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    Sette miti.Anzi no: sette confusioni.

    Sette miti. Anzi, no: sette confusioni (I)

    di michele boldrin, 30 Dicembre 2008
    Manco da tempo e me ne rammarico assai. Provo a riprendere approfittando della montagna di note, commenti, appunti ed idee raccolte in queste settimane di assenza da nFA (e presenza in altri luoghi: a volte bisogna anche guadagnarsi il pane). La "crisi" mi sembra sia il tema dominante sia quello più trascurato, per cui provo a ripartire da lì. Nella speranza che, riprendendo a scrivere, ritornino sia il ritmo che un minimo di lucidità ... perché i temi rimasti in sospeso son tanti, e complicati. Quando avrò finito farò anche l'AUTOCRITICA, perché a volte ci vuole anche quella, e fa tanta salute.
    (I) Più consumo, meno risparmi.
    In un certo senso questo è il mito fondatore di tutte le cattive politiche economiche e, di fatto, dei sette miti che andrò discutendo. Tanto per dare un'idea di quanto ho in mente, gli altri sei, nell'ordine, sarebbero:
    (II) La deflazione causa depressione, solo l'inflazione ci può salvare.
    (III) Abbiamo bisogno di una politica fiscale super-espansiva per uscire dalla trappola della liquidità.
    (IV) Siamo in una trappola della liquidità perché le famiglie non spendono e stanno "tesaurizzando".
    (V) Permettere che banche, ed altre imprese, falliscano farà solo peggiorare la crisi.
    (VI) C'è troppa, non troppo poca, competizione fra le banche; ed anche in generale.
    (VII) Le riforme strutturali possono aspettare, ora occorre pensare all'emergenza.
    Ah, scordavo, poi c'è il mito che li sintetizza tutti: avevano ed hanno ragione Roubini, Soros, Tremonti ... e quant'altri profeti di sventura sono emersi durante l'ultimo anno e mezzo. E Paul Krugman, ovviamente, ha più ragione di tutti perché lui ha anche il Comitato del Nobel per l'Economia che ce lo conferma.
    Ma andiamo per ordine. Si diceva:
    il problema fondamentale è che la gente non consuma più, occorre far ripartire i consumi, occorre che il magico "consumatore americano" ricominci a spendere come ha fatto dal 1992 in poi.
    Questo mito fondatore si basa sull'esistenza di un magico "moltiplicatore" (keynesiano, ovviamente) tale che più grande è la quota del proprio reddito che la persona media consuma più alto sarà il reddito complessivo della nazione. Tale argomento è spesso giustificato a mezzo di luoghi, tanto comuni quanto incompleti, del tipo: "la domanda sempre crea la propria offerta" (sì, ma da chi viene l'offerta?); oppure: "le imprese decidono di produrre solo se si aspettano di vendere i loro prodotti" (non v'è dubbio, ma le imprese vogliono anche essere pagate e, soprattutto, far profitti con ciò che vendono). Tali luoghi comuni non sono erronei, sono solo incompleti: quando li si completa le loro implicazioni sono, quasi sempre, alquanto diverse da ciò che il mito fondatore vorrebbe farci credere.

    I credenti in tali amenità non fanno quasi mai una pausa per considerare il fatto che, anche nel mondo dei modelli astratti, tanto più consumiamo meno abbiamo a dispozione per risparmiare e investire. Da questo banale fatto seguono due conseguenze, non banali. La prima: più alta è la quota di reddito che consumiamo più dobbiamo essere in grado di prendere a prestito da qualcun altro, quindi maggiormente occorre indebitarsi. Alternativamente, se non ci indebitiamo occorre accettare la seconda conseguenza che è: stiamo consumando la nostra ricchezza accumulata, la qual cosa funziona sino a quando detta ricchezza non si esaurisce. In una economia chiusa la seconda conseguenza è automatica; in un'economia aperta, invece, si può andare avanti per un po' di tempo (magari con il trucco di indebitare le generazioni future attraverso il debito pubblico) fino a quando gli investitori stranieri son disposti a farci credito. Quando costoro, gli investitori stranieri, o ben si stancano di prestarci risorse che forse non siamo in grado di restituire oppure si trovano anch'essi a corto di reddito corrente da prestarci, allora ... da chi prendiamo a prestito? Ma dal nostro reddito futuro, ovviamente, risponde il credente nel mito del moltiplicatore! Davvero? Beh, dipende.

