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  1. #191
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Un anno fa moriva Gilberto Oneto.
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
    Tacito, Agricola, 30/32.

  2. #192
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Rip
    Se il popolo permetterà alle banche private di controllare l’emissione della valuta, con l’inflazione, la deflazione e le corporazioni che cresceranno intorno, lo priveranno di ogni proprietà, finché i figli si sveglieranno senza casa.

  3. #193
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  4. #194
    Blut und Boden
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  5. #195
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Il manifesto ideato da Gilberto Oneto negli anni 70 e riproposto, dall'Associazione intitolata a suo nome, nel centenario della morte dell'Imperatore Francesco Giuseppe I




  6. #196
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Vi spiego perché il Carroccio di Salvini non è più la Lega Nord

    Edoardo Petti PALAZZI

    Conversazione di Formiche.net con Gilberto Oneto, architetto e scrittore supporter dell’indipendentismo della regione padano-alpina oltre che amico personale e collaboratore di Gianfranco Miglio
    La trasformazione della Lega Nord di Matteo Salvini da movimento federalista, autonomista e secessionista a formazione “nazionalista lepeniana” costituisce una metamorfosi politica? Formiche.net ha rivolto l’interrogativo a Gilberto Oneto, architetto e scrittore supporter dell’indipendentismo della regione padano-alpina oltre che amico personale e collaboratore di Gianfranco Miglio, oltre che editorialista in un recente passato del Giornale e di Libero.
    Come giudica le evoluzioni del Carroccio?
    Rientrano in un sostanziale tatticismo coerente con una tradizione di “cambiamenti” che non hanno fatto il bene del partito. Ma gli hanno permesso di sopravvivere in presenza di una leadership come quella di Umberto Bossi, che non accettava schemi né programmatici né ideologici in grado di limitare il suo strapotere personale. La principale preoccupazione del nuovo segretario delle “camicie verdi”, cui hanno lasciato in mano un cerino che si stava spegnendo, è stata di salvare la Lega Nord dall’estinzione. Lo ha fatto con coraggio e con qualche comprensibile compromesso ideologico.
    Vi è un punto particolarmente fragile nel programma di Salvini?
    La scomparsa quasi totale, come ha già evidenziato Giancarlo Pagliarini, dei temi federalisti e autonomisti. Il Carroccio è un movimento federalista, autonomista e indipendentista. Il primo articolo del suo statuto parla di indipendenza della Padania. Una grossa fetta dei suoi quadri e la totalità dei suoi militanti è indipendentista. Il miracolo che le ha permesso di superare ogni ostacolo e sciagura è questa sua differenza rispetto a tutte le altre forze politiche. Dietro c’è un’idea magari rudimentale ma fortissima.
    Quale?
    La voglia di libertà, di indipendenza, di differenza. L’aspirazione a staccarsi da uno Stato ladro e sempre più estraneo. Fattori che conferiscono alla Lega una energia sconosciuta a ogni altro partito in tempi di completa evaporazione ideologica. Matteo Salvini, cresciuto in tale clima, lo sa benissimo e non può rischiare di distruggere un patrimonio del genere.
    Il fallimento delle promesse autonomiste del Carroccio ha trovato sbocco in un rapporto privilegiato con le destre populiste e nazionaliste radicate soprattutto nelle regioni centro-meridionali?

