Cult”. Dopo avergli affidato il ruolo nel film “Elvis” (1979), Russel sarà scritturato nel 1981 per “1997 – Fuga da New York”, strappando il ruolo ad attori del calibro di Charles Bronson e Tommy Lee Jones.

    Da questo momento cominceremo a notare, come Carpenter faccia riferimento a quei canoni sociali e denunci in modo molto “sottile” l’ipocrisia della società e i metodi abominevoli di molti governi, teorizzando sullo schermo un futuro immaginario, ma “possibile”. Infatti, se osserviamo il tema trattato in “1997 – Fuga da New York”, noteremo come la costruzione di un “Muro” intorno alla città di New York, abbia trasformato il simbolo dell’economia mondiale, in una immensa prigione. Parliamo del 1981, un epoca dove la guerra fredda era all’apice e il Muro di Berlino, sembrava ormai eterno e sempre più invalicabile.

    Il tema sociale è ripreso più volte da Carpenter, come vediamo in “Essi vivono”, film del 1988, basato su un tema molto particolare: La dipendenza delle persone dal denaro e la lobotomizzazione attuata dalle multinazionali sulle persone. Il tema centrale della pellicola, si basa su un gruppo di persone, considerate “sovversive” che scoprono l’esistenza di un entità aliena, presente sulla terra da migliaia di anni, capace di inviare messaggi subliminali nella mente delle persone e di renderle dipendenti dal denaro e dai beni materiali.

    In questo modo Carpenter, denuncia alcune realtà del nostro mondo che oggi sono di pubblico dominio grazie ad internet e all’informazione libera, ma qui parliamo del 1988, dove l’informazione era totalmente dominio dei media ufficiali.

    Gli innovatori, di solito finiscono sempre negli ingranaggi stritolatori della politica commerciale e John Carpenter non ne è stato immune, come accadde nel 1982 all’uscita de “La cosa”, film capolavoro che fu un flop commerciale. Molte furono le voci che parlavano di un possibile ammutinamento della Universal, verso Carpenter, per indirizzarsi verso quello che era, ai tempi, il capolavoro da evidenziare: “ET – l’extraterrestre”. “La cosa” è destinata a diventare, negli anni seguenti, un “Cult” del cinema horror, valutato molto positivamente dagli appassionati e decantandolo come un pezzo da collezione unico.

    Oltre ad avere una passione per i racconti di H.P. Lovecraft, John Carpenter venera un altro grande maestro: Stephen King. E come ogni buon regista horror, porterà sullo schermo due dei suoi più noti romanzi. “Christine – La macchina infernale“, uscirà dopo il licenziamento dalla Universal, a causa del flop commerciale de “La cosa”. Tuttavia, la trasposizione sullo schermo del romanzo di King, riscuote un grande successo e Carpenter si distinguerà ancora una volta per il suo stile innovativo. Nel 1994, “Il seme della follìa”, altro racconto di King, sbancherà il botteghino, tornando a toccare tematiche sinistre e sociali, come il fanatismo mondiale per un libro e il dilagare della follìa, quando questo libro diventa “religione”.

    Come abbiamo già accennato, i lavori di Carpenter possono spaziare da argomenti, quali la follìa umana pura e semplice, al terrore intrinseco, determinato dall’idea di un futuro catastrofico, dove ormai le tensioni governative sono esplose e l’umanità è ridotta a essere inconsapevolmente schiava. In Europa John Carpenter è considerato un maestro, mentre in America un ciarlatano. Non parliamo di un regista che non sbaglia un colpo. Infatti, come abbiamo già detto per “La cosa”, anche altri suoi lavori, come “Fantasmi da Marte” (2001) o Psychopat (2008), sono stati dei flop.

    Possiamo pensare a Carpenter, come a un “guerriero” dello schermo che combatte la sua battaglia artistica, con le sue idee personali e con i suoi metodi lavorativi. Come tanti “grandi” del cinema, John Carpenter lo si riconosce da subito, per il suo stile a tratti “grezzo” e a tratti “nuovo”. Fondere antico e moderno è una prerogativa di Carpenter, come abbiamo già detto per “La cosa”, ma anche come possiamo vedere in “Grosso guaio a Chinatown” (1986),, dove vediamo un bellissimo contrasto tra la cultura antica cinese e la rappresentazione dello scetticismo occidentale, racchiusa nel protagonista della vicenda “Jack Burton”.

    Vedere un film di John Carpenter, significa addentrarsi in molti “mondi”, fusi insieme in una serie di messaggi “eversivi” che rendono la pellicola intrigante e moderna. Un susseguirsi di anti-eroi, da “Jena Plisken” a “Jack Burton”, fino al più famoso “Michael Myers“. Personaggi provenienti “dall’altra parte dello specchio”. Dei lavori politicamente “non corretti”, senza censure morali.

    https://www.ultimavoce.it/john-carpe...nema-sinistro/
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  4. #4
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Vertigine CCCP


    Tre animali a sangue caldo, estremi, non esiste nulla di simile nella scena underground italiana, si spingono oltre, spiazzano: sono i CCCP Fedeli alla Linea.
    di Federico Mosso - 13 dicembre 2016

    Miscelo parole e note musicale per il carburante del fuoristrada UAZ-CCCP macinante leghe di sassi e terra ocra sulla rotta Berlino Est – Istanbul – Mosca – Capo Dežnëv. La canzone che preferisco dei CCCP è Punk Islam. Nel testo, c’è una strofa che mi proietta in uno stato di forte eccitazione psico-fisica:

    Mi sono perso ad Istanbul

    e non mi trovano più

    dovrebbero seguire le mie voglie

    la sera appena alzato

    o tardi la mattina

    dopo la colazione

    prima di addormentarmi

    Ho ascoltato Punk Islam 18.456.666 volte e non mi stufo. Non so bene cosa mi immagino quando alzo impestato il volume della vecchia astronave novecentesca hi-fi del Regno di Danimarca Bang & Olufsen BeoCenter 9500 con quelle due casse artigianali dell’Anno Domini 1968, il tutto ereditato da mio nonno, di quando c’era il caldo benessere nord-occidentale industriale, in un’altra era di lussi, per morire di look, per morire con lo stereo a tutto volume. L’apparecchio dei primi ’90 ma degli ultimi del millennio morto sembra uno specchio magico: ne sfiori la superficie con le dita, ed ecco che per magia si accendono lucette e spie; e allora che le lucette verdi del volume si moltiplichino senza remore, in una scia luminosa che si fa via via più lunga sulla specchio, e i timpani scricchiolano, ma beati e dopati. I vicini non gradiscono, amen, perché oggi non importa, oggi son maleducato, che chiamino pure i civich, mi nasconderò nel frigo.

    ho un passato e un futuro

    ho un presente che è Dio

    e fa la cameriera

    non ne girano molte

    solo nei posti giusti

    Cambio idea e ora so che cosa mi immagino ascoltando Punk Islam, e non è un goffo tentativo di svelare parole in poetica successione criptica, non sono bravo nella parafrasi. Sono veloci e personali proiezioni mentali di Islam difformi, di angoli mediorientali e nordafricani scossi da versi enigmatici, di piste polverose su cui traballano al ritmo rock vecchi bus colorati e sovraccarichi di uomini e cose, di caravanserragli in agitazione, di minareti con altoparlanti gracchianti sinuosi baccani di chitarra– basso– drum machine su piazze affollate di chador neri e venditori ambulanti, l’esotico nuovo. È una roteante ed estatica danza punk-derviscia. Un rapimento, un’estasi. Su, dai, viaggiamo dal porto libico di Sirte fino al Corno d’Oro di Istanbul, nella confusione vociante del Gran Bazar o attraverso la Porta Imperiale per poi trovarci turchi di domani sotto la cupola di Santa Sofia o a spasso nelle vie genovesi di Galata, e senza stanchezza ci dirigiamo ancora più ad Oriente, nell’Iran rivoluzionario di Khomeini fino addirittura nell’Afghanistan in guerra, stavolta non siamo in montagna coi mujahideen e Rambo III armati con missili stinger del Massachusetts, ma con le brigate spetsnaz dell’Armata Rossa nei valichi dell’Hindu Kush; però invertiamo bruschi la rotta per entrare a Tripoli nel 1984 perché:

    Allah è grande e Gheddafi è il suo profeta!