    La confusione ha un'origine duplice. Da un lato, occorre notare che il risparmio è quella cosa da cui provengono gli investimenti e gli investimenti consistono anch'essi, come i panini e le gite al mare, in domanda di beni e servizi che vengono prodotti da qualche impresa. Insomma, se il consumo ha il magico moltiplicatore, anche il risparmio ha il suo e, quindi, genera occupazione e valore aggiunto in base alla medesima regola secondo cui "la domanda crea la propria offerta". Vale a dire: ci sono imprese e lavoratori il cui vantaggio comparato è quello di produrre beni di investimento. Il risparmio consiste, quindi, in "domanda effettiva" per quei lavoratori e quelle imprese. D'altro canto, i credenti nella religione del consumatore-moltiplicatore non sembrano ricordarsi di ciò che chiamiamo, in gergo, "il vincolo inter-temporale di bilancio": quest'ultimo non vale solo per i singoli individui (senso comune: chi non lavora non mangia) ma anche per gli aggregati che chiamiamo "paesi" (senso comune: se non investi oggi con che cavolo produci domani?). Questa seconda osservazione è di qualche rilevanza per i giorni nostri: quando (negli anni scorsi) abbiamo preso a prestito per consumare in quel "oggi" (che oggi-oggi è diventato "ieri") i nostri finanziatori si aspettavano che li ripagassimo con i nostri futuri risparmi. Altrimenti, come potrà, il debito che abbiamo accumulato, essere mai rimborsato? Visto che il problema sembra essere dovuto al fatto che alcuni di noi o (in media) tutti noi ci si trova incapacitati a restituire i debiti contratti, non è che la soluzione forse sta nel risparmiare un pelino di più? Sembra di no, secondo il mito del consumatore-moltiplicatore ... Mettiamo la cosa in modo diverso: il vincolo di bilancio inter-temporale richiede un mix equilibrato (ed inter-temporale anch'esso) di consumo e risparmio. Quando uno ha risparmiato poco e preso a prestito molto per un sacco di tempo, consumare di meno e risparmiare di più è la cosa giusta da fare. Questo vale, sembra, nella casa di ognuno di noi. Com'è che non vale nell'aggregato? I credenti dicono che nel passare dall'individuale all'aggregato avviene una specie di transustanziazione che i mortali non sanno ben intendere ma che, comunque, avviene. Fidatevi, ci dicono: mi sbaglio o durante gli ultimi quindici anni, almeno, ci siamo fidati (faccio per dire: io di mio m'ero fidato proprio per niente) che questa transustanziazione sarebbe avvenuta ed oggi siamo nelle "pettole" perché, ma guarda un po', non è avvenuta ed alcuni di noi sono pieni di debiti che non riescono proprio a ripagare?

    Fuor di metafora e venendo all'oggi: un certo numero di paesi, gli Stati Uniti di gran lunga per primi, si sono dedicati a consumare di più di quanto il loro reddito avrebbe consentito ed hanno finanziato tale consumo con due mezzi. In primo luogo, offrendo la loro ricchezza accumulata (fosse essa costituita di case o di stock di capitale produttivo) come garanzia di tali prestiti. Tale comportamento è apparso ragionevole (lo ammetto: anche a me sino alla cruciale stagione 2001-2004) finché il valore di mercato di tale ricchezza accumulata andava salendo. In secondo luogo, "promettendo" (e qui le virgolette ci vogliono proprio, perché "promettendo" va inteso nel senso di: sia i mutuatari che i finanziatori "avevano previsto") un elevato tasso di crescita del reddito futuro, dal cui reddito i rimborsi del capitale e degli interessi sarebbero dovuti provvenire. Giusto per essere chiari: l'argomento in questione vale soprattutto e fondamentalmente per gli Stati Uniti e meno, molto meno, per gli altri paesi. Vale parzialmente per la Spagna e forse per l'Irlanda; dubito valga per il resto dei paesi europei e credo proprio non valga per l'Italia. Il problema italiano è completamente un altro, tralasciamolo per questa volta e rimaniamo negli USA.

