Postato da: Fiorenzo Cateriniil: gennaio 17, 2018In: Caterini, SardegneNessun commentoStampaEmail

Avrà forse ragione Giorgio Todde a dire che la Sardegna è popolata da infantili mitomani, buoni per un lettino da psicanalista (La Nuova Sardegna, 2 gennaio 2018). E dobbiamo dunque accettare quanto dice, tra le altre, l’Enciclopedia Treccani, che “L’espansione cartaginese in Sardegna non incontrò forti ostacoli da parte di una popolazione indigena arretrata e abbastanza disinteressata alle ambizioni commerciali dei Fenici” (pagina Fb di Nurnet, che ha attivato una raccolta di firme per la rettifica). Oppure arrenderci a quello che dice la ponderosa enciclopedia Utet (per La Biblioteca di Repubblica), altra grande prestigiosa casa editoriale, ovvero che il termine nuraghe deriva dal dialetto nuorese “nurra” e che secondo la leggenda uno spagnolo avrebbe fondato la città di Mora?
Tutta mitomania di un popolo di poveracci, di inadatti e insufficienti al mondo che ci sta attorno?
Il fatto è che molta della letteratura storiografica nazionale, quasi tutta, e spesso la più autorevole, quando raramente dice qualcosa sulla civiltà nuragica, molto spesso, sbaglia.
Ma sbaglia sempre, chissà perché, nello stesso verso.
Dalla letteratura storiografica nazionale, le semplificazioni e le manipolazioni passano poi sui libri di testo, dove si formano generazioni di studenti e dove si imposta la mitologia storica della nazione. L’antica storia nuragica e tutto il resto sardo scompare, e quel poco che viene, per obbligo storiografico, detto, viene manipolato in modo da sembrare una arrampicata imbarazzante sugli specchi.
Insomma qui, secondo me, si tratta di negare che in Sardegna, molto semplicemente, esista un problema storiografico. Che non è mai stato studiato, fino ad ora, dagli intellettuali organici e/o integrati, tutti presi a fare le pulci alla mitopoiesi e alle dinamiche identitarie.
E così aggiungiamo anche Todde alla lunga schiera di coloro che mescolano nella brodaglia della mitopoiesi, come fanno in tanti nei convegni sull’identità o nella difesa ad oltranza della storiografia conservativa, miti a fatti storici effettivamente esistiti.
Prendiamo ad esempio il caso concreto del rapporto tra Sardegna nuragica ed Etruria. Se anche fosse azzardato sostenere che gli etruschi siano sardi scampati ad un maremoto, cosa peraltro frutto di una inchiesta giornalistica di un giornalista che di sardo ha solo il padre e il cognome, che dire di quel libro di testo liceale, diffuso in tutta Italia, che oscura la storia nuragica titolando “La prima civiltà italica è quella Etrusca”? Ebbene, per quanto inverosimile sia la prima ipotesi, quella del maremoto, almeno non è una falsità conclamata come quelle che, a iosa, si leggono nei libri di testo scolastici di ogni ordine e grado, e formano culturalmente le generazioni. Gli effetti sociali di un libro per lettori di genere e un libro di testo non sono paragonabili. E se è inverosimile la prima ipotesi, è anche vero che, come si suole dire quando si dice che la verità sta nel mezzo, è ormai dai tempi di Pallottino, dagli anni ’50, che si discute dell’influenza della civiltà nuragica nei confronti di quelle etrusca. Nel frattempo i conservatori della storiografia sarda ancora insistono con cose ormai scientificamente superate, tipo sardi che non navigavano, o nuraghi fortezza con soldati dentro in perenne guerra civile, e altre menate che non vale la pena di riportare.
Ma allora qualcosa non torna. Perché qui si è giocato pesante, con la storia sarda. C’è tutto il peso dei condizionamenti storiografici derivanti dalla nazionalizzazione culturale, del “fare gli italiani” all’interno dei confini amministrativi. Lingua e storia sono le prime cose che uno stato – nazione decide di uniformare. Poi ce ne sono anche altri di condizionamenti, economici e politici, che premono sulla storiografia, ma specialmente sulla declinazione sociale degli esiti scientifici, che in Sardegna paiono dover superare forche caudine di un inesorabile e costante revisionismo. Un processo di ricostruzione storica che non è neutrale. I condizionamenti economici, sono da indagare con gli strumenti di metodo degli studi post-coloniali; quelli politici, con l’analisi delle dinamiche tra nazioni e minoranze etniche o anche semplicemente località eccentriche all’interno dei confini nazionali.