    Bagliori storici, echi geografici: io in Punk Islam ci vedo tutto questo; probabilmente è solo un mio delirio anni Ottanta, ma un delirio che amo. Dito indice sul tasto luminoso Stop dell’hi-fi del nonno. Calma apparente. A Berlino Ovest è il 1981: tetro fascino storico, quartieri turchi, archeologia industriale, giovani sbandati. In una bettola di Adenauerplatz, il Superfly, un ragazzo di Reggio Emilia balla solitario sulla pista una vecchia canzone dei The Doors a tarda notte.

    Un’amica vagabonda lo abbraccia e gli presenta un altro ragazzo, seduto in disparte, febbricitante e con l’idea in testa di andarsene in Tunisia, pure lui di Reggio. Massimo Zamboni, autostoppista e cameriere in una pizzeria di malavitosi vicino al Checkpoint Charlie, conosce Giovanni Ferretti, operatore psichiatrico. Diventano amici, un giorno vanno in gita a Berlino Est.

    Tornati in Emilia, assieme al diciottenne Zeo Giudici e Umberto Negri fondano i MitropaNK, nel cui assemblaggio del nome c’è una prima esplorazione di quel mondo che poi diverrà dei futuri CCCP: i café Mitropa, tavole calde della DDR e in particolar modo quelle di Berlino Est dove enormi cotolette Schnitzel ad un marco venivano servite ai funzionari dei grigi uffici della burocrazia orientale e ai curiosi punk occidentali in gite al di là del muro. Mitropa: entità mittleuropea + le due lettere punkettone NK = MitropaNK. Le officine socialiste musicali emiliane forgiano l’inizio. Ferretti e Zamboni, tornano a Berlino, e se la prima volta la metropoli tedesca del novecento assoluto li aveva trasformati in punk, questa volta li trasforma in VoPos della Volkspolizei, la polizia militarizzata della DDR, e quindi colbacchi, stivali neri, cappotti verdi, effigi di martello e compasso su sfondo rosso. Estetica – Ästhetik – эстетика. Se a Berlino Est ci sono gigantografie di partito e musica classica diffusa nelle strade, a Berlino Ovest c’è un locale che si chiama Linientreu – fedeli alle linee, e soprattutto ci sono i turchi, tantissimi turchi in Germania, l’Islam nel cuore d’Europa.

    Su un muro leggono un graffito: Punk Islam.

    E poi c’è la new wave dei Fehlfarben, l’industrial dissonante degli Einstürzende Neubauten, l’electropunk dei D.A.F. Deutsch Amerikanische Freundschaft, sarcastici parolieri di Düsseldorf.

    Geh’ in die Knie

    Und klatsch’ in die Hände

    Beweg’ deine Hüften

    Und tanz’ den Mussolini

    Tanz’ den Mussolini

    Tanz’ den Mussolini

    Dalle ceneri dell’autunno del 1982 dei MitropaNK nascono i CCCP Fedeli alla Linea. Giovanni Lindo Ferretti: voce; Massimo Zamboni: chitarra elettrica; Umberto Negri: basso; drum-machine: batteria. Tre animali a sangue caldo, estremi, non esiste nulla di simile nella scena underground italiana, si spingono oltre, spiazzano. Fieri ed orgogliosi, coniano la loro musica che è solo loro. Sul palco c’è grande potenza ma il pubblico rimane allibito, ghiacciato, immobile. Occorre una svolta teatrale. Alla sala Tuwat, ex-mattatoio di Carpi, c’è un barista che si fa chiamare Josè Lopez Macho Frasquelo, che mischia intrugli per offrire agli avventori pozioni assassine sottoforma di cocktail marroncini e demoniaci alla popolare cifra di 700 Lit. Tipo curioso, questo Danilo detto Josè Lopez Macho Frasquelo, di giorno facchino di notte barista ma anche spogliarellista sui generis. Palestrato e atletico, diverso dai CCCP per storia, definito parafascista da Ferretti, durante una sua pièce al Tuwat, una roba del tipo Wojtyła sado- maso strip sex show, folgora i CCCP, lo arruolano nell’Armata Pankow. Danilo Fatur stripteaser sovietico impressiona la gente, esagitato e tremante, muscoli che guizzano, che spruzzano sudore ed elettricità; sputa, spurga energia epilettica, quasi un delirium tremens neo-fututista. Va bene, funziona, ma è addirittura troppo, è pauroso, occorre un’altra figura che controbilanci quella belva in trance tribale.



    Occorre una Madonna, occorre un’Annarella. Antonella Giudici è eccentrica meravigliosa. Antonella che diviene Annarella benemerita soubrette del popolo. Annarella che è mondina/ dottoressa/ resdora/ domatrice/ fotomodella/ presentatrice/ danzatrice/ suora/ cabarettista/ militaressa DDR/ guardia rossa/ sibilla/ statua/ occidente rosso/ ginnica/ cinese/ sposa/ matrioska/ matrona/ danzatrice/ ballerina liscia/ ballerina classica/ danza del ventre/ danza classica cinese. Indossa innumerevoli abiti, è una di quelle rare donne a cui sta bene qualsiasi cosa indosso, sia un vecchio abito da sera, una veste da monaca, uno chador. Annarella è bella: mai vista ad un concerto, mai visti dal vivo i CCCP, io son del ’81, al Cremlino c’era ancora Brèžnev, quando si esibivano i CCCP io giocavo con la macchine Burago non andavo per baraonde punk-rock, però la guardo in un vecchio documentario, lei è di profilo, fiera, con un caschetto in movimento nervoso, l’immagine è in bianco e nero, ha un collo aristocratico sopra un vestito a fiori e al microfono strilla l’attacco ad Emilia Paranoica. Mi sono innamorato.

    Annarella e Fatur, la bella e la bestia. Il bailamme ora è forgiato e completo. Nell’interessante libro “Gli altri ottanta – racconti della galassia post-punk italiana” di Livia Satriano, e nel capitolo “La mia ortodossia”, Massimo Zamboni ricorda:

    Quando salivamo sul palco, mettevamo subito del filo spinato perché non volevamo avere un pubblico. Naturalmente in seguito il nostro approccio è cambiato molto, ma agli inizi quello che ritenevamo fondamentale era costruire un “manipolo guerriero” ed è quello su cui abbiamo lavorato.

    Un manipolo guerriero. Zamboni racconta anche l’estetica da Patto di Varsavia, di come si sia rilevata azzeccata la scelta di “punk filosvietico”, come originale e unica scelta alternativa al punk americano e inglese, un fronte tenuto da pochi elementi armati di microfono, danza, chitarra, amplificatore contro tutto il resto, affollatissimo, occidentale, omogeneo, televisivo. Loro invece, diversi.

    A noi piacevano i disastri, ci piaceva l’ortodossia, il grigiore, la monumentalità sovietica che qui era disprezzata.

    I CCCP vogliono andare alla scoperta di quel mondo al di là di Trieste e di Berlino. Le parole giocoliere di GLF – Giovanni Lindo Ferretti sono la ceralacca di questo percorso metallurgico avanguardista. C’è spazio per il comunismo, il cattolicesimo, il punk, l’avanguardia, la retroguardia, i passi dell’oca, che battono marziali su piazze ghiacciate. Morte ai McDonald’s, morte al consumo, morte … la morte …la morte è insopportabile per chi non riesce a vivere. La morte è insopportabile per chi deve vivere. Scegli, seppuku rituale, o colpo di pistola al cuore? Lode a Mishima, e a Majakóvskij.

    PRODUCI, CONSUMA, CREPA.

    Produci, consuma, crepa: profetica, è dedicata a noi. Noi, proprio noi. Viene un capogiro, gira la testa, siamo qua, proprio oggi io ho prodotto degli inutili file di merda, poi ho consumato comprando dei prodotti, e ora che faccio, lo tiro il freno a mano ai 200 km/h in autostrada per vedere l’effetto che fa in termini di lamiere contorte e servizi di tiggì regionali?