    Come è oramai dolorosamente chiaro, quelle famiglie che stanno risparmiando - siano esse negli Stati Uniti o all'estero non fa differenza, grazie alla globalizzazione dei mercati finanziari - non sono più disposte a far prestiti a quelle famiglie americane che "consumano keynesianamente" allo stesso ritmo con cui l'hanno fatto durante l'ultimo decennio, più o meno. In parte ciò dipende dalla situazione in cui gli intermediari finanziari (cioè: le banche) si trovano. Ma dipende anche, e soprattutto, da altri fatti. I "consumatori keynesiani" made in USA:
    (i) Sono troppo indebitati: se non sono in grado di pagare le proprie case, cosa cavolo prestiamo loro a fare perché si comprino il Ford pick-up nuovo?
    (ii) I loro attivi (case e titoli mobiliari) sembrano avere un valore molto inferiore al previsto e sembra che nessuno se li voglia comprare.
    (iii) Il loro reddito non può crescere tanto velocemente come molti di noi avevamo sognato.
    Sulla situazione delle banche rimando a dei miti futuri (IV e V) ma, per quanto riguarda i "consumatori keynesiani" americani, vi è una sola cosa ragionevole che possono fare: provare a lavorare un pelino di più, cominciare a risparmiare una percentuale più elevata del loro reddito e ripagare un pezzo sostanziale del loro debito. Solo una volta che questo processo di "de-leveraging" avrà luogo (il che significa che non solo il debito degli Stati Uniti d'America sarà diminuito ma che gli investimenti produttivi saranno cresciuti) sarà ragionevole aspettarsi che il consumo possa ripartire di nuovo "alla grande" e che si ricominci ad indebitarsi.
    Qui ci andrebbe una parte complicata e piena di statistiche, che per il momento evito perché mancano sia il tempo che le conoscenze. Il "consumatore keynesiano made in USA" non sono tutte le famiglie americane, sono (più o meno) il 50% più povero delle famiglie americane: quelle sono nei guai seri. La qual cosa ci porta a considerazioni complicate sulla distribuzione del reddito, la produttività media che è fatta dei due famosi polli da una parte e zero polli dall'altra (che fa un pollo in media, ma la media non conta in questi casi, conta quasi solo la varianza) ed altre cose che davvero non mi sento ancora in grado di affrontare ... però teniamocele in mente per il futuro e ritorniamo per ora all'argomento "aggregato".

    L'argomento aggregato non può astrarre dal fatto evidente che la crisi in cui ci troviamo è una crisi di debito/credito alla cui origine vi sono ... un gran numero di famiglie non in grado di rimborsare i loro debiti! Detto altrimenti: l'evidente (e riconosciuta da tutti) causa della crisi è che abbiamo molta meno ricchezza di quanto pensavamo. Quindi i nostri livelli di consumo non sono sostenibili, le imprese e gli investimenti produttivi non possono essere finanziati per mancanza di risorse (leggi: risparmio) e le nostre impegnative di debito sono da cestinare. Per questo i mercati finanziari non hanno "fiducia": come la ricostruiamo la benedetta fiducia? Con quali politiche?

    In una situazione come questa meno risparmio e più consumo, finanziato con debito a breve a tassi zero, è solo una ricevuta per ulteriori e peggiori guai.
    http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/Sette_miti._Anzi%2C_no%3A_sette_confusioni_(I)?fb= keywords

  2. #2
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    Sette Miti. Anzi, no: sette confusioni. (II)

    di michele boldrin, 9 Gennaio 2009
    Consideriamo il secondo mito nella lista. Questo è il mito che ha condotto BB&Co, il mese scorso, a decidere la riduzione dei tassi d'interesse sui fondi federali a zero. Mi viene detto che persino Bob Lucas, sul WSJ, condivide la scelta. Beh, io no: o è inutile, o crea un po' d'inflazione in futuro o, peggio ancora, fissa le aspettative degli agenti in una direzione completamente errata, oltre che altamente pessimistica.