E in Sardegna, forse più che altrove, dove c’è questo pendolo che oscilla in continuazione tra complessi di inferiorità e complessi di superiorità, tra mitomanie e mitofobie o, come diceva Placido Cherchi, tra etnocentrismo difensivo e vergogna di sé, ci si dimentica che prima di indagare gli effetti, occorre indagare le cause.
Qualunque società, qualunque comunità di popolo, se privata della sua storia, si ammalerebbe di alienazione, o resterebbe disorientata, come un uomo senza memoria.
Siamo sospesi, come comunità alla quale per una via o per l’altra si appartiene, su una impercettibile linea chiamata presente, che si sposta gradatamente in avanti, e mette fieno in cascina, mette passato in pentola. Ma il passato è memoria, dunque ricostruzione. Quindi presente, considerazione di quello che siamo, e passato, considerazione di quello che siamo stati, interferiscono tra loro, si mescolano, creando una cosa che prende il nome di destino condiviso, ovvero di futuro. La direzione che prenderà il futuro, dipenderà molto dalla ricostruzione del passato. Ecco perché le nazioni si fondano su una bella e crassa retorica storiografica. Ogni comunità di popolo, ogni nazione, infatti, ricostruisce la sua storia mescolandola col mito.
Si è soliti dire che la lingua non è altro che un dialetto con un esercito dietro. Ecco, parafrasando il detto, possiamo dire che la storia non è altro che una mitologia con un esercito dietro.
Unificare la storia, impastandola con il mito, unifica il sentimento nazionale. Il mito, come spiegava Levi -Strauss, altro non è che un codice comunicativo che unifica il sentimento nazionale su un linguaggio più semplice. La retorica nazionale, che illumina le vittorie e oscura le sconfitte, sostiene l’autostima collettiva, che non basta mai in un popolo, e la fiducia nel futuro.
Quindi, la considerazione del nostro passato, riduttiva e negativa, è un danno. Lo sanno bene tutti coloro che hanno studiato il costituirsi degli stati – nazione. Allora si che ne vediamo di bella retorica, di bella mitopoiesi, da Romolo e Remo a Giovanna d’Arco ai Cavalieri della Tavola Rotonda all’Oro del Reno, altro che shardana ed Eleonora d’Arborea.
Tuttavia, quello che in tutto il mondo è normale, in Sardegna viene considerato patologico.
Ho definito “mitofobia” questo generalizzato quanto assurdo atteggiamento della maggior parte degli intellettuali sardi. Da dove deriva questo atteggiamento?
Eh, avendo spazio, in questo articolo, ci saremmo divertiti. Ma ho già sforato. Rimando perciò al capitolo che ho dedicato a questo fenomeno nel mio studio sul problema storiografico sardo (La Mano Destra della Storia, Carlo Delfino Editore).
Qui possiamo dire, solamente, che il mito, che da sempre e dappertutto si mescola normalmente con la storia, è monopolio di Stato. E’ una esclusiva, come la riserva penale in capo allo stato, come il tabacco, come l’esercito e la moneta. Quindi alla Sardegna non è data mitopoiesi, perché non gli è permesso il “nation building”.
Ora, al termine di questo cenno, vorrei dire una cosa un po’ brutale. Che se volessimo ragionare sul nostro futuro, come sardi, come Sardegna, come nostri e vostri figli, ci troveremo la strada sbarrata dalla dipendenza nei confronti di modelli economici di importazione, fondati prevalentemente sul mero sfruttamento delle risorse e il consumo del territorio. Ma questi modelli di sviluppo, che di sviluppo ne hanno portato poco, sono giunti grazie a centri egemonici di potere e ad una propaganda tendente, da sempre, dall’epoca piemontese fino ai piani di rinascita e fino ad oggi, a recidere il legame con le tradizioni popolari, con la memoria storica, con i rigurgiti mitologici, con il territorio, con quell’altra cosa che ormai si cita solo per criticarla, l’identità. E quando c’è stato da scegliere tra modelli di sviluppo esterofili, come l’industria pesante, energivora ed inquinante, e le vocazioni tradizionali, quei centri egemonici di potere, sempre loro, hanno indirizzato le scelte. Ci sarebbe ora da aprire un discorso su come funziona il sistema mondo e il rapporto tra aree economiche forti e meno forti, e su come le aree più forti non solo condizionano il corso dell’economia delle aree economicamente più deboli, ma anche la loro storia. Rimando, anche in questo caso e mi perdonerete, per non farla lunga, al citato libro, agli studi post-coloniali e dell’antropologia dinamista francese.