    Tutto ciò è anche il risultato dello sciagurato comportamento delle sinistre italiane che, caso quasi unico al mondo, sono nazionaliste e centraliste. Nella gran parte del pianeta i movimenti indipendentisti hanno matrice progressista. In Italia la sinistra è stata per lungo tempo autonomista. Ma oggi ha dimenticato un secolo di esperienze. Lo sciagurato connubio della Lega con la destra risale al 1994. Per mancanza di alternative, e per carenze proprie, ci è ricascata nel 2001.
    Non pensa che un’alleanza del genere rappresenti un atto di realismo politico?
    È un matrimonio contro natura che si poteva leggere anche in termini fisici nella manifestazione promossa a Piazza del Popolo la scorsa settimana. Da una parte quelli che Alexander Solgenitsin chiamava “i mille colori delle libertà”, dall’altra il tricolore su fondo nero.
    Nel conflitto tra Matteo Salvini e Flavio Tosi chi è il vero leghista?
    Le scelte del leader del Carroccio possono essere giudicate incoerenti. Ma il primo cittadino di Verona cosa c’entra con la Lega? Non so come finirà la vicenda, ma il divorzio da Tosi non potrà che far del bene al partito. Porterà chiarezza e contribuirà a risolvere l’ambiguità di certe paturnie nazionaliste e italianiste.
    Ma con le proposte di Salvini è possibile costruire un centro-destra unitario e competitivo?
    Il segretario del Carroccio ha sempre affermato che sarebbe stato disposto a tornare ad allearsi con la destra se questa avesse accettato il suo programma. Oggi il senior partner è lui, perché ha i numeri e le idee. Purtroppo dal suo programma ha espunto il federalismo e la vera riforma dello Stato, che avrebbero costretto le destre a una scelta di campo più chiara. Far finta di stare assieme per risolvere i problemi dell’Italia presenta un’ambiguità di fondo: il problema è l’Italia.
    L’egemonia della Lega nel centro-destra espone al rischio che Matteo Renzi governerà per molto tempo ancora?
    E cosa cambia? Che differenza c’è fra questa sinistra democristiana, illiberale, statalista, tassatrice e mondialista rispetto alla destra democristiana, illiberale, statalista, tassatrice e mondialista? Renzi, Alfano, Monti, Berlusconi, Tremonti, Napolitano, Prodi e tutti gli altri sono espressione della stessa oppressione. La sola speranza di salvezza generale è lo smantellamento dello Stato italiano. Poco importa chi lo governa.

    09/03/2015



    Vi spiego perché il Carroccio di Salvini non è più la Lega Nord - Formiche.net
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  7. #197
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  8. #198
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    A quando un referendum per abolire le prefetture e la loro sintassi? Per non dimenticare quel “rimprovero” di Sua eccellenza al prete anti-camorrra

    1 Dec 2016 · 0 Commenti
    di GILBERTO ONETO



    Il video con il prefetto (anzi, il “signor prefetto”) di Napoli Andrea De Martino
    (nella foto col ministro Cancellieri) che rimprovera il prete anti-camorra Maurizio Patricello di aver chiamato solo “signora” e non “signora prefetto”, il prefetto di Caserta ha fatto il giro della rete. (GUARDA QUI)

    Quasi unanime è stato il coro di “sdegno e indignazione” per il tono e per la sostanza dello sbotto, e per l’inconsistenza dell’oggetto del cazzietone; qualcuno l’ha buttata sull’accusa di maschilismo, altri di ducismo di periferia, altri ancora hanno collegato il nervosismo delle “istituzioni” con il contenuto ambientalista dell’intervento del prete. Non è mancato neppure chi ha doverosamente sottolineato il vile attentato alla sintassi del “signor prefetto” che, infierendo sul sacerdote, se ne è uscito con un sublime: «Se io la chiamerei signore, lei come reagirebbe?»
    Vista la funzione di questo nostro giornale, è però opportuno sottolineare un altro aspetto della pantomima che è sfuggito a troppi osservatori in buona fede e che è stato scopato sotto il tappeto dagli altri. Le scenetta è stata la perfetta rappresentazione dell’identità italiana oltre che dell’arroganza del potere dello Stato italiano. Nella sala della riunione c’erano decine di facce di funzionari, tutti profumatamente pagati dai contribuenti, tutta gente che forse avrebbe dovuto essere altrove a guadagnarsi lo stipendio. Per ognuno di loro nel cortile se ne stava in attesa un autista a spolverare il parabrezza, e non si sa quanti agenti, poliziotti, segretari, portaborse, inservienti e palafrenieri, tutti sempre e scrupolosamente a carico dei cittadini tartassati. Quanto sia costata quella giornata di raduno di gessatini, grisaglie, cravatte e sobri tailleurini è difficile da calcolare: facciamo per difetto diecimila Euro, tre quarti dei quali “raccolti” in Padania. Nessuno di loro aveva certo fretta di tornare in bottega o in officina per “non perdere la giornata”.
    É stata una normale manifestazione di italianismo autoritario, la sublimazione di quel “lei non sa chi sono io” (declinato per l’occasione in “lei non sa chi è Lei”, nel senso della sciura prefetto) che dovrebbe essere il primo articolo della patriottica Costituzione, che dovrebbe essere scritto all’ingresso di ogni ufficio pubblico, caserma e – ovviamente – prefettura. L’Italia vive di questo e su questo, dal “Signor bidello”, al “Superiore” (dato ai secondini), al “Signor Tenente” (non “Signor sergente”: vietato dal Regolamento), su, su, fino all’Onorevole (roba da mandarini e da mafiosi), fino all’Eccellenza (titolo proibito dal fascismo ma subito riesumato): la sala del fattaccio era stipata di Eccellenze e c’è quasi da ammirare il contegno democratico e minimalista del “signor prefetto” per non avere preteso che si usasse proprio quell’italianissimo titolo: «Lei come reagirebbe se io non la chiamerei Eccellenza?» Anzi, tanto per essere ancora più patriottici: «Voi come reagireste, se Noi non Vi chiameremmo Eccellenza?» Sciopa!
    Eppure questa è l’Italia, questo è il solo modo per essere italiani, per riconoscere l’esistenza dell’identità italiana, che non a caso Miglio chiamava “finzione verbale”. L’Italia vive di questo e sopravvive solo grazie a questo. É costruita su orpelli, titoli, invenzioni, catafalchi, formalismi e codicilli; sta in piedi solo grazie all’involucro formale che si è cucita addosso: l’abito non serve a completare o coprire la sostanza, l’abito “è” la sostanza e la tiene in piedi.

