Dopo ben nove mesi dal sisma del 2016 di chiusura riapre la strada per Castelluccio di Norcia ma cresce la rabbia per una ricostruzione post terremoto nemmeno cominciata

«Prima ognuno zappava il suo orto, adesso zappiamo insieme il futuro, è un grande giorno». Qui, sotto il tendone messo in piedi dalla Protezione civile per la rinascita annunciata, dove sette ristoratori rovinati dal terremoto hanno aperto la loro sagra e contano di tirare l’estate tra rigatoni alla norcina, penne arrabbiate e irrinunciabili lenticchie, si vedono infine i primi soldi, mille euro e rotti a pranzo per un centinaio di pasti, e si gonfia il petto, a ragione: «Siamo gli unici che ci hanno creduto davvero, ce lo meritiamo».
Forse, sì, è questione di crederci. Ma è così difficile, perfino quassù, tra la fioritura che sta finendo (in capo a dieci giorni c’è il raccolto delle lenticchie) e la Provinciale 477 che è stata appena riaperta alle auto private, benché con sette semafori a senso alternato e solo di giorno, ma è già tanto, certo, è già un successo, chi lo nega? E tuttavia è una vita smozzicata, questa che ci dicono ricominci, proprio come la povera Provinciale sbranata dal crollo di pezzi di Monti Sibillini e imbragata come un grande infermo nella plastica arancione e nei tubolari di ferro lungo i suoi trenta chilometri che portano infine alla Norcia di San Benedetto, patrimonio del mondo. È una vita che ricomincia, sì, ma è una vita sghemba e sta dividendo le comunità, i furbi e i poveracci, i finti residenti e le tante vere vittime, chi è rimasto in hotel e vorrebbe tornare, chi viene ogni giorno a guardare la casa di famiglia crollata in uno dei borghi dell’immenso cratere.
Castelluccio, aggrappato alla sua 477 ammaccata e risorta, è insomma un simbolo buono che non scoraggia ciclisti, amanti del trekking, cavallerizzi della piana ad inerpicarsi sulla Provinciale accanto alle macchine. Catiuscia Marini, governatrice dell’Umbria, spiega che non è stato uno scherzo, «è venuta giù la montagna, non si trattava solo di ripulire dai massi». L’Umbria ha risposto forse meglio delle altre regioni, forse è stata colpita un po’ meno duramente, i distinguo non hanno senso. Comunque, lavorando duro dopo l’inverno, da marzo a oggi, si è riaperto: e Castelluccio è una luce nel buio anche per Norcia, perché non è solo lenticchie famose, è passione di montagna, turismo, caseifici, allevamenti, terra da coltivare. Il maresciallo della polizia provinciale, garbato e pessimista, scuote la testa: «Salgono in pochi, ancora». Qualche sconforto è inevitabile sbucando in paese, la prima immagine sta in due cartelli accostati: «Azienda vinicola Perla Vincenzo» e «Zona Rossa, divieto di accesso». Si tratta, come sempre, di prendere la via giusta.
La tensostruttura della sagra sta appena smaltendo la prima giornata di ritorno alla vita. Daniele Testa ricorda i tempi durissimi della battaglia delle lenticchie, quando loro, da coltivatori, sono saliti coi trattori fin quassù per protestare clamorosamente contro la chiusura della strada. Ai tavoli i clienti si sentono coinvolti, compresi in un ruolo da benefattori. Carmela Crisafulli, da Torino, dice che la fioritura l’ha un po’ delusa ma le macerie sono «una stretta al cuore». Leandro Pesca, salito a cavallo con gli amici da Massa Martana, si sente straziato, inferocito per la «ricostruzione inesistente». Mariangela e Eva, modenesi, sono arrivate da Montemonaco, il lato marchigiano della montagna: la parte sbagliata. Infatti ci hanno messo sette ore, di cui tre trascorse al posto di blocco improvvisato sulla Salaria all’altezza di Grisciano da una cinquantina di terremotati furibondi. Non se la sono presa: «È bella gente, siamo solidali con loro. Ci hanno pure offerto le pesche tabacchiere».
Le proteste lungo la Salaria. Già, nella mattinata della resurrezione, si celebra anche una rabbia infinita e al tempo stesso cortese pochi chilometri più giù. Davanti alle macerie di Grisciano, appena dopo Accumoli, ci si ferma, la gente ha piazzato massi, cartelli: «La burocrazia uccide più del terremoto». Mica per dire: Rita Marrocchi racconta di avere perso una casa a Fonte del Campo, scampata alla prima botta, perché nessuno ha dato seguito alla sua richiesta di messa in sicurezza... Le storie sono tutte simili. I borghi della Salaria e, salendo sui Sibillini, quelli verso il monte Vettore, sono esattamente come li ha lasciati il sisma. Rasi al suolo.
Le macerie stanno ancora tutte lì, le casette non arrivano, la gente è esasperata, molte tombe al cimitero sono ancora frantumate e saccheggiate dai cinghiali. Arianna Angelini punta il dito dall’altra parte della carreggiata: «Vedi? La mia casa è proprio quella... Questa è la mia terra». Fa la ricercatrice: «Pensano che siamo stupidi perché siamo montanari... Vogliono farci andare via perché questi posti sono abitati da poche persone, negano i posti e anche le persone». Antiche compagne di scuola riunite dal disastro, Arianna e Rita tornano così a questa barricata fatta soprattutto di rancori e dolori: «A protestare con noi una volta c’erano anche quelli di Castelluccio: oggi no, perché hanno avuto la loro strada». Lo raccontiamo a Daniele Testa, uno dei cuochi della tensostruttura. Lui fa una smorfia: «Noi abbiamo combattuto fino in fondo, loro si sono divisi, è una polemica stupida». Per convincerci, apre la camicia e ci mostra la scritta sulla maglietta: «Noi Con Voi, Sisma del Centro Italia». Ma il problema sta appunto lì: quando ci si comincia a distinguere tra «noi» e «voi».