Congresso fondativo del PDL
Oggi il popolo, domani un partito
Riflessioni sul nuovo centrodestra italiano
Da pochi giorni si è concluso il Congresso fondativo del PDL, evento di grande importanza per la politica italiana e in particolar modo per l'area di centro-destra. Gli organi d'informazione hanno dato largamente conto di quanto è successo e svariati commentatori ne hanno analizzato da diverse prospettive i momenti salienti. Chi scrive, pur non essendovi stato presente fisicamente, ha potuto seguire quasi integralmente il Congresso in audiovideo attraverso Internet e deve ammettere di essere rimasto soddisfatto da un appuntamento che poteva limitarsi ad un'autocelebrazione (cosa che in buona parte è stato, com'era d'altronde giusto) e che invece ha dato luogo a riflessioni, analisi e posizioni sfaccettate a cui personalmente non avevo mai assistito durante i congressi di FI e AN.
Si parla molto del PDL come di un partito carismatico e certamente questa definizione gli si addice, tuttavia il congresso in questione ha manifestato una voglia di politica da parte della classe dirigente che se non a parole, sicuramente nei fatti, supera l'era del Partito-Azienda per aprirne una nuova di cui si sono già intravvisti alcuni confortanti aspetti.
In primo luogo, Gianfranco Fini. Come hanno detto in tanti, pur con accenti diversi e da linee contrapposte, il tono al dibattito e buona parte dell'interesse suscitato in chi l'ha seguito è ascrivibile alla persona di Fini e alla sua magnifica oratoria, arte nella quale probabilmente non ha eguali in Italia. Si può condividerne in toto o solo in parte il discorso, ma non si può non riconoscerne la visione prospettica; rimarchevole oltretutto l’abilità con cui Fini è riuscito a impadronirsi di una platea in buona parte lontana dal suo mondo di riferimento.
Pur essendo stato in passato (e per certi versi lo sono ancora oggi) ostile ad una certa visione social-nazionale e insieme tecnocratica che caratterizza il profilo dell'ex campione della destra, confesso di essere rimasto rapito, affascinato e a tratti persino soggiogato da quella magnifica retorica che riusciva a comunicarti una vision della politica nazionale, di una politica modernamente conservatrice, ben più ricca e articolata dell'apologia del fare e dell'esperienza governativa propostaci da Re Silvio.
Intendiamoci, Berlusconi è un fuoriclasse del mezzo catodico e non c'è dubbio che i suoi discorsi, mai sembrati così poveri di contenuti e perfino stucchevoli in un anticomunismo piuttosto di maniera (citare Stalin, Mao e Pol Pot è stato davvero ingeneroso per il PD e anche piuttosto stupido perchè così facendo si continuano a sottacere i disastri assistenzialisti dei partiti socialisti e laburisti del dopoguerra), cosicchè è probabile che filtrati dalle tv e presso un’audience spoliticizzata abbiano ottenuto l'effetto desiderato. Tuttavia, al sottoscritto è sembrato, e forse per la prima volta, che Re Silvio arrancasse nel seguire Fini in un territorio non suo, ovvero quello della politica. Berlusconi si è confermato quello che è e che sempre sarà: un imprenditore che si è prestato alla politica e che vorrebbe oggi modellarla a sua immagine e somiglianza. Niente più ideologia, ma forse nemmeno più partiti, parlamento, giornali, pubblica opinione. Un governo che governa (bene), senza opposizione perchè inadeguata e/o totalmente delegittimata, la stampa amica ridotta pressocchè al ruolo di claque, una pubblica opinione istigata a de-politicizzarsi.
