L'Spd e la crisi della socialdemocrazia tedesca - micromega-online - micromega


Quando nel 2003 Gerhard Schröder, cancelliere federale tedesco, annunciò al Bundestag l’intento di trasformare radicalmente lo stato sociale tedesco, poi concretizzatosi nella famosa Agenda 2010, richiamò una necessità 'storica': o ci avrebbe pensato la Socialdemocrazia o lo avrebbe fatto il mercato. Si tratta(va) di una formula logora, per quante volte sia già stata usata, ma ha (aveva) il merito di chiarire il senso della definizione che, da quel momento, viene attribuita alla SPD: una Marktsozialdemokratie, socialdemocrazia di mercato, meglio conforme al mercato. Negli anni successivi la SPD non ha più ritrovato una sua autonomia e per ben due volte ha dato vita a governi di Grande coalizione e, mentre scriviamo, prepara una, ormai data per certa, terza alleanza con i conservatori. Nel frattempo il partito ha perso iscritti (circa la metà), elettori, egemonia e autorevolezza nel paese e, complice il tracollo delle altre socialdemocrazie, in Europa.

Per ripartire, Andrea Ypsilanti, autorevole dirigente della SPD, ha provato a sintetizzare in un libro (Und morgen regieren wir uns selbst) le proposte che da anni una fondazione di Francoforte sul Meno, Institut Solidarische Moderne, sta elaborando con esponenti di tutto il campo progressista tedesco. Ypsilanti avrebbe potuto guidare nel 2008 il primo Land con un governo rosso-rosso-verde ma la decisa contrarietà dei vertici nazionali della SPD mandarono in fumo il progetto.

E, dunque, da dove ripartire? Da una nuova egemonia politica e culturale da costruire nella società. Indispensabile è un rinnovamento (Erneuerung), innanzitutto del partito e nel partito, il cui ruolo va riscoperto, reso nuovamente democratico e adattato ai tempi: non è una legge di natura, ad esempio, la riduzione dei partiti a luoghi di incoronazione di presunti leader.

Va anche ricordato che Ypsilanti auspica, certamente non nel brevissimo periodo ma come prospettiva autentica, una riunificazione delle forze politiche che si richiamano al movimento dei lavoratori e, quindi, della SPD e della Linke.

Ma è sul fronte progettuale che intendiamo soffermarci. Perché un cambio di cultura politica sia possibile, occorre evitare rapide scorciatoie: la vittoria del neoliberalismo (progressista, che Ypsilanti riprende dalla versione di Nancy Fraser) a partire dalla fine degli anni settanta, ci consegna un mondo nuovo e le prospettive tecnologiche rendono vana l’idea di un ritorno al welfare costruito in base all’economia sociale di mercato e modellato sui bisogni e le sicurezze del capitalismo renano: è innanzitutto la biografia del lavoro salariato ad essere completamente mutata. Sono emerse nuove figure sociali, nuovi bisogni e più pervasive forme di sfruttamento e precarizzazione nell’organizzazione del lavoro. E le riforme di inizio millennio hanno introiettato nei lavoratori e nelle lavoratrici i parametri ideologici del neoliberalismo: se finisci per dover chiedere aiuto allo Stato, se non trovi un buon lavoro, è, in fondo, esclusivamente colpa tua.

Come se esce? Partendo dal mondo del lavoro, dalla sua centralità per un partito socialdemocratico con l’obiettivo di liberare energie dalla schiavitù del lavoro contemporaneo: se il progresso ci conduce a una sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, allora questo progresso va universalizzato e umanizzato. Deve, cioè, essere utile a uomini e donne, lasciare loro il tempo (divenuto il vero lusso di questa fase storica) per fare altro, godere di più libertà, ad esempio, partecipando al volontariato, ad attività culturali e persino progettando nuove imprese e affari. Mai come in questa fase del capitalismo le forze produttive sono state così sviluppate e le possibilità tecnologiche così grandi, tuttavia è aumentata la disoccupazione, i bassi salari sono divenuti una regola ed è cresciuta la necessità per uomini e donne di dover lavorare sino all’esaurimento.

