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    Ghibellino
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    Predefinito La Cina nella finanza globale

    La Cina nella finanza globale (Parte 1)

    Articoli 26 marzo 2016 0

    articolo originale: La Cina nella finanza globale
    Comprendere la Cina – Con questo articolo si apre una serie di interventi finalizzati ad analizzare il nuovo ruolo della Cina nella finanza globale. Cominciamo parlando del ruolo dello yuan/renminbi, moneta sempre più importante nelle transazioni globali.
    LO YUAN/RENMINBI, NUOVA MONETA INTERNAZIONALE? – Nel 2016 il dollaro statunitense rimane la moneta di riserva dominante a livello mondiale, alla guida della finanza globale; tuttavia, con l’introduzione dell’Euro a partire dal 2001 e, più recentemente, l’ascesa dello yuan cinese al rango di moneta di riserva internazionale, il dollaro ha cominciato a perdere quote di mercato. Alcuni esperti hanno pronosticato che in tempi non troppo lunghi lo yuan rimpiazzerà il dollaro come principale moneta di riserva mondiale. E’ allora lecito chiedersi quali condizioni debbano realizzarsi perché ciò avvenga e che impatto potrebbe avere sulla configurazione del potere politico ed economico. Prima di provare a rispondere a queste domande, spieghiamo brevemente cosa è successo, in modo da poter prevedere con maggiore accuratezza i possibili sviluppi.
    LE RAGIONI CINESI PER INTERNAZIONALIZZARE LO YUAN – A seguito della crisi europea, pochi anni dopo la crisi finanziaria statunitense del 2008, l’Euro ha cominciato a perdere la sua iniziale forza attrattiva. In una situazione caratterizzata da crescita stagnante e salvataggi pubblici, l’opinione pubblica ha cominciato a considerare seriamente la possibilità del disfacimento dell’Euro. I cinesi, possessori di grandi quantità di debito denominato in dollari ed euro, sono divenuti sempre più preoccupati di possedere valute potenzialmente fragili, soprattutto a causa della natura delle politiche a supporto dell’Euro, nonché dell’incompetenza percepita e i conflitti di interessi che pervadono le politiche monetarie degli Stati Uniti. Con più di 3 trilioni di riserve, la Cina soffrirebbe un’enorme perdita finanziaria se l’Euro si dissolvesse e/o se la Federal Reserve decidesse di dichiarare il fallimento su tutti i suoi debiti pendenti. Negli anni della crisi entrambi gli scenari sembravano spaventosamente reali. In risposta a ciò e per salvaguardarsi, i politici cinesi hanno deciso di fare un ulteriore sforzo per aumentare l’uso dello yuan tra i maggiori partner commerciali al livello internazionale. In termini logici, questi sforzi erano più che ragionevoli. In primo luogo la Cina è la prima potenza commerciale al mondo, ma poiché non aveva, almeno fino a poco tempo fa, una moneta di riserva, era costretta a condurre il suo commercio usando il dollaro statunitense o l’Euro, anche se gli Stati Uniti o un membro dell’Euro non erano parte dello scambio. Tale situazione creava costi elevati. Per esempio: quando la Cina comprava petrolio dalla Russia e vendeva manufatti, le transazioni erano prezzate in dollari statunitensi. Sia la Cina che la Russia dovevano pagare commissioni per la transazione in valuta estera al fine di convertire yuan in dollari e poi in rubli e viceversa. Poiché la Cina pagava queste commissioni a soggetti terzi, tali commissioni crescevano in maniera consistente. Sarebbe stato molto più sensato se la Cina avesse potuto convincere i suoi partner commerciali ad usare lo yuan cinese, cosa che sta puntualmente avvenendo, per ridurre i costi delle transazioni internazionali per tutte le parti coinvolte.