    Non è un caso che la sola voce stonata nel coro di indignata riprovazione per il tono del “signor prefetto Eccellenza” De Martino sia stata quella di Mattias Mainiero, editorialista di Libero, campano e nazionalista, che – in risposta a una lettera di un lettore – ha dato una interpretazione impeccabile e intelligente del fattaccio dal punto di vista di chi sostiene la sopravvivenza dell’intero marchingegno tricolore, spiegando come disconoscendo l’esatta titolazione si disconosca il valore dell’istituzione rappresentata. Dice insomma il Mainiero (avercene avversari così onesti!) che non si deve correre il rischio di rivelare che il re è nudo, altrimenti crolla tutto l’italico ambaradan. Naturalmente lui non userebbe mai queste parole o questa metafora che sono solo il frutto perverso dei nostri deliri indipendentisti. In ogni caso la morale è: sotto il tricolore niente! Neanche la sintassi.


    A quando un referendum per abolire le prefetture e la loro sintassi? Per non dimenticare quel ?rimprovero? di Sua eccellenza al prete anti-camorrra | L'Indipendenza NuovaA quando un referendum per abolire le prefetture e la loro sintassi? Per non dimenticare quel ?rimprovero? di Sua eccellenza al prete anti-camorrra | L'Indipendenza Nuova
    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  9. #199
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Secessione non fa rima con violenza

    6 Dec 2016 · 1 Commento



    di GILBERTO ONETO –
    Autonomia e indipendenza sono degli obiettivi. L’autonomia è basata su uno schema variabile di suddivisione di poteri fra il governo centrale e gli enti territoriali. Essa può andare dalla poca autonomia che – ad esempio – lo Stato italiano concede oggi a Comuni, Province e Regioni, alla più ampia autonomia delle Province e Regioni a Statuto speciale, fino alla grande autonomia che Stati esteri (ad esempio, il Belgio o la Spagna) lasciano a talune Comunità territoriali. Se l’autonomia può essere intesa come una scala graduata su cui una lancetta indica le diverse condizioni di libertà, essa ha ai suoi estremi l’autonomia zero degli Stati super centralizzati e l’autonomia massima dell’indipendenza. Questa rappresenta infatti la posizione di fondo scala sul quadrante dell’autonomia: l’autonomia assoluta. Una comunità è del tutto indipendente quando non riconosce (e non ha) nessuna sovranità superiore o altre sovranità con cui condividere qualche potere. Come ha ribadito lo stesso Maroni, lo Statuto della Lega parla di “indipendenza” e non di “autonomia”: è perciò chiaro che si intenda la più totale autonomia e la cancellazione di ogni legame e sottomissione. L’idea di indipendenza implica perciò con incontestabile chiarezza il distacco dall’Italia.