La riduzione dell’orario di lavoro è, dunque, una questione centrale per poter immaginare un impero della libertà e che, sin da subito, va preparata e discussa con i sindacati, che restano decisivi per le proposte formulate nel saggio di Ypsilanti, e con le imprese. E contribuisce ad aprire un dibattito necessario per la socialdemocrazia tedesca, che è per la stragrande maggioranza sempre stata su posizioni lavoriste: un approccio comunque in crisi, come dimostra il recente dibattito, purtroppo esaurito con la scelta della Grande coalizione, sulla Bürgerversicherung, una assicurazione sanitaria universale e non più legata esclusivamente al salario.

Ma se il tempo di lavoro diminuisce, perché possano davvero essere liberi, uomini e donne devono aver accesso a un reddito di base senza condizioni. Di fronte alla capacità del neoliberalismo di mettere a lavoro gli individui costantemente, superando la classica divisione tra tempo di lavoro e riposo (nella lingua tedesca la parola Feierabend che sancisce la fine del lavoro e ricorda la dimensione 'sacra' di questo momento, è oggi quasi in via di estinzione), Ypsilanti, con coraggio visto l’attuale dibattito nel suo partito e nella società tedesca, suggerisce l’ipotesi di lavorare di meno per essere, finalmente, più liberi.

Ma, terza questione, per evitare equivoci (leggi: interpretazioni neoliberiste e lavoriste) sulla natura di questo strumento, Ypsilanti suggerisce, quale terza colonna del suo rinnovamento, la questione delle infrastrutture del sociale (scuole, università, ospedali, strumenti culturali e quello che oggi ricade sotto il nome di intrattenimento, persino l’acqua e l’energia, la cui sottrazione al mercato e integrale ri-pubblicizzazione costituisce la base di una indispensabile svolta ecologica) che andrebbero democratizzate e potenziate, anche grazie a nuovi modelli organizzativi, statalizzazioni, certo, ma anche cooperative e imprese comunali.

Rifacendosi direttamente a Gramsci, Ypsilanti definisce tutto questo una politica radicale di riforme: si tratta di un programma che non mira a una totale abolizione del mercato o alla ridefinizione delle istituzioni politiche democratiche (semmai di un loro potenziamento) come nella migliore tradizione di quello che può chiamarsi il socialismo democratico e che in Germania, pur essendo radicato da sempre, per storia e tradizione, nella natura della maggioranza del movimento sindacale e dei lavoratori, nasce a Bad Godesberg nel 1959.

Ma la radicalità consiste nella messa in discussione dei presupposti del capitalismo neoliberale: di fronte a una massa di individui sfruttati e precarizzati, perennemente in lotta l’uno con l’altro, Ypsilanti ritiene che una socialdemocrazia, non più di mercato ma della trasformazione, debba valorizzare la possibilità di usare il progresso per assicurare più libertà, per soddisfare bisogni, per dare a uomini e donne la possibilità di autodeterminarsi pienamente.

Questo approccio sceglie anche di rompere radicalmente con proposte di un populismo di sinistra, in Germania incarnate, tra i tanti, da Oskar Lafontaine: non si tratta di rimpiangere le vecchie forme di protezione sociale o di speculare, come fanno le nuove destre, sulle trasformazioni che hanno cambiato e cambieranno le nostre vite. Quanto di riscoprire la lotta verso la concentrazione della ricchezza, le macroscopiche ingiustizie sociali e lo sfruttamento sempre più pervasivo dei lavoratori: una nuova lotta di classe, riadattata ai nostri tempi.

Delude, ma forse siamo eccessivamente critici, il testo a proposito dell’Europa: Ypsilanti, partendo da una suggestiva immagine di Camus, suggerisce un Europa mediterranea contro l’austerità tedesca. La proposta è, effettivamente, debole ma, cosa più grave, rischia di scavare un ulteriore solco nel continente, che non ha bisogno, nemmeno in termini di critica, di nuove argomenti alla tesi dei mediterranei (i latini, come ha detto, partendo da altri presupposti, Agamben) versus i tedeschi. Meglio sarebbe provare a raggiungere nuovi accordi, nuove mediazioni più elevate per avviare la trasformazione del continente.

Ma tutto ciò fa parte di un altro libro: quello attuale meriterebbe una traduzione italiana, anche per favorire la comprensione tra i nostri due paesi, mai così limitata come in questi ultimi anni.

(16 febbraio 2018)