    In secondo luogo, la Cina avrebbe dovuto lasciare fluttuare lo yuan liberamente per evitare di essere etichettata “manipolatore di moneta”, scongiurando però la possibilità da parte degli speculatori occidentali di danneggiare l’economia cinese. Per far ciò era necessario acquisire lo status di moneta di riserva. Se fino a oggi è stato estremamente oneroso per la Cina sostenere commissioni continue per operare scambi commerciali, la situazione sarebbe stata peggiore se avesse subito la volatilità dei cambi. Siccome i prezzi di cambio fluttuano costantemente, ed ancor di più da quando gli Stati Uniti hanno posto termine alla convertibilità del dollaro in oro nel 1971, le parti che conducono commerci transfrontalieri devono spesso pagare grandi istituzioni finanziarie per comprare contratti finanziari in grado di garantire un certo prezzo nelle transazioni in valuta straniera. Grandi e redditizie multinazionali possono permettersi di pagare questi contratti per assicurarsi la stabilità dei prezzi, ma la maggior parte delle piccole e medie imprese non possono, specialmente su base continuativa. Poiché la Cina era ed è tuttora un Paese in via di sviluppo, la maggior parte delle sue imprese non ha i mezzi finanziari per comprare tali contratti dalle banche di investimento occidentali. Per questo motivo i politici cinesi hanno deciso di eliminare questo costo aggiuntivo tenendosi ancorati al dollaro USA, cosa che avrebbe consentito a più imprese di condurre transazioni transfrontaliere. La loro politica, come era prevedibile, ha portato ad una veloce e netta crescita economica della Cina in quanto i suoi imprenditori sono stati messi nelle condizioni di fare affari col resto del mondo in condizioni di cambio più stabili. La crescita cinese ha rispecchiato la crescita di Germania e Giappone subito dopo la Seconda Guerra Mondiale quando fu costituito il sistema di Bretton Woods e fu stipulato che tutte le monete straniere fossero agganciate al dollaro e il dollaro fosse agganciato a un prezzo stabilito in oro. Come conseguenza della crescita economica della Cina, molti altri mercati emergenti ne hanno beneficiato.
    RENMINBI E DOLLARO – La decisione della Cina di agganciarsi al dollaro è permessa dalle regole dell’IMF, ed è semplicemente collegata al modello che fu creato a Bretton Woods per evitare le condizioni economiche che portarono alla Seconda Guerra Mondiale. Ma nonostante la sua legalità e il suo sostegno dato alle piccole e medie imprese di qualsiasi paese coinvolto nel commercio con la Cina, i politici occidentali ancora biasimano la Cina per il fatto di tenere il cambio artificialmente basso per esportare di più a spese dell’export statunitense. Tale argomentazione è imprecisa su più livelli. Innanzitutto i salari medi della Cina sono cresciuti costantemente ogni anno, il che ha avuto lo stesso effetto di un apprezzamento della moneta, giacché il costo generalizzato degli input è cresciuto. Per di più molti altri fattori, come tasse, regolamenti, efficienza produttiva e corruzione, influenzano il commercio. Per di più, ciò che rende debole la retorica politica occidentale è dimostrato dall’esperienza del Giappone. Sotto la cosiddetta “Abenomics” (la politica economica di Shinzo Abe), il Giappone ha svalutato la sua moneta di più del 60% contro i suoi partner commerciali. Tuttavia, a seguito di questa importante svalutazione, il Giappone non ha accresciuto affatto il suo export, a riprova che avere un cambio artificialmente basso non si traduce necessariamente in un maggior export.
    Ovviamente, se la Cina lasciasse la sua moneta fluttuare liberamente sul mercato monetario, questo comporterebbe molta più incertezza per tutti i suoi partner commerciali, inclusi gli Stati Uniti. Questo avrebbe un effetto spaventoso sul commercio. Raggiungendo lo status di riserva internazionale per la propria moneta, la Cina potrà compensare e limitare questa incertezza consentendo alla sua banca centrale di fare interventi monetari come quelli fatti dalla Federal Reserve senza subire le ripercussioni che normalmente si hanno nelle nazioni impegnate in tali manipolazioni.
    leggi la seconda parte
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  2. #2
    Ghibellino
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    Predefinito Re: La Cina nella finanza globale