    Viene da chiedersi, anzi, da chiedermi, ma perché i vecchi CCCP hanno un tale fascino dopo tanto tempo? Perché 1) erano dei fighi 2) perché rimango con le orecchie dilatate quando li ascolto, per acchiappare messaggi e rimandi culturali continui, coraggiosi e liberi, molte volte misteriosi ed è un mistero che tale deve rimanere 3) c’è questa estetica totalitaria sovietica, io ad esempio non sono mai stato comunista, altroché, ma chissenefrega, è un’immagine generale di tempie rasate, di cori emiliano-russi, di esperimenti riusciti, di bellezza, di icone del Patto. Il Novecento è poesia in suoni, parole, marachelle. Novecento mi manchi, amore mio. Arte, i CCCP sono stati arte italiana. Nel 1989 il muro crolla, i CCCP perdono la loro raison d’être, ma la perdono nel modo migliore possibile, a Mosca, nel cuore cardiopatico del gigante malato URSS, dopo una sbronza da carristi, suonano e cantano la loro apoteosi, il punto più alto e ultimo. È uno spettacolo sadomaso. Annarella e Fatur mimano il coito sul palco con frustini e nudità, posseduti. E nel mezzo della tempesta, con la corazzata del contrammiraglio Ferretti che cavalca onde sonore e potenza in burrasca, i nostri attaccano l’inno dell’URSS A Ja Ljublju SSSR. Tutti i militari dell’Armata Rossa presenti si alzano, e si mettono sull’attenti. 22 marzo 1989, lo Zenit CCCP.

    Ascolterò i CCCP fin che campo. Appartengono al passato, certo, ma un passato che diviene patrimonio collettivo per la Nazione ammalata. E dopo aver preso a sprangate il tivvùcolor, e aver maledetto con improperi e anatemi irripetibili le pubblicità su youtube, non occorre aggiungere altro, lasciami qui, lasciami stare, lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore.

    Vertigine CCCP | L' Intellettuale Dissidente
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  5. #5
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Sergio Leone e la politica


    2 febbraio 2014 di Massimo Raffaeli



    di Massimo Raffaeli

    Non mancano i buoni studi su uno dei più grandi cineasti del XX secolo, Sergio Leone, e basterebbe riferirsi ai lavori che gli ha dedicato negli anni Oreste De Fornari, alle monografie di Francesco Mininni (Il Castoro 2007) e Marcello Garofalo (Baldini&Castoldi 1999), al memoir di Italo Moscati (Sergio Leone. Quando il cinema era grande, Lindau 2007) e ovviamente alla biografia monumentale, pressoché esaustiva, a firma di Christopher Frayling che in Italia si intitola Danzando con la morte (Il Castoro 2002). Per un maestro così a lungo sottovalutato in vita e anzi sconciato dalle etichette sia del western all’italiana sia di un formalismo proclive all’estetica della violenza, si rendeva però necessario uno studio che ne deducesse la ispirazione politica tanto tenace quanto mantenuta sottotraccia e mai proclamata se non nel corso delle rare interviste dove infatti Leone confessava il sospetto che il cinema esplicitamente “militante” in realtà smentisse tanto il suo linguaggio specifico quanto, soprattutto, la sua vocazione allo spettacolo di massa.

    Né va dimenticato che se Leone, da una parte, è l’erede della maniera grande di un John Ford o di un LeRoy (o in Italia un allievo di Carmine Gallone, con cui collaborò in gioventù grazie all’imprimatur di suo padre Vincenzo, in arte Roberto Roberti), dall’altra la sua formazione sarebbe impensabile senza il magistero dei neorealisti e specialmente di Vittorio De Sica, nel cui capolavoro, Ladri di biciclette, il giovanissimo Sergio fa una breve comparsata. Figlio di un metteur en scène del muto a lungo discriminato per antifascismo, cresciuto a Trastevere in una banda di ragazzi degna di Jean Vigo che egli avrebbe voluto far rivivere nel primo film scritto e tuttavia mai girato dal titolo Viale Glorioso, per Leone, nato nel 1929, la politica corrisponde alle passioni e alle speranze, troppo presto tramontate, dell’immediato dopoguerra cui segue la fase del disincanto e via via di una radicale disillusione che coincide con la sua medesima vicenda d’autore, per appena sette film, da Il colosso di Rodi (’61) a C’era una volta in America (’84). E’ dunque propizio il saggio di Christian Uva, Sergio Leone. Il cinema come favola politica (Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, “Le Torri”, pp. 220, € 12.90) che, con chiarezza analitica, si divide in tre parti: la prima è un ritratto del regista, la seconda affronta il tema specifico e la terza ne fornisce una concreta esemplificazione esaminando alla moviola alcune sequenze capitali.

    Uva muove dall’assunto secondo cui il cinema di Leone, dichiaratamente metalinguistico, nasce nel contesto della postmodernità e in effetti si caratterizza per la contaminazione di “alto” e “basso” e cioè per la costante acquisizione di un genere (prima il peplum, poi il western, l’avventura, infine la gangster story) regolarmente sottoposto a reinvenzione e riscrittura, quando già Lino Miccichè poteva parlare di uno stile raffinatamente “alessandrino”. Scrive Uva: “La coincidentia oppositorum su cui si fonda la produzione leoniana: un cinema autoriale di genere nel quale la peculiare poetica del regista e il suo raffinato stile si radicano in un orizzonte narrativo di stampo popolare”. Quanto a ciò, giova rammentare la sua antica passione per il teatro dei burattini e per il melodramma se, da assistente alla regia di Gallone, si trovò a debuttare nel ’46 proprio con un Rigoletto. In ogni caso, se del postmordernismo Leone condivide il sospetto o il rifiuto preventivo delle grandi narrazioni ideologiche, nondimeno ne ignora la disinvoltura, l’irresponsabilità etica ed il citazionismo che spesso arriva a incorporare i propri modelli. E’ vero che Leone, a proposito delle sue opere, parla volentieri di favole (“favole per adulti”, più precisamente) e di veri e propri miti nell’accezione primordiale ma è vero, altrettanto, che favole e miti per lui prendono corpo non nell’inframondo dell’invenzione disinteressata ma sulla terra dei conflitti interpersonali e storico-sociali: il suo West allucinato è la terra di tutti e di nessuno in cui si affrontano i bounty killer, uomini della frontiera, e i pionieri del capitalismo, mentre l’America del Lower East Side, a sua volta, è la nuova frontiera che divide la sopravvivenza e il piccolo artigianato del crimine dalle arrembanti corporation della criminalità neocapitalista.

    Uva sa cogliere il nucleo della ispirazione leoniana nella solitudine, appunto la terra di nessuno, in cui agiscono gli eroi delle sue storie e cioè quello spazio disertato che li lascia fatalmente soli e li spinge alternativamente all’utopia o alla nostalgia: in Noodles, il personaggio su cui si focalizza C’era una volta in America, lo sfregio arrecato a una duplice utopia, insieme dell’amicizia e dell’amore, si riconverte infatti in una nostalgia autopunitiva e in sostanza suicida. E ciò vuol dire, in altri termini, che nel regista romano il socialismo giovanile si è presto incupito e tradotto nella posizione anarchica che individua giusto nella rescissione dei legami sociali lo stato di normalità, la quale è tragica in essenza nonostante in alcuni personaggi (Tuco in Il buono, il brutto e il cattivo, Juan in Giù la testa) essa dia luogo a un comico, un riso eclatante e sarcastico, che suona rabelaisiano prima che chapliniano. Circa il singolare anarchismo di Leone e le relative fonti letterarie, ingenti ma di solito accuratamente dissimulate, Uva avanza con cautela il nome di Ernst Jünger e la figura dell’”anarca” (comunque antipode, nella sua cifra aristocratica e mineralizzata, alla violenza emotiva di Leone) ma forse sottovaluta, menzionandolo lateralmente, il Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline e non solo perché risulta fra i progetti più cari a Leone (vedi l’articolo L’univers de Céline, comparso su “Le Figaro” il 5 aprile del 1971, assente nella bibliografia di Uva) ma perché del picaro e anarchico Bardamu come del suo deuteragonista Robinson assumono più di una caratteristica tutte le coppie della filmografia maggiore, da Armonica/Cheyenne in C’era una volta il West a Juan/Sean in Giù la testa e Noodles/Max in C’era una volta in America. Qui viene a taglio la testimonianza di un suo grande sceneggiatore, Luciano Vincenzoni, che nell’autobiografia Pane e Cinema (Gremese 2005) rammenta la propria passione per il Voyage (e per i céliniani come Kerouac e Bukowski) giurando di averla trasmessa al maestro, dal momento che scrive: “Leone aveva visto la copia sul mio tavolo (quella polverosa e ingiallita). Mi chiese cosa ne pensassi per un film. Gli comunicai tutto il mio entusiasmo. Lo lesse e andò in Francia con l’intenzione di realizzarlo. Non è successo, pazienza.”

