Ma sono davvero esistite le «quattro giornate di Napoli»?

A forza di ripetere una menzogna, si finisce per farla passare per una verità: questa antica massima dovrebbe essere tenuta sempre presente dai cultori di una storia patria agiografica e autocelebrativa, fatta di mostri sacri e di sacre memorie.
Le cosiddette quattro giornate di Napoli, per esempio.
Sarà per il film omonimo di Nanny Loy, del 1962; sarà perché gli storici della Vulgata democratico-resistenziale hanno voluto vedervi una delle pagine più belle e gloriose della lotta contro il “tedesco invasore” (ossia di quello che, fino a pochi giorni prima, era l’alleato prezioso, che si era prodigato nella difesa della nostra Patria); sarà, anche, per l’assonanza con le “cinque giornate di Milano” di quarantottesca memoria: sta di fatto che nessuno, nell’odierno establishment culturale, sembra essersi accorto che solo in Italia si parla di un evento del genere.
Gli altri, a cominciare dai Tedeschi che, a Napoli, c’erano, e dunque dovrebbero ben saperne qualcosa, non se ne sono accorti…
Quando la versione tedesca del film di Nanny Loy è stata proiettata nelle sale cinematografiche tedesche, un mormorio di incredulità e indignazione si è levato dalla platea. Le quattro giornate di Napoli? Che cosa sarebbero state? Una insurrezione contro gli occupanti germanici? Strano, loro non avevano visto nulla del genere, ma solo una folla agitata, stremata dai durissimi bombardamenti aerei degli alleati “liberatori”, che chiedeva del pane.
È stato detto, perfino, che Napoli è stata la prima città europea a innalzare il vessillo della libertà e della ribellione contro le forze d’occupazione del Terzo Reich.
Ci si dimentica di aggiungere che i Tedeschi si stavano già ritirando da Napoli, incalzati dalle preponderanti forze anglo-americane; che nel capoluogo partenopeo non v’era che una modestissima retroguardia - pare non più di 300 uomini; che le truppe con la bandiera a stelle e strisce sono entrare in città solo poche ore dopo che l’ultimo tedesco ne era uscito. Del resto, la guarnigione di Napoli era sempre stata modestissima, tanto è vero che, quando essa vi si era insediata, il 12 settembre 1943 (appena tre settimane prima), a comandarla c’era un semplice colonnello, Hans Scholl.
Così pure, ci si dimentica troppo facilmente di aggiungere che le truppe americane hanno portato nella città di Napoli una ondata di immoralità dilagante, con un immenso giro di prostituzione, malavita e contrabbando, quale non si era assolutamente visto nei pochi giorni della dura, ma disciplinatissima occupazione germanica.
Per non parlare, poi, della camorra; che, sull’esempio della mafia siciliana, si può solo immaginare che scelta di campo abbia fatto e da che parte abbia indirizzato la propria azione…
Vogliamo parlare delle vittime? Nel corso delle “quattro giornate”, sarebbero caduti 168 partigiani e 159 cittadini inermi; secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano, le vittime furono, complessivamente, 155.
Ebbene: le vittime dei bombardamenti aerei alleati, nel periodo 1942-43, si calcolano in circa 25.000. Per non parlare degli immensi danni arrecati al patrimonio storico-culturale da quegli stessi bombardamenti alleati: citiamo, per tutti, il caso della distruzione della celebre Basilica di Santa Chiara, avvenuto il 4 dicembre 1942, quando i Tedeschi erano ancora dei validi alleati e, con le loro forze aeree e navali, contribuivano validamente alla difesa dell’Italia meridionale.
È possibile fare una proporzione fra 25.000 persone uccise sotto le macerie delle proprie case e 155 persone uccise da un esercito in ritirata, invelenito dal voltafaccia del “camerata” del giorno prima e da quei civili armati, che sparano dalle finestre sulle ultime colonne in partenza?
Luigi Longo, nel suo celebre libro «Un popolo alla macchia» (Editori Riuniti, 1974), celebrazione, al tempo stesso, dei fasti della Resistenza e di quelli del Partito Comunista Italiano, non si perita di scrivere - perdendo di vista il senso delle proporzioni e anche quello del ridicolo - che «dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana».
Le quattro giornate, se vi furono, ebbero luogo dal 27 al 30 settembre del 1943: appena tre settimane dopo il vergognoso e quanto mai maldestro armistizio di Badoglio (di Badoglio il quale, ancora alla vigilia della sua proclamazione, assicurava l’ambasciatore tedesco a Roma della propria indefettibile lealtà di soldato all’alleanza col Reich); e un giorno, dicesi un giorno, prima che le colonne americane vi entrassero a loro volta, il primo di ottobre.
Gli storici filo-resistenziali non si sono vergognati di proclamare che, al loro arrivo, gli Alleati trovarono Napoli sgombra dalla presenza tedesca, come se il merito fosse stato della pretesa insurrezione popolare; mentre si dimenticano di aggiungere che i Tedeschi erano già in ritirata e che gli Alleati non li avrebbero trovati in città in ogni caso, qualunque atteggiamento la popolazione partenopea avesse adottato in quel frangente.
D’altra parte, bisognava pur giustificare quella Medaglia d’Oro al Valor Militare che la parte uscita vittoriosa dalla guerra civile aveva generosamente deciso di conferire alla città di Napoli e alla sua “eroica” cittadinanza…
La motivazione della Medaglia d’Oro è stata la seguente (e lasciamo che chiunque possieda un po’ di spirito critico ne tragga le proprie deduzioni):

«Con un superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto e alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche sfidandone la feroce disumana rappresaglia.
Impegnata in un’impari lotta col secolare nemico offriva alla patria nelle quattro giornate di fine settembre 1943, numerosi eletti figli.
Col suo glorioso esempio additava a tutti gli italiani la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria.»