    Si pone a questo punto la questione politica e lessicale degli strumenti da impiegare per raggiungere l’indipendenza.
    Si va da una azione graduale di devoluzione (passaggio di porzioni crescenti di potere dallo Stato centrale alle entità territoriali: la lancetta che si muove sul quadrante dell’autonomia) alla separazione più netta. Il tutto può essere acquisito con trattativa politica, con l’esercizio democratico del diritto di autodeterminazione o con una azione di forza. L’operazione può avvenire in virtù di una separazione consensuale, realizzata mediante un voto popolare (Norvegia) o per decisione parlamentare (Slovacchia). In realtà però la separazione avviene quasi sempre su iniziativa della parte che vuole andarsene perché è difficile che uno Stato rinunci a una parte del suo territorio di sua iniziativa. In tutti questi casi, chi vuole l’indipendenza (e la libertà) compie un atto di proclamazione unilaterale che si chiama secessione. Se succede che la manifestazione di volontà si trasformi in violenza non dipende da chi vuole la separazione ma da chi eventualmente cerca di impedirla.
    Nel 1991 quattordici Stati si sono staccati (proclamando unilateralmente l’indipendenza, e facendo perciò una secessione) dall’Unione Sovietica senza provocare alcuna azione o reazione violenta. La Cecenia ha tentato la stessa strada trovando invece una reazione durissima. La secessione slovena ha dovuto affrontare una reazione piuttosto blanda, quella croata una resistenza accanita (dovuta però più a problemi di confini che di sovranità), il Kossovo se ne è andato con una proclamazione del suo governo e con il riconoscimento internazionale. Analoga considerazione vale per il grande numero di nuovi Stati nati da liberazioni coloniali. La secessione delle tredici colonie americane dalla Gran Bretagna è avvenuta con una guerra; lo stesso è successo in Algeria, Kenia, Angola e in altre parti. La secessione indiana dall’Impero britannico è stata invece frutto di una azione la cui sostanziale non-violenza è divenuta proverbiale. La maggior parte delle ex colonie è però diventata indipendente in forma quasi totalmente pacifica. Insomma l’idea e la pratica della secessione non significa automaticamente un ricorso alla violenza. Tutto dipende dal grado di autoritarismo e di civiltà dello Stato da cui ci si vuole separare: la Danimarca non ha battuto ciglio per l’Islanda, mentre l’Indonesia ha fatto fuoco e fiamme per tenersi (senza riuscirci) Timor Est.
    Associare automaticamente l’idea di secessione a quella di violenza è sbagliato. Nel nostro caso si tratta di una maliziosa equazione che è accreditata dallo Stato italiano per togliere vigore alle legittime aspirazioni all’autodeterminazione. Si evocano i fantasmi delle guerre balcaniche (ma il Montenegro non se ne è andato senza che volasse un ceffone?) e le immagini – magari mediate dalla sottocultura hollywoodiana – della guerra di secessione americana. Attenzione: quella volta si era risposto a un atto legittimo e democratico con una reazione brutale e sanguinaria. I cattivi non erano i secessionisti ma quelli che hanno distrutto mezzo paese per imporre l’unità. Per fortuna non ci sono Grant e Sherman nello sterminato organico di generali di cui dispone il ministro Di Paola. Lo Stato italiano è gradasso e vile. Gradasso nel minacciare sfracelli ma vile di fronte a una presa di posizione ferma e decisa. Ma è anche ladro: e i ladri non rinunciano volentieri alla refurtiva, al pizzo e ai polli da spennare. Se si riferiva alla violenza con cui i ladri difendono il loro territorio, allora Maroni aveva ragione. Ma sarebbe bello che lo specificasse bene.

