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A produrre l’accelerazione verso una web tax europea ha contribuito un oscuro parlamentare olandese. Si chiama Paul Tang e fa parte del gruppo dei Socialisti&Democratici europei. Decisivo nell’affossare il suo compatriota pro-austerity ed ex compagno di partito nel Pdva (il partito del lavoro) Jeroen Dijsselbloem da capo dell’Eurogruppo, due settimane fa Tang ha reso pubblico uno studio su quanto ogni paese europeo perde in mancato gettito da Google e Facebook. Limitandosi ai due giganti del web, i numeri sono così impressionanti (5 miliardi) che molti Stati freddi verso la web tax hanno cambiato idea.
Utilizzando i dati dei fatturati per il periodo 2013-2015, Tang – assieme al suo assistente Henri Bussink – ha prima comparato i profitti da tasse di ogni nazione rispetto al numero di utenti web, smascherando la gigantesca disparità fra la piccola Irlanda e i 5 paesi più grandi, poi ha calcolato quanto perdono le 10 maggiori nazioni continentali a causa dell’aggiramento delle norme sui profitti (in primis la famosa «stabile organizzazione», il principio per cui in un Paese si possono tassare solo le imprese che lì hanno una organizzazione consolidata) da parte di Google e Facebook: si va dai 889 milioni di euro della Germania (704 da Google e 185 da Facebook) ai 741 della Francia, ai 549 dell’Italia – terza in questa classifica con 370 milioni di perdite da Google e 179 da Facebook. Insomma, tassandole si avrebbero risorse per una finanziaria stile Giuliano Amato del 1992.
Il rapporto però ha un paragrafo meno pubblicizzato che rende complessa la prospettiva di una web tax, specie se si punta a tassare i profitti. Tang sottolinea il «caso speciale di Amazon»: il gigante dell’e-commerce infatti «non registra alcun profitto»: glielo permettono le leggi del Lussemburgo, paese che ospita tanti giganti del web. E che sarà, con l’Irlanda, il più strenuo avversario della web tax.