    Questo non è altro che l'eterno mito della "curva di Phillips" o del trade-off "produzione-inflazione", vestito in abiti leggermente diversi. Quasi quattro decenni dopo che questa assurdità venne distrutta, prima teoricamente e poi dalla dura realtà degli anni '70, essa è ancora la norma nelle menti dei politici e dei banchieri centrali.
    Poiché il vecchio nome "stagflation" dovrebbe essere ben noto ai lettori, provo a mettere a fuoco gli episodi più recenti. Riassumiamo comunque i fatti: vi è stata forte crescita negli anni '50 e '60, quando l'inflazione era molto bassa; c'era poca crescita negli anni '70 e fino al 1982, quando l'inflazione fu elevata. Dopo di allora l'inflazione è discesa e la crescita è ripresa. In effetti, la crescita media è stata più elevata tra il 1992 ed oggi che tra il 1982 e il 1992, mentre il contrario è vero per il tasso medio di inflazione. Certamente: mai, durante questo periodo di tempo, abbiamo dovuto affrontare un tasso di crescita negativo dell'indice dei prezzi al consumo. Però: gli anni durante i quali il tasso di inflazione è stato inferiore al 2% (1986, 1998, 2002) non sono stati anni di particolarmente debole crescita del PIL. I dati storici sono ancora più interessanti: nel corso dei due decenni '50-'60 vi furono vari anni di bassa inflazione o persino deflzione. Ma, anche nel corso di tale periodo, un basso tasso di inflazione non si accompagno ad alcuna depressione. Fatta eccezione, dunque, per l'unico episodio dellla Grande Depressione 1929-1939, da dove viene l'idea che la deflazione causa depressione?

    I credenti in questa ipotesi usano spesso l'esperienza del Giappone tra il 1992 ed il 2003 per sostenere che la mancanza di crescita economica fu causata dalla "spirale deflazionistica". Il fatto è che non vi è stata alcuna spirale deflazionistica in Giappone: i prezzi delle attività patrimoniali si gonfiarono durante gli anni '80, ed i loro valori crollarono tra il 1989 (che è più o meno quando il Nikkei raggiunse il suo massimo storico) ed il 1996 (quando il mercato immobiliare toccò per la prima volta il fondo). Da allora, con svariati alti e bassi, i prezzi delle attività patrimoniali giapponesi non si sono mai recuperati e l'indice Nikkei è ora circa il 23% del suo picco storico! In altre parole: quasi vent'anni dopo una deflazione patrimoniale monumentale i giapponesi non sembrano essere alla fame, anzi! La stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti (e in tutto il mondo) durante gli ultimi mesi. Pertanto, abbiamo già sofferto la nostra più importante (e necessaria) deflazione: la deflazione patrimoniale! Mi auguro che i teorici della spirale deflazionistica non abbiamo in mente di voler ri-gonfiare i valori patrimoniali per farli ritornare al punto in cui erano uno o due anni fa! Questo sarebbe disastroso: è un obiettivo impossibile e tentare di raggiungere causerebbe danni veramente sostanziali.