Qui preme evidenziare solo questo: che i flussi finanziari producono flussi culturali. Vanno a braccetto. In Sardegna, perciò, nel dopoguerra, tutto quello che è “antropologia” (avrete sentito parlare di “catastrofe antropologica”, per dirla con Manlio Brigaglia) finisce per essere spazzato via, e nasce quell’idea, perniciosa, che tutto, in Sardegna, debba essere importato da fuori. Un’idea che, proiettata all’indietro nel tempo, si infiltra nei meandri della produzione storiografica creando quel curioso fenomeno dell’esteromania storica sarda. Tutto deve essere importato da fuori, perché dev’essere sempre stato così. Quindi, anche la storia si deve adeguare. Anche la storia, ricostruita, deve parlare di modelli di sviluppo da sempre, fin dall’epoca nuragica, importati da fuori.
Ecco che si manipolano, così, i secoli a mazzi, per riportare i fenici e chissà quant’altri all’indietro nel tempo, e i sardi nuragici scompaiono, sostituiti dal sostantivo generico “indigeni”.
E magari gli indigeni non ci stanno, si struggono senza storia, senza passato e senza memoria, ed è per questo che poi Todde, questi poveracci di sardi, li vorrebbe nel lettino dello psicanalista.
Il modello di sviluppo di importazione, dunque, distrugge la storia ma non solo, distrugge anche l’ambiente. Rifugge le alternative. Lo sviluppismo, lo definisce Todde, questo modo di fare politica economica in danno all’ambiente. Bellissima definizione. Però è proprio la logica dello sviluppismo che impedisce alla località di avere tanto un ambiente quanto una storia, una cultura, una lingua propria. La logica è la stessa, che disbosca le foreste e disbosca la memoria, che cancella la storia e deturpa il paesaggio.
Eh, se non fosse esiguo lo spazio di questo articolo, vi avrei potuto raccontare di come la storia assuma, in determinate circostanze, la caratteristica dello strumento di dominio e di potere. E di come e quanto possa essere, d’altro canto e in un certo senso, eversiva e alternativa alla dittatura del presente. Un presente che diventa pervasivo, quando si impadronisce della storia. E’ certificato e certo: è sempre stato così, la Sardegna è povera e disgraziata, da sempre.
E così un semplice seme di vite, o di melone, può diventare eversivo, se si scopre che ha oltre tremila anni, quando ancora i fenici non bazzicavano manco alla lontana, da queste parti. E allora quel seme di vite, o di melone, diventa metastorico, e viene così deviato nell’anticamera della scienza. Facciamoci due risate, su questi sardi e sui loro semi di vite e di melone, buttiamola in mitopoiesi, buttiamola in caciara.
Mi piacerebbe un giorno che uno studio, di quelli pragmatici, di quelli che fanno gli americani, possa quantificare in moneta sonante l’incalcolabile danno economico provocato da questa concezione riduttiva della storia sarda. Il mancato introito pubblicitario, per dirlo all’americana e restare, così, su di un piano anaffettivo e spassionato, provocato dalla negazione a milioni di studenti e di lettori, in Italia e oltre, della conoscenza e della corretta considerazione di una storia che ha prodotto monumenti antichi che, a dire da chi li ha conosciuti, magari a sorpresa calando dal “continente”, sono tanto misconosciuti quanto sensazionali. Perché, almeno questo possiamo dirlo senza scomodare la vergogna di sé e Placido Cherchi, primati o non primati, non è che la miniera d’oro archeologica, per limitarci a questo, su cui siamo seduti sopra, sia inferiore per storia, importanza scientifica, stato di conservazione e suggestione a monumenti che altrove portano ricchezza a palate, indotto e posti di lavoro.
Solo che altrove, quella storia e quei monumenti, sono conosciuti. Da noi, fuori dai nostri confini marini, una parte importante e fondamentale della storia antica del Mediterraneo, sembra sprofondata nell’abisso dello scetticismo, della vergogna, e della mitofobia.
Nella foto, un libro di scuola degli anni ’60. Sito internet di Nurnet


La mitofobia dei sardi organici e integrati. (di Fiorenzo Caterini). - SardegnaBlogger