    In realtà, il Voyage è stato girato senza che Sergio Leone lo abbia mai espressamente girato: “Stavo nella mia verità fino in fondo, e poi la mia stessa morte mi seguiva per così dire passo passo. Facevo fatica a pensare ad altro che al mio destino d’assassinato con la condizionale, che tutti d’altronde trovavano assolutamente normale per me”; oppure: “E’ forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare sé stessi prima di morire”. Sono frasi prese a caso dalla versione italiana del Voyage, firmata da Ernesto Ferrero per Corbaccio nel ’92, ma le potrebbe pronunciare, disilluso a morte, il personaggio di Noodles in C’era una volta in America.

    [Questo articolo è uscito su «Alias – il manifesto»].

    Sergio Leone e la politica ? Le parole e le cose
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  6. #6
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Theoria e praxis del Black Metal


    La musica Black Metal e l’immaginario filosofico contemporaneo. Intervista a Nicola Masciandaro, professore al Brooklyn College of CUNY.


    di Fabio Selvafiorita - 15 aprile 2015

    PARTE I

    E’ possibile che uno dei generi musicali più estremi oggi in circolazione, il Black Metal, possa provocare il filosofo contemporaneo e la rinascita della speculazione mistico-metafisica? Ne abbiamo parlato in questa intervista in due parti con Nicola Masciandaro, professore ordinario di Letteratura Inglese al Brooklyn College of CUNY. Masciandaro ricontestualizzando prassi antiche come quella del commento filosofico e del glossatore ci trascina nel vortice perturbante della mistica e delle notti oscure del pensiero. Pur avendo assimilato la lezione di Agamben e quella decostruzionista (e il relativo virtuosismo sintattico), il pensiero di Masciandaro è volutamente dogmatico ai limiti dell’elaborazione poetica; testimonianza di un compromesso inevitabile tra la dimensione affettiva musicale e quella critico-speculativa del filosofo newyorkese. La musica Black Metal per Masciandaro non è un semplice pre-testo per filosofeggiare sul mondo. E’ parte di una dimensione personale, quindi affettiva, che gli permette di rileggere la propria esperienza intellettuale (un po’ barocca) prendendo le distanze dalla noia mortifera delle ontologie neorealiste e formali. Masciandaro ha denominato questo suo approccio Black Metal Theory. Nicola Masciandaro scrive sul blog The Whim ed è editor del giornale Glossator.

    Prof. Masciandaro, ci vuole parlare della sua formazione culturale? E’ professore alla CUNY. Cosa insegna?

    Insegno letteratura medievale inglese, in particolare opere del Trecento come I racconti di Canterbury, Piers Plowman, o le Rivelazioni dell’Amore Divino di Giuliana di Norwich. Questo mi da l’opportunità di ricollegare storicamente tra loro anche vari testi in traduzione, per esempio la Divina Commedia, il Liber di Angela da Foligno, e i sermoni di Meister Eckhart. Per il dottorato mi son concentrato sul significato del lavoro nel medioevo (The Voice of the Hammer // Books // University of Notre Dame Press) ma ora sono più interessato allo studio della tradizione mistica, anche in certi autori moderni: Clarice Lispector, Meher Baba, Emil M. Cioran ed altri. La tendenza generale del mio metodo è quella di esplorare lo spazio tra la poesia e la critica. Il desiderio di rinnovare il genere del commento, mediante la rivista Glossator, e l’esperimento della “black metal theory” sono rami di questa tendenza. Dopo la laurea volevo studiare il modernismo e le opere di Ezra Pound, ma questo interesse si è trasformato in un maggiore interesse per testi medievali. Dello spirito del modernismo conservo la volontà di superare lo storicismo. Un’ altra influenza nei miei primi studi è stato il tradizionalismo di Ananda K. Coomaraswamy. La mia gravitazione verso il medioevo è stata senza dubbio condizionata da mio padre, che è un medievalista in letteratura italiana.

    Che cos’è la Black Metal Theory?

    La black metal theory è il mutuo nereggiare tra metal e teoria. Come il lavoro alchemico inizia con il processo di nigredo, la black metal theory è una pratica contemplativa che crea qualcosa di nuovo, formalmente, dalla trasformazione creativa—nello spazio di una visione intellettuale ed affettiva—di musica metal e teoria. Invece di studiare il black metal come oggetto, di scrivere sul black metal, la black metal theory indica più la riflessione con il black metal e quindi la continuazione consapevole in sede teorica delle sue dimensioni visionarie. Contro il concetto consumistico della musica, per cui l’arte è solo qualcosa da godere, e contro il concetto accademico della musica, per cui l’arte è solo qualcosa da analizzare, la black metal theory (BMT) si pone come un metodo di ‘headbanging’ musicale e teoretico. Così la BMT rappresenta la possibilità di un risveglio dell’antica intelligenza del telos unitario tra musica e filosofia. Comunque, dato che l’attualizzazione della BMT rimane oscura, penso che in questo momento una vera e propria BMT ancora non esista, o esiste più come un sogno o immaginazione di se stessa.

    Ci vuole parlare di cosa è per Lei, Nicola Masciandaro, il Black Metal musicale anche in relazione alla sua specifica formazione filosofico-letteraria?

    Per me il black metal è, soprattutto, una musica spirituale e mistica, fondata sulla negatività dell’essere. Il black metal esprime l’essenza negativa della volontà e dunque apre la porta verso l’esperienza incomunicabile, estatica-dolorosa, della realtà che è, eternamente libera e indipendente dai nostri concetti, la realtà divina, quodditas infinita. Nel libro Floating Tomb: Black Metal Theory, scritto in collaborazione con Edia Connole e che sarà pubblicato quest’anno da Mimesis, ricerco alcuni temi che riguardano la spiritualità del black metal: l’anticosmismo, l’involuzione della coscienza, l’amore negativo di Dio, il nesso misterioso di fattualità e individuazione… In risposta alla seconda parte della domanda, esiste una certa relazione tra gli studi medievali e black metal se non altro perché derivano in parte, storicamente, dal medievalismo romantico. Ma dal mio punto di vista, questa relazione non è molto importante. Più significativa mi pare è la capacità de black metal di attivare musicalmente le verità di scienza, filosofia, e religione in un modo mistico, cioè, nella profondità esperienziale della sua esuberante estetica negativa.

    Alcuni gruppi Black Metal non hanno accolto molto bene la Black Metal Theory. In generale i musicisti sono poco inclini alla speculazione filosofica riguardo al loro lavoro, ritenendola quasi una intromissione nella loro intimità. Come spiega questa ritrosia alla speculazione filosofica?

    È naturale se qualcuno è sospettoso e diffidente quando un estraneo parla della propria amata. Fa parte delle sofferenze d’amore. Ci sono anche molti gruppi black metal che non mi piacciono! È ugualmente ovvio che musicisti di black metal fanno già BMT mediante le varie forme di riflessione e speculazione che sono inseparabili dalla vita culturale della musica per sé. Il problema essenziale, sia etico che discorsivo, è l’idea che una BMT possa essere troppo vicina al black metal, ma nello stesso tempo remota o piuttosto sconosciuta in pratica. La ‘scena’ non ha nessun problema quando artisti dissertano filosoficamente davanti alle loro librerie, o quando un fan produce un saggio che è più commento che recensione. La tensione arriva nell’ambito dell’idea che possa esistere un discorso speculativo e intellettuale paragonabile al black metal, un discorso nuovo e intensivo nello spirito della musica. Nel contempo, l’idea di una BMT non è a casa nel mondo accademico, dove non c’è molto rispetto per l’autorità poetica e filosofica dell’heavy metal, tranne in quanto oggetto di studi culturali, sociologici, o musicologici. Così la BMT si avventura tra il fango dell’edonismo e l’incoscienza della scena consumistica e viceversa nel deserto freddo della mentalità critica e ipocrita dell’intelletualismo accademico. Logicamente, l’idea di una BMT è a un tempo nobile e donchisciottesca, un gioco serio per così dire. Ma l’universo metal, e quindi lo spazio per una BMT, rimane vasto e magnifico. L’idea che il lavoro di un qualsiasi teorizzatore possa contaminare o minacciare l’essenza della musica, o la teoria per quello che conta, è infinitamente più ridicola di Donchisciotte. In ogni caso, la questione dell’autenticità e del valore della BMT rispetto al black metal deve essere affrontata in stretto rapporto con le opere specifiche e con gli autori individuali. Bisogna sempre cercare un equilibrio tra la testa e il cuore. Spiritualmente, il problema dell ‘intromissione’ concerne il fatto che alcuni amanti del black metal evidenziano, come la maggior parte del mondo umano, un atteggiamento per cui è importante o responsabile preoccuparsi dello stato della musica black metal. Questo è parte della ‘nostra’ cultura socio-intellettuale, dove le ansie e simili dolori psichici, mediante il desiderio di essere o sentirsi ‘al corrente,’ sono confusi con sincerità, e dove quasi nessuno sa come pensare giustamente le cose senza giudicare gli altri. Ma la verità del black metal, come la verità in genere, ci fa scoprire autonomia e libertà. Dal momento che la verità è sicura, priva di paura, poichè “l’amore perfetto scaccia il timore” (1 Giovanni 4:18), tutti sono in errore. Indulgere in preoccupazione è contro lo spirito selvaggio-nobile del black metal, specialmente perchè questa musica esprime liberamente il contemptus mundi e l’odio per tutto ciò che è debole nello spirito umano. Come dice Meher Baba, “True love is no game for the faint-hearted and the weak. It is born of strength and understanding” [Il vero amore non è un gioco per i pavidi e deboli. Nasce dalla forza e intelligenza]. Abbandonare la preoccupazione è il primo ed ultimo passo della stretta via di colui il quale pronunciò il non serviam. Similmente, la voce, sia essa della musica black metal o della BMT è vera nella misura in cui evoca la natura daemoniaca del vento: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va” (Giovanni 3). Sono sicuro che chiunque pensi onestamente ai principi di una BMT non la vedrà in contraddizione con la musica black metal. La contraddizione è illusoria, esistente solo al livello di dicerie, pubblicità, pettegolezzo e maldicenza.