Ma perché le truppe germaniche sono chiamate “soldatesche”? Come abbiamo visto, erano truppe disciplinatissime: che noi sappiamo, nessuno è mai stato in grado di riferire neppure un caso di stupro. Mentre gli stupri a danno delle donne italiane furono a centinaia, durante la battaglia di Montecassino, da parte delle truppe alleate, e specialmente ad opera delle truppe coloniali della cosiddetta Francia Libera…
E perché parlare del “secolare nemico” tedesco? Chiunque conosca un po’ di storia d’Italia, e in particolare di Napoli, sa bene che questo epiteto spetterebbe, semmai, a Francesi e Spagnoli, molto più che ai Tedeschi…
Infine: che c’entra quel riferimento alla giustizia? E perché parlare, come di cosa ovvia e scontata, di “superbo slancio patriottico”?
Perfino uno studioso molto, molto parziale, Vittorio Gleijese, nella sua agiografica «Storia di Napoli» (Napoli, Edizioni del Giglio, 1987, p. 858), ammette:

«L’insurrezione dei napoletani non nacque certamente dall’antifascismo né fu voluta dagli antifascisti: le “Quattro Giornate” furono uno scatto d’ira del popolo.»

Più chiaro di così…
Ma il problema è un altro. Agli Italiani che si sono costruiti tutta una mitologia - in buona parte illusoria - per sostenere il proprio recente sentimento nazionale, certe verità suonano insopportabili; non parliamo poi di tutto ciò che abbia attinenza con la Resistenza, assurta al rango di atto fondativo della Repubblica democratica e antifascista: paravento ideologico di mezzo secolo di malversazioni e ruberie d’ogni genere, roba da far impallidire le peggiori “repubbliche delle banane” latino-americane.
Ha scritto Max Polo, nel suo libro «L’occupazione nazista in Italia e in Francia» (Ginevra, Edizioni Ferni, 1972, pp. 31-33):