    La Cina nella finanza globale (Parte 2)

    Articoli 26 marzo 2016 0

    articolo originale: La Cina nella finanza globale (II)
    parte prima: La Cina nella finanza globale (Parte 1) | Centro Studi Eurasia Mediterraneo
    GLI ERRORI DELLA FED – Con l’eccezione di Lehman Brothers, la Federal Reserve e il governo degli Stati Uniti hanno favorito Wall Street rispetto all’interesse generale. Hanno salvato tutte le maggiori istituzioni finanziarie quando erano in bancarotta, permettendogli peraltro di divenire ancor più pericolose da un punto di vista sistemico. Sotto la supervisione della Federal Reserve e le nuove regole del Dodd-Frank Act, l’attività speculativa è infatti cresciuta di sei volte dalla crisi del 2008. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS), i commerci di strumenti derivati, che superavano i 100 trilioni di dollari nel 2005, hanno superato i 661 trilioni di dollari nel 2014. Allo stesso tempo, il capitale minimo di riserva richiesto a queste istituzioni finanziarie è rimasto piuttosto basso, al 3%. Anche se maggiore del 1%, che era il livello pre-crisi, il margine per l’errore rimane quasi nullo quando il debito costituisce il 97% della struttura del capitale.
    Ancor peggio, la Federal Reserve ha approvvigionato le banche con denaro a interessi zero e senza particolari vincoli e/o indicazioni sull’utilizzo dello stesso. Invece di richiedere alle istituzioni bancarie di prestare alle piccole e medie imprese almeno il 50% dei fondi ottenuti dalla Federal Reserve, è stato concesso di continuare a prendere quanto più denaro possibile per speculare sui mercati finanziari al fine di comprare azioni, obbligazioni e derivati ed avere un ritorno veloce sugli investimenti. Nel 2007, i prestiti alle piccole e medie imprese negli Stati Uniti ammontavano a 19,18 miliardi di dollari, un valore che nel 2013 si è ridotto a soli 5,37 miliardi di dollari. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il tasso di nascita/morte delle imprese è passato ad essere negativo, il che ha significato che sono state più le imprese che hanno chiuso di quelle che hanno iniziato ad operare.
    IL DECLINO DEL PETROLIO – Internazionalmente, gli effetti sono stati ancor peggiori. Quando è iniziata la crisi dell’Euro, tutti gli speculatori, prevalentemente di grandi banche e hedge funds, si misero d’accordo per svendere l’Euro nel tentativo di farlo fallire. Mentre questo obiettivo non è stato raggiunto, il costo umano e socioeconomico delle politiche intraprese dai politici dell’EU per respingere gli speculatori (austerity, salvataggi multipli, quantitative easing e altre misure estreme) è stato altissimo. Inoltre, gli speculatori hanno provocato caos anche in altri Paesi, specialmente nei mercati emergenti dove i prezzi delle materie prime sono saliti alle stelle per poi crollare. Per esempio, il rapido declino dei prezzi del petrolio è arrivato subito dopo la crisi ucraina (febbraio 2014). Mentre i media attribuivano le ragioni del drammatico calo del prezzo del petrolio all’abbondanza di shale gas e al rallentamento della crescita economica della Cina, essi non hanno saputo spiegare una possibile coincidenza della caduta dei prezzi con la crisi ucraina, dato che le notizie sullo shale gas erano uscite mesi prima e il consumo del petrolio da parte della Cina stava in realtà crescendo. Parte della spiegazione di quanto accaduto è venuta da Aaron Brown, che lavorava per il multimiliardario fondo speculativo AQR. In occasione del lancio del suo libro, Brown ha raccontato che la SEC lo chiamò insieme ad altri gestori di fondi per mettere pressione alla Russia. Brown ha denunciato di essere stato ricattato dal governo degli Stati Uniti. Al fine di non essere multato dalla SEC, il suo fondo avrebbe dovuto sostenere il mercato azionario degli Stati Uniti, svendere i contratti petroliferi e il rublo col fine di punire Putin finanziariamente. Sfortunatamente, non solo Putin e la Russia sono stati danneggiati dall’influenza degli speculatori sui prezzi del petrolio, ma anche tutti i Paesi produttori di petrolio non alleati degli Stati Uniti. Paesi come il Venezuela, che dipendono dalle entrate petrolifere per finanziare i loro bilanci, sono divenuti improvvisamente vulnerabili ai possibili default obbligazionari e alle agitazioni sociali correlate all’indebolimento dei servizi governativi volti alle fasce più povere della popolazione. Lo stesso è valso per il Brasile, con alti costi di produzione del petrolio nazionale (in quanto la maggior parte di esso viene da piattaforme off-shore).
    L’ASCESA DEL RENMINBI – E’ in virtù di questo contesto e di queste dinamiche destabilizzanti che la Cina ha potuto ottenere sia l’appoggio europeo all’inclusione dello yuan tra le monete di riserva internazionale, sia un ulteriore supporto dalle Nazioni Unite per cominciare ad abbandonare il dollaro statunitense come la sola moneta di riserva. Sembra infatti che molti Paesi pongano una crescente fiducia nella capacità della Repubblica popolare di controbilanciare l’egemonia del dollaro statunitense. Ciò ha dato margine di manovra alle autorità cinesi, che non a caso hanno annunciato l’avvio di riforme finanziarie finalizzate alla graduale liberalizzazione dello yuan; anche se inizialmente nella sola zona di libero scambio di Shangai, ove oggi sono possibili transazioni finanziarie che prima non erano permesse.
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