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  7. #7
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    Parte II

    E’ possibile che uno dei generi musicali più estremi oggi in circolazione, il Black Metal, possa provocare il filosofo contemporaneo e la rinascita della speculazione mistico-metafisica? Ne abbiamo parlato in questa intervista in due parti con Nicola Masciandaro, professore ordinario di Letteratura Inglese al Brooklyn College of CUNY. (Quì la prima parte dell’intervista).

    Ancor prima delle tematiche affrontate nei testi dei gruppi Black, caratteristica essenziale del Black Metal è la lacerazione del suono e della voce. Non è evidente in questo processo di degenerazione sonora una similitudine con la fase della nigredo alchemica (con tutta la simbologia legata al…blacker than the blackest black…)?

    Certo. La connessione tra la musica black metal e la nigredo è stata interpretata da diversi autori (vide Joseph Russo, “Perpetue Putesco – Perpetually I Putrefy,” in Hideous Gnosis [2009]; Steven Shakespeare, “Shuddering: Black Metal on the Edge of the Earth,” in Melancology [2014]). Allo stesso modo, il suono classico del black metal è stato chiamato ‘necro’. Come ha detto Eugene Thacker in una intervista del 2010, “[it is] almost like the music is distorting or breaking down the tape or the CD itself” [è quasi come se la musica stesse alterando o corrompendo il nastro o il CD stesso]. Dunque la nigredo musicale è correlativa alla nigredo della materialità; putrefazione che libera la spontaneità delle forze creative. E qui c’è anche una analogia importante con la Crocifissione, il martoriare del Logos o del Verbo di Dio. Come profanazione del concetto medievale del torchio mistico (cfr. Inquisition, “Crush the Jewish Prophet,” Magnificent Glorification of Lucifer [2004]), il black metal crocifigge musicalmente la religione, e più generalmente tutte le mediazioni tra l’individuo e la realtà universale e si inebria con il vino del cadavere in eterna decomposizione di Dio. Come dice Xasthur, “The burning corpse of god shall keep us warm in the doom of howling winds, / For we are a race from beyond the wanderers of night” (“Doomed by Howling Winds,” Xasthur [2006])



    Secondo Plotino, la putrefazione deriva da “l’inabilità dell’Anima di generare un’altra forma di essere.” Ma questa debolezza dell’anima eterna è solo una debolezza nella prospettiva del tempo. Nella prospettiva dell’eternità, la putrefazione diventa la spontaneità radicale della realtà divina che in libertà assoluta crea, conserva, e distrugge come vuole, per pura volontà. È per questa sovrarazionale ragione che il black metal loda nello stesso movimento, senza contraddizioni, la sovranità della volontà individuale e le forze della morte e della dissoluzione. Come dice Erik Danielsson di Watain nel suo Opus Diaboli (2012)“[real music] reaches across time and space and it does not give a fuck about neither of them.”



    Uno dei saggi più interessanti del suo blog è intitolato, poeticamente: No Light Has Ever Seen the Black Universe. Nell’oscurità si rivela la vera luce. Che cos’è il Nero per la Black Metal Theory?

    Il nero per la BMT è sia il nero del black metal che il nero dello spazio tra musica metal e teoria. Nel primo senso, il concetto di nero ha varie dimensioni che non posso sviluppare qui. Nel senso secondo, nero è soprattutto il ‘colore’ di una visione, nel significato completo (corporale, immaginativo, e intellettuale) che si applica ugualmente all’esperienza musicale e alla contemplazione. La visione/teoria è nera perchè il nero è il colore che vedo quando non c’è nulla da vedere; l’unica cosa da vedere è il fatto di vedere. La visione corporale, e la percezione sensibile in genere, è nera nel senso che non vedo cose ma oggetti, qualcosa che la mia visione non può penetrare. La visione è immaginativa e nera nel senso che non vedo qualcosa ma la sua immagine, una rappresentazione nella memoria. La visione intellettuale è nera nel senso che sfiora al massimo l’essenza di qualcosa, ma non la sua stessa realtà. Così dice François Laruelle nel testo Du noir univers, “Un noir phénoménal remplit entièrement l’essence de l’homme.” http://www.recessart.org/wp-content/...-Universe1.pdf E come dice Emil M. Cioran, vedere le cose in nero significa vedere da oltre la sfera dell’essere: “If we see things black, it is because we weigh them in the dark…They cannot adapt to life because they have not been thought with a view to life….We are beyond all human calculation, beyond any notion of salvation or perdition, of being or non-being, we are in a particular silence, a superior modality of the void.”

    C’è una possibile continuità tra la nigredo, l’immaginazione negativa e il pessimismo cosmico?

    Sì, certo. Nei miei scritti, mi sono occupato di tematiche che riguardano l’oscurità della Crocifissione come dolore mistico della materialità cosmica. Come molte tradizioni hanno affermato lo scopo della vita è di ripulire e scoprire lo specchio dell’anima affinché si realizzi la realtà infinita. Lo specchio, simbolo della coscienza umana individualizzata, è già in-forma, ora e per sempre, per noi che—per qualche spontaneità inconcepibile—realmente esistiamo in questo strano universo in quanto noi stessi. Il lavoro che resta coincide con l’eliminare le impressioni (materiali, sottili, e mentali) da questo specchio nero. Secondo lo Pseudo-Dionigi questo processo si chiama aphaeresis ed è paragonato alla scultura. Ma se tu stai dormendo dentro il marmo dello spaziotempo, come gestire martello e scalpello? Bisogna sviluppare una forza delicatamente distruttiva in grado di operare anche dentro il marmo. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è modellata sulla tortura etrusca citata da Aristotele e Virgilio e da Agostino stesso, dove una persona legata faccia a faccia a un cadavere fino alla sua putrefazione. (V. Reza Negarestani, “La sposa cadavere. Pensando con la nigredo,” trad. Vincenzo Cuomo, in Kaiak. A Philosophical Journey). Come in Lazzaro, la resurrezione spirituale è preceduta da un periodo di auto-putrefazione, il marcire del Sé, nel senso di un’identità personale corruttibile. Scrive Agostino, “E tu, Signore … mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me?” Il black metal, specialmente attraverso la pratica simbolica del trucco cadaverico, fornisce un’espressione allo stesso processo, apparentemente impossibile e inevitabile. Esploro la dimensione mistica del pessimismo cosmico mediante la tradizione esegetica dell’oscurità nella Crocifissione. Sostengo l’idea che il pessimismo funzioni come un misticismo inverso. Questo ci trascina verso l’orrore paradisiaco caratterizzato dalla consapevolezza di una corrispondenza tra il buio del cosmo e il buio del Sé. In questo contesto il dolore è identificato all’origine dell’universo. Contro Lovecraft ed altri pessimisti materialisti, sostengo che le emozioni umane posseggano invece un significato cosmico, in positivo e in negativo. In breve, tutto è colpa tua, ma tu non sei tu. Qui vedo connessioni importanti con il black metal, in paticolare con i generi cosmic/space black metal e depressive suicidal black metal. Cfr. Mütiilation’s Sorrow Galaxies (2007) e Nihil,Cosmic Pessimism (2015).