Il commentatore dell'Economist John Hooper ha ribadito ad Otto e Mezzo la sua nota convinzione che Silvio Berlusconi rappresenti un problema (o addirittura un pericolo) per il suo populismo, per il suo qualunquismo antipolitico. E ha sottolineato abilmente come la sua scelta di rappresentare un popolo piuttosto che una fazione manifesti tutta la sua lontananza dalla politica e lo spregio per i partiti comunemente intesi. A differenza di Hooper non credo che questa evidente anomalia rappresenti un rischio democratico per l’Italia, tuttavia il mio essere conservatore mi impedisce da sempre di annoverarmi tra i fans del Cavaliere. Infatti, pur dovendo riconoscere che Berlusconi ha finora ottenuto con la sua azione di governo dei buoni risultati, la maniera con la quale si è arrivati a questi (e mi riferisco a quanto è accaduto nel corso degli anni e non già a quanto accaduto negli ultimi mesi) fa davvero rabbrividire chi non è ottenebrato dalla partigianeria politica ed ha un minimo di rispetto per le regole condivise.
Purtroppo - e qui la stampa estera colpevolmente sembra glissare - l'anomalia Berlusconi si inserisce in una più ampia e problematica anomalia-Italia, un Paese dove i problemi sono molteplici, atavici e per giunta concatenati. Berlusconi è riuscito - complice un'opposizione non meno colpevole e interessata anch'essa ai propri interessi di bottega - a far dimenticare agli italiani che un governo non può essere giudicato solo dai risultati conseguiti e che la logica del fare (pure degnissima di lode in un Paese dove si è sempre fatto davvero poco) non può azzerare tutto il resto.
Eppure durante l'ultima incoronazione e l'acclamazione di una leadership apparentemente incontrastata, c'è qualcosa che ha stonato rispetto a ciò che era previsto in agenda e che poi ha costituito il sale del congresso.
Abbiamo detto di Fini, capace di parlare e raccogliere ovazioni al di là dei soliti noti (Ronchi, Urso, Mellone), dal drappello socialista che gridava a lui: Bettino, Bettino, agli ex-radicali di Della Vedova, passando per tutta l'ala laico-liberale, Alfredo Biondi in testa. In questa sua inedita capacità di rivolgersi a più componenti del PDL e non solo alla vecchia riserva di voti aennini si è manifestata la caratura di questo vero leader.
Su quello che Fini ha detto nello specifico bisognerà riparlarne in una prossima occasione: tanti e veramente importanti gli argomenti posti all’attenzione. Il punto qui d’interesse è che grazie a Fini e non solo a lui il dibattito – malgrado Berlusconi - è riuscito ad acquistare un’inedita dimensione politica. E dicevamo, fortunatamente, non solo grazie a Fini.
Il congresso del neonato PDL è stato caratterizzato dalla buona qualità degli interventi e per alcune performances di notevole spessore. In primis il ministro Renato Brunetta, accolto come autentica star, che non ha deluso le aspettative col solito piglio battagliero e la sua linea liberale; Roberto Formigoni, propostosi come altenativa ciellina a Fini per la successione di Silvio e fustigatore della Lega ha ben impressionato; a mio avviso degna di nota anche Mara Carfagna, la quale nonostante abbia dovuto intervenire dopo Formigoni se l’è cavata benissimo dando dimostrazione di essere una personalità politica di rilievo e in ascesa nonostante il suo passato di starlette televisiva; la giovane Giorgia Meloni ha mostrato intraprendenza e genuinità ed ha ottenuto un meritato successo personale. Forse chi ha deluso maggiormente le aspettative è stato Giulio Tremonti, il cui breve intervento non passerà certo alla storia e la cui statura di possibile leader è uscita ridimensionata decisamente dal confronto con altri pretendenti.
In chiusura, una sottolineatura positiva per l’immagine fresca e giovanile mostrata dal neonato partito. Ancora una volta il fiuto mediatico di Berlusconi intenzionato come non mai a puntare sui giovani e sulle donne si è dimostrato vincente. Se doveva dare una buona impressione in tv, questo Congresso l’ha data. Ma per la prima volta, come si è detto, i contenuti politici non sono stati da meno.
Mr. Right