«La città è affamata, terrorizzata. Fermi i servizi pubblici, paralizzati i trasporti; centinaia di sbandati, di sfollati, di cenciosi affollano e strade in cerca di una dimora e di un pasto. La razione del pane è ridotta cento grammi. In mezzo a questa anarchia, e tra la completa indifferenza dei Tedeschi, qualcuno tenta di riaprire la vecchia sede del Fascio e di dar vita a una nuova federazione repubblicana. Si tenta anche di ricostruire la Milizia: cento militi in tutto, raccolti in caserma: di questi senz’altro novantanove per guadagnarsi una razione di rancio. Dopo il 16 comincia la distruzione sistematica, scientifica del porto e di ciò che restava degli impianti industriali: bisognava far “tabula rasa” a Napoli, per lasciare agli Angloamericani un cumulo di rovine. I napoletani assistono con sbigottimento alla distruzione della propria città. Non era per follia gratuita che i Tedeschi facevano saltare i macchinari e gli edifici del porto; si capiva benissimo, era la logica della “terra bruciata”: ma era terribile. Per i Tedeschi, semplicemente “legal”, legale, anzi legittimo. Il 22 settembre, ordinanza del colonnello Scholl: gli uomini dai 18 ai 33 anni sono chiamati al servizio del lavoro obbligatorio; per i renitenti, l’uso della forza. Il 25 settembre, dei trentamila che, secondo i calcoli, avrebbero dovuto presentarsi, solo 175 si fanno avanti. Nome e cognome, e rimandati a casa. “Gli altri - scrive il Tamaro - erano fuggiti in tutte le direzioni”: nascondendosi nelle case dei contadini, nei conventi, nei “bassi”. La gente aspetta di ora in ora l’arrivo degli angloamericani: c’ del calcolo: non tutto, si capisce, è patriottismo. Scholl monta sulle furie: annuncia l’invio per le strade di ronde con l’ordine di rastrellare i renitenti e di fucilare sul posto coloro che oppongono resistenza. Il 26 settembre le prime pattuglie appaiono nelle strade. Entrano nelle case, negli uffici, razzolano, rastrellano, portano via. Non è legittimo, rastrella ilo prefetto [Soprano]. “Das ist legal”, ribatte Scholl.
Il 27 scoppia la rivolta. Le prime avvisaglie trovano i Tedeschi increduli: Napoli si rivoltava? “Con i mandolini, che ridere…”
No, con i fucili, e sopratutto con la disperazione.»Le “quattro giornate di Napoli”. “Qui - scrive lo storico - chi vuole narrare la verità si trova in grande imbarazzo”. Non esiste infatti alcuna opera che tratti gli avvenimenti con serenità. Troppa retorica: tra nubi d’incenso e canti e osanna, la verità è pallida, e forse sospetta. tutto ciò che sappiamo, lo sappiamo dai protagonisti, e si sa che, secondo l’espressione di un altro grande napoletano (il Croce), la storia in prima persona è sempre parziale. D’altra parte, per una testimonianza obiettiva manca la testimonianza dell’altra parte. Dai Tedeschi si è saputa una cosa sola: che in quei giorni a Napoli non erano più di trecento: retroguardia di un esercito in ripiegamento: non avevano nessun bisogno di essere cacciati, per il semplice fatto che già se ne stavano andando Era l’ordine di Kesselring: abbandonare Napoli ed attestarsi su nuove posizioni. Quando, non molti anni fa, apparve in Germania, naturalmente in versione tedesca, il film “Le quattro giornate di Napoli”, il film ebbe non poche contestazioni da parte del pubblico. Furono intervistati alcuni reduci tedeschi. Si ebbero risposte sconcertanti: una rivolta a Napoli? “Ho visto una folla affamata che si gettava sui magazzini…”.Contrastante è anche la versione dei fatti da parte italiana. Uno storico, ritenuto generalmente molto serio quale il Barbagallo, che però a quell’epoca non si trovava a Napoli, parla dell’insurrezione di tutta una città che vince “le forze regolari del più temuto esercito europeo”. Il Tarsia, uno dei maggiori dirigenti del movimento insurrezionale, e che in quei giorni era a Napoli, parla invece di 170-180 uomini con 140-150 moschetti, dei quali – dice - “alcuni fecero soltanto bella mostra sulle spalle di individui furbi”. Il Pansini, altro esponente e protagonista, riferisce che l’indomani della “cacciata” dei Tedeschi da Napoli, si verificò il solito penoso abbordaggio alle liste dei combattenti. Dove sta la verità? In quanto alle “forze regolari del più temuto esercito europeo”, in realtà si trattava di una retroguardia. Oggi lo si sa.
La comanda il noto colonnello Scholl: soldataccio ed esecutore fedele di ordini. Quali erano gli ordini? Sganciarsi, ripiegare, abbandonare Napoli, non senza aver finito di distruggere ciò che ancora restava in piedi delle attrezzature militari e degli impianti industriali. Gli Angloamericani si trovavano in quel momento, pare, a trentadue chilometri.»

Ecco, dunque, le reali proporzioni delle “Quattro giornate” di Napoli: meno di 200 insorti in una metropoli di un milione d’abitanti; una guarnigione nemica, già in procinto di ritirarsi, di 300 uomini in tutto, comandati a un semplice colonnello; e gli strapotenti eserciti angloamericani a circa trenta chilometri di distanza…
Vogliamo dirla tutta, con buona pace degli storici faziosi e moralisti che vogliono vedere dappertutto slanci patriottici a amore sconfinato per la giustizia e la libertà?
Senza nulla togliere al sacrificio di quanti, realmente animati da tali nobili ideali, immolarono la propria vita, sia a Napoli che in qualunque altro luogo del mondo, bisognerebbe vedere quanto abbia pesato, nella insurrezione partenopea, l’insofferenza di quella cittadinanza nei confronti di un governo certamente duro (come lo sono tutti i governi militari, e quello tedesco anche più di altri), ma non arbitrario e deciso, comunque, a imporre l’ordine in una città che, da sempre, si caratterizza per una diffusa insofferenza nei confronti della legalità.
Solo i Napoletani non vogliono sapere quello che il mondo intero pensa di loro, specialmente dopo aver visto, sui teleschermi, l’incredibile vicenda dei rifiuti ammassati per le strade, con il reale pericolo dello scoppio d’una gravissima epidemia: e cioè che essi, per quanto possano essere persone simpatiche a livello individuale, come corpo sociale hanno un comportamento tale, che nessun serio amministratore del Nord Europa o di altri Paesi civili vorrebbe mai, per nessuna ragione al mondo, essere il loro sindaco, il loro prefetto, il loro capo della polizia o anche, semplicemente, il responsabile per lo smaltimento dei loro rifiuti.
Possiamo bene immaginare come queste parole verranno subito interpretate nel senso peggiore, come esempio di razzismo e come mancanza di rispetto per i caduti della Resistenza; ma non vale nemmeno la pena di convincere del contrario quanti non sono in buona fede.
A coloro i quali, invece, sono in buona fede e si pongono in maniera critica e spassionata davanti alla questione delle “quattro giornate”, così come davanti a qualsiasi altro fatto della storia e della vita, non sarà difficile capire che né di razzismo né di scarso rispetto verso i caduti si tratta, ma del sommo rispetto dovuto a un valore più importante di tutti gli altri: la ricerca continua, intransigente, disinteressata della verità, lungi da ogni secondo fine e da ogni ipocrisia.

Ma sono davvero esistite le «quattro giornate di Napoli»?, Francesco Lamendola