    Altri autori importanti che hanno trattato questi temi sono Eugene Thacker e Dylan Trigg. In fine, riguardo l’immaginazione negativa, posso dire che la continuità indicata nella domanda è semplicemente parte della continuità nel cuore nero del metal, cioè, la non-differenza fra la negazione di Dio in tutte le cose e la negazione di tutte le cose in quanto non-Dio.

    Cos’è il Bergmetal?

    Bergmetal è un nome per un genere metal che mette in musica il sogno per le montagne e i temi alpini. Il genere non è molto conosciuto, però esiste da molto tempo. V. Lieut. Nab Saheb of Kashmir & Denys X. Abaris, O.S.L., Bergmetal: Oro-Emblems of the Musical Beyond (2014). In questo testo oggetto di studi comparati sono le montagne, il misticismo e la musica metal sviluppando il pensiero di John Ruskin, Julius Evola e altri con appositi commentari. Sono molto interessato a questo genere anche perchè fin dall’adolescenza sono stato appassionato rocciatore. L’esperienza e la disciplina necessarie nell’arrampicata su roccia, l’intersezione del movimento difficile con la bellezza naturale mi ha sempre insegnato a perseguire l’ideale di una integrazione fra la conoscenza e il fare.

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  8. #8
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale



    PIERO CIAMPI: UN CANTAUTORE? NO, UN POETA!


    di John Vignola pubblicato mercoledì, 30 marzo 2016

    Il testo che segue compare nel disco antologico Ciampi ve lo faccio vedere io, antologia dedicata al cantautore livornese con interpretazioni di Bobo Rondelli.

    di John Vignola e Antonio Vivaldi

    Si può dire, oggi, questo di Piero Ciampi: che è stato capace, per indole o per abitudine, magari per entrambe, di cambiare l’idea della cosiddetta canzone d’autore e di portarla da qualche altra parte.

    Sarà un caso che Ciampi, proprio come capita anche a Luigi Tenco, piaccia a nomi importanti del rock italiano quali Mauro Ermanno Giovanardi, Cristina Donà, gli Afterhours.

    La sua indole anarchica, la sua spontaneità, il suo andare controcorrente in maniera così vitale, inesorabile, divengono qualcosa di tremendamente vicino a quella rivoluzione punk che, quando incide le sue canzoni più importanti, non è ancora arrivata.

    Ovviamente, Piero Ciampi non è un punk, anche se, come i punk, non sa suonare bene nessuno strumento. Come loro ama provocare, come i maestri della beat generation americana ama confondere vita e arte (pagando spesso questa scelta a caro prezzo) e lo fa non come gesto studiato davanti allo specchio, ma come scelta inevitabile; quasi ogni sua parola è poesia, quasi ogni sua azione ha una potenza drammatica e diventa subito racconto.



    Gianni Marchetti costruisce addosso ai suoi versi un vestito melodico, struggente, certe volte ridondante, ma lui non segue quasi mai le melodie oppure le abbandona per poi recuperarle quando sembra troppo tardi.

    Il suo modo di declamare le canzoni è più vicino alla poesia, ma le rime sono tutt’altro che baciate. Le storie attingono dalla sua esperienza personale, ma non sono solo brani di vita vissuta, magari male; riescono a essere epiche e picaresche, commoventi e grottesche fino a comporre un grande affresco umano degno, senza esagerare, di Musil e Carver.

    Sono storie impressionanti, perché Piero sa usare in maniera molto personale la voce. Una voce inconfondibile, paurosa, drammatica: non è quella di un attore, ma, appunto, di un poeta come pochi, almeno nel mondo della musica sospesa fra i Festival di Sanremo e qualcosa che non si riesce a definire bene, per cui si usa il termine ‘d’autore’ con scarsa convinzione (degli artisti).

    Non è un caso, allora, che il paragone con Tenco allontani entrambi da qualsiasi appartenenza, che la passione di entrambi per il jazz li smarchi dall’ossessione italiana per il melodramma e che, alla fine, la gloria, se così si può dire, postuma, sia legata a questo precorrere i tempi che è, assolutamente, inconsapevole e al tempo stesso geniale.

    Piero Ciampi: un cantautore? No, un poeta! - minima&moralia : minima&moralia
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  9. #9
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    Predefinito Re: L'Angolo Culturale

    I salotti ipocriti della ‘sinistra’ di Nanni Moretti


    Aveva di nuovo ragione Mario Monicelli, che già ai tempi di Ecce Bombo trattava Moretti come uno che col passare degli anni avrebbe perso smalto e forza, bellezza e mordente. Molti (non tutti) dei suoi film sono invecchiati male, a differenza di quelli di Monicelli


    di Rassegna Stampa - 11 luglio 2016

    Ieri ho rilasciato una lunga intervista a un sito. L’intervistatore sapeva tutto di me, anche cose che io stesso ignoravo di me stesso. A un certo punto mi ha detto che, osservando la mia carriera, gli veniva in mente Nanni Moretti in Caro diario: “Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una minoranza di persone (..) Io credo nelle persone. Però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre d’accordo e a mio agio con una minoranza“.

    E’ un passaggio che, fino a una decina di anni fa, mi piaceva molto. Come molto mi piaceva Nanni Moretti. Poi ho capito una cosa: che quella di Nanni Moretti non era una frase dolente e malinconica, ma la rivendicazione snob di non essere stupido come la maggioranza. Non è che a Moretti spiacesse essere in minoranza: gli faceva piacere, anzi, perché esserlo equivaleva al risultare molto più intelligenti degli altri. Io, no. Quella frase mi fotografa, me come credo molti di voi, ma non la vivo certo come un vanto. Sono passati gli anni e molte “guide” della sinistra si sono rivelate sovrumani bluff. Alcune (poche, a dire il vero) scrivono in quel che resta de L’Unità, un giornale che ormai fa più schifo che spavento (cit).

    Aveva di nuovo ragione Mario Monicelli, che già ai tempi di Ecce Bombo trattava Moretti come uno che col passare degli anni avrebbe perso smalto e forza, bellezza e mordente. Molti (non tutti) dei suoi film sono invecchiati male, a differenza di quelli di Monicelli. Nanni Moretti, in Caro diario, non esprimeva un disagio: al contrario, rivendicava – e riverberava – l’antico orgasmo della nicchia. Null’altro che un vecchio mantra della “sinistra”: “Siamo uguali, ma siamo diversi”. Siamo minoranza, ma lo siamo perché migliori del volgo. Nel frattempo, oggi, quasi tutti si sono accasati nella grande casa vacua del renzismo. A conferma di quanto, al tempo, ci prendessero in giro. A conferma di come bisogna sempre diffidare degli “impegnati”, dei “massimalisti”, degli “integralisti”: è quasi sempre gente che a 20 anni dava del fascista a Battisti perché parlava “solo” d’amore e poi a 50 anni vota Monti o (peggio) Boschi. State attenti ai duri e puri: saranno i primi, col tempo, a fottervi. Fischiettando, e senza mai perdere quell’aria tronfia.

    A me non piace far parte di una minoranza, caro (sempre meno) Moretti. Non ho per niente il culto della nicchia. Mi piacerebbe che gli stadi li riempissero (per dire) Il Pan del Diavolo e non i Modà. Mi piacerebbe che ai referendum si raggiungesse il quorum. Mi piacerebbe che Roger Waters e Bruce Springsteen continuassero a fare sold out fino al 2174. E via così. Questa gigantesca masturbatio del “noi siamo pochi e quindi fighi”, fino a ieri, mi sembrava una accettabile copertina di Linus usata dai fighetto-alternativi per giustificare i loro parziali fallimenti commerciali. Ora, specie se detta da artisti come te, mi pare quel che probabilmente è: un ipocrita e furbastro mantra salottiero, perfetto per quella finta sinistra che ha abbaiato tanto per non mordere mai. Tra un Kiarostami e un Ginger ale.