    Secessione non fa rima con violenza | L'Indipendenza Nuova



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  10. #200
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Il peccato originale è l’unità d’Italia

    4 Dec 2016 · 2 Commenti
    di GILBERTO ONETO



    Parecchi anni fa l’ambasciatore Sergio Romano aveva pubblicato uno straordinario
    libricino dal significativo titolo di Finis Italiae. Vi si sosteneva, con esempi e considerazioni concretissime, che l’unità d’Italia, dopo essere stata raggiunta con i metodi truffaldini e maneschi che tutti conoscono, era stata conservata e giustificata dal “Partito risorgimentalista” privilegiando due modi di operare apparentemente contrastanti e alternativi: c’era chi voleva salvaguardare l’unità “col ferro e col fuoco” e chi invece convincendo la gente della sua bontà. Alla prima fazione sono appartenuti tutti i “padri della patria”, gli eroi delle patrie battaglie, gli amanti delle baionette e dei cannoni, delle guerre e delle avventure coloniali, tutti quelli che – da Crispi a Mussolini – hanno preteso di forgiare il carattere nazionale italiano con l’asprezza delle trincee, delle bombe e dell’eroismo mortifero del “chi per la patria muor, vissuto è assai”. Nella seconda fazione militano quelli che invece han cercato di fare gli italiani nelle scuole, nelle caserme, con i “sabati fascisti”, gli inni e tutte le palle retoriche con cui hanno riscritto la storia e inventato culture condivise. Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, il primo partito sembra aver perso la sua spinta (anche se ogni tanto si inventa qualche bellicosa e patriottica “missione di pace”) a vantaggio del secondo che si è scatenato con televisioni e campionati di calcio. Senza grande successo: non si trasformano le patate in carciofi raccontando balle e così i popoli della penisola non sono diventati italiani.

    Analizzando il fallimento delle due scuole di pensiero (si fa per dire), Sergio Romano individuava un terzo strumento che si cominciava a utilizzare per riuscire dove gli altri due avevano fallito: l’unificazione europea. Ipotizzava la possibilità (che poi si è puntualmente verificata) che i patrioti cercassero di smorzare ogni differenza o pulsione autonomista e particolarista all’interno del calderone europeo, sperando di poter scaricare su un contenitore più grande tutte le contraddizioni di quello più piccolo. “Che senso ha dividerci, quando ci stiamo tutti unendo in Europa?” è il mantra che da decenni viene salmodiato.
    Ma non è il solo marchingegno che è stato messo in campo. I patrioti hanno utilizzato almeno altri tre progetti “unificanti”: 1 – la diluizione di ogni differenza tramite massicci trasferimenti di popolazione (dal Sud al Nord, dalle campagne ai centri urbani, e poi dall’estero in Italia) per annacquare ogni identità in un meticciato suscettibile di ogni imposizione e vessazione; 2 – l’acquisto del consenso di una ampia fetta di popolazione in grado di condizionare le scelte elettorali mediante tutta una serie di marchingegni di welfare peloso (stipendi pubblici, pensioni facili, prebende e stipendi, posti politici eccetera); 3 – con l’utilizzo disinvolto delle organizzazioni criminali ampliando a dismisura il loro raggio di azione dal Meridione a tutta la repubblica. Lo sdoganamento delle associazioni criminali è stato uno degli atti più (s)qualificanti del Risorgimento: in cambio della libertà di azione e di nuovi “mercati”, queste sono diventate il più sicuro baluardo del patriottismo italiano.
    Insomma, non serve più fare guerre o cercare di indottrinare con la lettura forzata del libro Cuore: l’unità d’Italia si difende distribuendo stipendi e pensioni, riempiendo la Padania di foresti possibilmente prolifici e molesti e consegnando l’economia settentrionale alle varie mafie meridionali. La ciliegina sulla torta è la gioia di appartenere alla patria europea dei finanzieri, dei burocrati e degli usurai. Assieme al tricolore si sventoli il pentalfa moltiplicato per dodici!
    Le cronache di questi giorni confermano la cura: territori invasi da frotte di molesti, disordine e criminalità, produttori sempre più oberati dal peso del mantenimento dei parassiti, mafie e camorre che spadroneggiano, politici corrotti e collusi e l’Europa che “ci insegna a stare al mondo”.
    In tanti sciagurati si impegnano a preservare e rafforzare l’unità dello Stato italiano. Il vero problema non sono però pidocchi, foresti, ladri e picciotti ma l’unità politica della penisola. Quello è il peccato originale, la “madre di tutte le nequizie”: tutti gli altri difendono l’unità perché sanno benissimo che possono sopravvivere solo grazie a essa. Liberiamoci dalla prigione unitaria e potremo risolvere tutti i problemi che essa ha generato. Indipendenza!

    Il peccato originale è l?unità d?Italia | L'Indipendenza Nuova









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