    I salotti ipocriti della ?sinistra? di Nanni Moretti | L' Intellettuale Dissidente
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    Guida pratica alla riscoperta del Punk


    Prima ancora di essere genere musicale il punk è stato movimento culturale e forma di resistenza sociale.


    di Matteo Persico - 28 dicembre 2017

    artiamo da due presupposti: in primo luogo, qui non si parlerà di un genere musicale ma di una sottocultura, di una filosofia, di una scuola di pensiero. In secondo luogo, abbiamo tanta voglia di lamentarci perché il punk è in via di estinzione, assieme ai panda e alle cabine telefoniche. Il punk ormai non genera più scompiglio nei locali e nelle piazze, ma solo un profuso disinteresse in una generazione che non si è mai approcciata seriamente a questa sottocultura. Individuare i colpevoli del tracollo del punk non è poi così complicato: da una parte un altro genere musicale, il Rap/Hip-Hop, ha preso il suo posto come genere di protesta, dall’altra la stessa sottocultura punk non ha saputo riciclarsi, rinnovarsi, stare al passo coi tempi e aggiornare i propri contenuti. Perché parliamoci chiaro, una sottocultura muore quando il contenuto diviene inferiore rispetto alla forma. Quei pochi ragazzi che attualmente si avvicinano al punk non hanno dei veri e propri obiettivi rivoluzionari, si vestono come pagliacci scappati dal circo Medrano alla disperata ricerca di attenzione e forse di qualche dose. Non c’è da stupirsi quindi che la sottocultura punk stia toccando, proprio in questi anni, il punto più basso della sua parabola discendente.

    Ora voi obietterete che è facile criticare e lamentarsi senza costruire. E avete ragione. Proprio per questo non si può rimanere con le mani in mano, aspettare ancora in attesa che i germi infettino quel poco che del punk è ancora rimasto in salute. Tale guida nasce proprio per questo fine, chiarire cosa sia veramente il punk per riscoprirlo sotto una luce diversa. In generale, ha il fine di rilanciarlo dopo un periodo di depressione autoindotta che lo sta reprimendo da più di 15 anni. Procederemo per gradi, citando prima una qualità che il punk non ha, ma che spesso gli viene attribuita erroneamente dal senso comune, oppure alcune qualità che ha assunto col tempo ma che non sono corrette, poi il suo contrario, ossia ciò che è realmente o che dovrebbe essere. Mettetevi dunque comodi.

    1) Il punk non sono i Sex Pistols. Il punk è una sottocultura “complessa”
    Oggi abbiamo deciso di applicare il metodo della terapia d’urto, perciò vogliamo iniziare confutando una delle convinzioni più inossidabili di tutto l’universo musicale: il punk non sono i Sex Pistols. I quattro ragazzacci inglesi sono diventati delle icone della cultura punk e ancora oggi vengono citati, assieme ai The Clash, come i massimi esponenti di questo genere soprattutto a livello mediatico. Ma la vera domanda da porsi è: i Sex Pistols hanno fatto più bene o più male alla scena punk? La risposta è purtroppo negativa.

    Non per colpa loro, sia chiaro, ma per colpa del loro manager Malcolm Mclaren. Fu lui a creare il gruppo, andando a reclutate dei teppistelli di quartiere e mettendogli degli strumenti musicali in mano, tutto ciò per fare pubblicità al suo negozio dove vendeva materiale sadomaso.Non appena il gruppo iniziò ad ingranare Malcolm e la moglie Vivienne Westwood, una stilista molto sui generis, decisero di ideare il look del gruppo che da lì a poco divenne la moda assunta da gran parte dell’universo punk.

    Fu proprio questo l’errore imperdonabile. Malcolm trasformò un movimento che aveva già i suoi obiettivi e i suoi principi in una specie di circo, composto da personaggi dalle dubbie capacità cognitive, tossici, perdigiorno e casi umani, tutti vestiti con indumenti sadomaso, talvolta adornati da cimeli nazisti (ironia che all’epoca non molti compresero). Più che apparire come ribelli determinati a soppiantare le iniquità della società borghese anglosassone, i seguaci dei Sex Pistols apparivano più come un’armata di ragazzini in cerca disperata di attenzione e/o affetto.

    Non soggetti mossi dall’impeto del cambiamento, ma soggetti socialmente pericolosi e a tratti ridicoli: così vennero bollati molti Punkers (non tutti ovviamente) nel Regno Unito dal ’77 fino al ’79. Ma i veri problemi non riguardavano tanto la nomea che il movimento punk si era creato al di fuori di sé, i problemi grossi provenivano dall’interno: la moda fine a se stessa aveva ormai preso il sopravvento, le vere ragioni della nascita di un genere così aggressivo, rapido, sferzante e ribelle erano già passate in secondo piano, se non addirittura già dimenticate. Fu questo il vero motivo per cui l’originale movimento punk, anche chiamato Punk ’77, morì nell’arco di soli tre anni.

    Ciononostante sarebbe sbagliato ignorare o svilire il fenomeno punk, a prescindere dal prematuro fallimento dei suoi primi protagonisti. Lo abbiamo già detto prima: non è una moda, non è solo un genere musicale. È una sottocultura complessa, fatta di valori e di principi riassunti in uno stile musicale, ma da esso indipendenti. I valori rispecchiano la rabbia troppo a lungo repressa, la quale viene diretta verso due direzioni: da una parte verso la borghesia e la sua ipocrisia fatta di protocolli e formalità, contro il capitalismo e le sue ingiustizie, contro le istituzioni inadeguate e repressive. Dall’altra contro la rivoluzione del ’68, rea di non aver portato i cambiamenti promessi e non aver stravolto la società inglese. In tal senso sarebbe sbagliato incastonare il punk nella sola corrente anarchica.

    L’anarchia fu solo una deriva del punk che nella sua più profonda natura avrebbe potuto prendere decine e decine di declinazioni differenti. L’anarchia predicata, peraltro in modo molto confusionario, in lungo e in largo dai Sex Pistols non può e non deve rendere giustizia all’importanza che ebbe il manifestarsi di una sottocultura così esplicitamente rivoluzionaria nella gioventù d’oltremanica degli anni ’70: essa fu un sintomo di un’insoddisfazione ben più profonda, figlia di politiche economiche e sociali che aveva distrutto e recato danno ad una grande parte del paese, coincidente quasi del tutto con la Working Class.

    2) Il punk non è musica per “centri sociali”. Il Punk è Working Class e “fuga borghese”
    Probabilmente nessuno ha colto fino in fondo il potenziale della sottocultura punk di smuovere e animare le masse. Proprio per questa negligenza il punk sta marcendo in una piccola soffitta buia, sporca, putrida e maleodorante, altresì chiamata “cultura antifascista”. C’è poco da fare, oramai se un amante del genere vuole godersi della buona musica punk, che sia d’autore o semplicemente delle cover, deve tapparsi il naso, armarsi di tanta pazienza e recarsi in un centro sociale sfidando la logica e il parere dei medici. Piange il cuore nel vedere il contrasto interno che si è venuto a creare: è visibile una vera e propria spaccatura se si confrontano i testi delle canzoni di vecchie band anni ’70 e ’80, come i Bad Religion, i Dead Kennedys, Uk Subs oppure i Minor Threat che inneggiavano e promuovevano un certo stile di vita autenticamente anticonformista, con la realtà odierna, mix di un falso quanto inconcludente anarchismo e di un nichilismo che di nichilista non ha nulla se non l’uso di droghe per sfuggire dalla realtà. Questo è il Punk odierno, scaduto nel più becero anarchismo di sinistra.

    Lasciamo quindi per un attimo i nostri amici anarchici nei loro tuguri e chiediamoci qual è il giusto luogo in cui il punk dovrebbe manifestarsi e chi siano i suoi veri protagonisti. Il punk non nacque per un divertimento, nacque per una necessità. La necessità di gridare al mondo la rabbia per una condizione che era sempre più sulla via della degenerazione: stiamo naturalmente parlando della situazione della Working Class inglese alla fine degli anni ’70. Senza entrare troppo nello specifico vi basti sapere che i membri della Working Class di sua Maestà la Regina Elisabetta non se la passavano molto bene in quegli anni. Forte disoccupazione, salari minimi, politica economica caratterizzata dal liberismo reazionario sfrenato della Thatcher.

    È un dato di fatto che tra la Thatcher e i membri delle classi inferiori non scoppiò mai l’amore. In questo contesto si affermò il punk, non solo come valvola di sfogo per i giovani ribelli, ma anche e soprattutto come cassa di risonanza mediatica per far risaltare le richieste delle classi lavoratrici. Tutto ciò venne poi in parte ripreso anche dall’ Hardcore Punk americano di inizio anni ’80 (seppur con le dovute distinzioni, poiché spesso nell’Hardcore Punk i testi si limitano a presentare una generica misantropia). Sempre in Inghilterra, proprio per il carattere affine con le istanze della Working Class, il punk venne assunto come genere ufficiale da gran parte dei gruppi Skinhead di tutte le fazioni politiche. In questo modo nacque il genere Street Punk e soprattutto il genere Oi!, ancora oggi molto in voga solamente (purtroppo!) nei movimenti di estrema sinistra e destra. Tuttavia nei gruppi punk non militavano solo i membri delle classi meno abbienti. Partecipavano anche i così detti “borghesi in fuga”, ossia giovani appartenenti alla classe borghese che non si sentivano a loro agio nel vestire i panni del classico ragazzo di buona famiglia. Ragazzi che volevano respirare aria nuova in un ambiente nuovo, un’aria di ribellione, di anticonformismo, immersi in un nuovo genere musicale adrenalinico.

    Cosa ci deve insegnare questa lezione? Innanzitutto, come abbiamo visto prima, il punk non è solo per i finti anarcoidi ma anzi nasce da una costola della Working Class. In secondo luogo, contrariamente a quanto si pensa, il Punk è un genere per tutti. Ma davvero tutti. Non esistono, anche se qualcuno ce l’ha fatto credere, limitazioni di tipo classista nel punk. Chiunque, operaio o borghese, anarchico o fascista, bello o brutto, rozzo o acculturato, biondo o bruno può partecipare alla “grande festa” del punk, purché ne condivida i valori di base.

    3) Il punk non è utopia. Il punk è Praxis
    Più volte il punk è stato accusato di essere stato “socialmente” inconcludente, di essere nato da presupposti utopici ed aver fallito in tutte le sue promesse. Mai falsità fu più grande. Riprendiamo le nozioni di Praxis e Utopia così come le aveva teorizzate Antonio Gramsci (filosofo che con il punk non c’entra naturalmente nulla ma che può aiutarci nel superare certe false accuse): il movimento punk è stato, se così vogliamo definirlo, uno dei movimento giovanili che meglio ha incarnato la nozione di Praxis in opposizione all’utopismo di una certa sinistra. Il punk ebbe molto successo proprio perché, a differenza di altri che promuovevano progetti utopici a lungo termine sul riscatto della classe lavoratrice, offriva invece una via d’uscita estremamente pragmatica, incentrata tutta sull’agire. Non c’erano grandi utopie dietro le richieste dei Punkers: “vogliamo i nostri diritti e li vogliamo subito!”, questa era l’unica richiesta, l’unico progetto da concretizzare.

    Smuovere l’opinione pubblica con l’aggressività di chi non ha più molto da perdere e con “l’istinto finalistico”, ossia l’istinto libero di sfogarsi attraverso la musica ma indirizzato all’ottenimento di un fine superiore. Questi erano i mezzi che il punk aveva a disposizione. Purtroppo, come ogni movimento spontaneo senza alle spalle una base teorica forte, la sottocultura punk finì per sgretolarsi in una infinità di fazioni, ciascuna con posizioni diverse. Il fallimento politico su larga scala e a lungo termine del punk come sottocultura non deve però trarci in inganno: le premesse non vennero tradite. Il movimento ottenne nell’immediato quello che voleva, ossia caos e ribellione, rivoluzione dei costumi e apertura da parte delle classi reazionarie (la quale giunse negli anni ’80). Insomma, le istanze di quei Punkers che non volevano solo spaccare tutto senza un perché (vedi Anarchy in the Uk dei Sex Pistols) ma invece volevano ottenere qualcosa di socialmente utile, vennero in parte soddisfatte.

    4) Il punk non è grunge. Il punk anni ’80 e ’90 è nausea della globalizzazione
    Riteniamo che questa sia una distinzione doverosa. Spesso infatti i due generi vengono non solo confrontati fra loro e sovrapposti, ma addirittura confusi. Se qualche vostro amico dovesse sostenere che i Nirvana e gli Alice in chains fossero gruppi punk o derivati dalla tradizione punk, sarebbe giusto punirlo corporalmente. Un errore del genere è imperdonabile, non tanto dal punto di vista musicale dove le differenze sono già evidenti (basti pensare, ad esempio, alla differente velocità del ritmo), ma soprattutto a livello culturale. Il grunge nacque in un periodo diverso (gli anni ’90) e in un contesto diverso: una fase in cui i giovani, i ragazzi nati nella Generazione X, sentivano di dover esprimere il loro odio incondizionato verso ogni forma di vita esistente sulla faccia della terra e dell’universo umanamente conosciuto. Il grunge aveva visto nascere le proprie radici dall’insofferenza esistenziale di una intera generazione persa nel nichilismo.

    Dal canto suo anche il Punk tra gli anni ’80 e l’inizio anni ’90 subì notevoli trasformazioni: gli obiettivi contro cui erano dirette le critiche non erano più i governi reazionari dei singoli Stati, ma le nuove iniquità nate dalla globalizzazione e dal turbo-capitalismo delle multinazionali. Il sentimento di nausea percepito aumentò a dismisura, tanto da rendere nemico dichiarato del punk praticamente ogni istituzione esistente: dagli Stati nazionali, alle grandi aziende e gli industriali, dalla religione fino al mondo accademico e scientifico, nessuno era più al sicuro. Tutti erano bersagli della rabbia di una sottocultura che nell’ultimo decennio aveva visto moltiplicarsi, invece che diminuire, i propri nemici. E’ dunque evidente come il pensiero sotteso al genere grunge risulti incompatibile con quello del punk anni ’80 e del Revival Punk anni ’90. Mentre il primo era approdato ad una rabbia più di tipo privato ed esistenziale, il punk, nonostante i cambiamenti che nell’ultimo decennio si erano avvicendati, era sempre rimasto ancorato ad una dimensione più politica e di rilancio sociale. Bisogna tuttavia ammettere che anche nel punk si acuì la componente nichilistica, sebbene ciò non sia da imputare ad un reciproco condizionamento tra punk e grunge, quanto piuttosto ad una tendenza comune a molti giovani di quel periodo.

    5) Il Punk non è morto, perché il Punk è un sentimento trasversale
    Quante volte avete sentito la frase “Punk is not dead”? Più o meno tutti coloro che sono rimasti affezionati al genere la ripetono dal giorno alla notte, con leggerezza, senza troppa convinzione. Sarebbe certamente più indicato, invece di ripetere continuamente un mantra solo per auto-convincersi che il punk non sia morto, ammettere l’inevitabile: il punk se non è ancora morto è quanto meno in prognosi riservata, rannicchiato su un lettino aspettando che qualcuno stacchi la spina. Noi invece vogliamo fare qualcosa di ancora diverso: vogliamo affermare che effettivamente il punk non è morto e vogliamo affermarlo con cognizione di causa.

    Arriviamo quindi al termine della nostra guida, concludendo con l’argomento sicuramente più pregnante che riguarda il punk: perché il punk non è morto? La motivazione risiede nel carattere trasversale del sentimento che è al suo fondamento. Non solo, come ricordavamo prima, i valori del punk possono essere condivisi da tutti a prescindere dall’estrazione sociale di ciascuno, ma essi trascendono anche i singoli contesti e le generazioni. In altre parole, la trasversalità del punk si incarna nel sentimento di ribellione verso tutti sistemi imposti, nella volontà di de-costruire (nel senso post-modernista del termine) mattone per mattone tutti i costrutti sociali ritenuti inadeguati. Tale volontà trascende il contesto sociale e storico del momento, si ripete ciclicamente di generazione in generazione innescando nuovi attriti tra, citando nuovamente Gramsci, apparato egemonico e opposizione, in una infinita dialettica del contrasto.

    Finché ci saranno opposizioni, finché ci saranno elementi non allineati con la struttura egemonica, finché ci sarà lo scontro tra reazione e progresso allora ci sarà anche il punk. Vediamo di farla ancora più semplice: finché ci saranno ragazzi che si sentiranno rigettati dalla società, che prenderanno in mano degli strumenti, si chiuderanno in un garage o in una cantina e urleranno in un microfono tutta la loro rabbia, allora ci sarà il punk. Perché, alla fine di tutto, il punk nasce da questo, da ragazzi in un garage con poca abilità nel suonare ma con tanta rabbia da esprimere. Perché solo riscoprendo le proprie origini il punk può ritornare dove merita: sui palcoscenici o per le strade, a dare voce a chi ne ha bisogno, a dare voce a chi voce non ne ha.

    Guida pratica alla riscoperta del Punk | L' Intellettuale Dissidente
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

 

 
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