    Durante lo stesso periodo, infatti dopo il 1992, il Giappone ha anche sperimentato una lieve deflazione dei prezzi al consumo. Questa ha consistito di un'inflazione vicina allo zero per un certo numero di anni, con piccoli numeri negativi (-1,0% il più negativo, nel 2001) nel corso gli anni 1999-2002. Nel complesso, tra il 1992 e il 2002, il deflatore del PIL giapponese è passato da 100,1 a 92,3 (la deflazione dei prezzi al consumo è stata pari alla metà) mentre, nel corso dello stesso decennio, il reddito reale pro capite è cresciuto dal 3878 al 4244 (che è circa il 9,5%). Nulla di drammatico, soprattutto se paragonato alle precedenti prestazioni giapponesi, ma nemmeno la fine del mondo. La maggior parte dell'Europa continentale ha fatto solo marginalmente meglio nel corso dello stesso periodo di tempo! Cosa più importante: come abbiamo ormai capito i bassi tassi di crescita giapponesi non sono stati causati dalla deflazione e dalla mancanza di domanda, ma, invece, dalla mancanza di incentivi per gli investimenti interni. Tale mancanza di incentivi era dovuta fondamentalmente alla paralisi del sistema bancario, in cui le banche venivano tenute in vita artificialmente, consentendo loro di accumulare liquidità al di là di ogni ragionevole livello. Ma su questo punto tornerò più avanti, discutendo un altro mito. La cosa più interessante è che il Giappone ha sperimentato la deflazione anche nel 2003 (-0,8%), 2004 (-. 3%), 2005 (-. 1%), 2006 (-. 3%) ed ha avuto un tasso di inflazione molto basso nel 2007 (.3% ). Durante questi anni, però, il tasso di crescita del PIL è stato, rispettivamente, -. 3%, 2,7%, 2,95, 2,6% e 2,2%. In altre parole, la deflazione giapponese è continuata dopo il 2003, mentre la crescita del reddito è ripresa!

    Riassumendo: l'esperienza giapponese non è stata di deflazione generalizzata a seguito di una deflazione patrimoniale due volte la dimensione quella che sperimentiamo attualmente; inoltre la deflazione dei prezzi al consumo non si è associata ad una lunga e grave depressione economica. Soprattutto: dopo che il sistema bancario venne "ripulito" gli ultimi anni hanno visto sia una deflazione relativamente "alta" che una relativamente "alta" crescita economica. Nel corso degli anni precedenti, quando il sistema bancario era "intasato", c'era soltanto meno crescita non di più deflazione! Ancora più importante è il fatto che la deflazione giapponese non è stata una spirale e che il paese non è arrivato al collasso. A mio avviso questi fatti implicano che i tassi di crescita negativi, che è ragionevole aspettarsi nei prossimi trimestri, possono essere dovuti a una varietà di cose (comprese le cattive politiche), ma non vi è alcuna prova che essi siano dovuti alla incipiente "deflazione". Una storia praticamente identica potrebbe essere ripetuta per l'esperienza di Hong-Kong post-1998, ma eviterò al lettore uno noiosa ripetizione.

    Dato che le statistiche e l'evidenza storica non suggeriscono una correlazione (tanto meno un nesso di causalità) tra deflazione e depressione economica, prendiamo in considerazione i due argomenti teorici secondo cui occorre inflazionare per uscire da questa crisi. Il primo è il seguente: in un ambiente deflazionistico i consumatori si aspettano che i prezzi dei beni durevoli diminuiscano in futuro, questo deprime la domanda corrente e porta ad un'ancora maggiore diminuzione dei prezzi, la qual cosa rafforza le aspettative deflazionistiche producendo una drammatica spirale verso il basso. Questo è possibile, in teoria ed in circostanze particolari, quando si danno le condizioni (alquanto complicate, oltre che empiricamente rare) per l'esistenza di "equilibri multipli" dovuti a esternalità di "search". Ci sono motivi per ritenere che il diffuso timore oggi evidente nel settore privato (creato anche dai ripetuti annunci di catastrofi a venire, se questo o quel piano di salvataggio non viene approvato, accoppiati al senso di panico che l'adozione di misure eccezionali di politica monetaria induce) abbia creato una situazione favorevole a tali "cattivi equilibri". Pertanto, non posso escludere tale possibilità, ma preferisco trattarla più come "indotta da una (cattiva) politica" che altro. Pensare che le politiche che hanno creato la crisi ci tireranno anche fuori da essa, è un pio desiderio. Nondimeno, rimango in ansiosa attesa di una replica Obamiana dell'insano appello televisivo di Bush del 24 settembre u.s.: Bush lo utilizzò per cercare di far passare la prima versione del piano Paulson, Obama lo ripeterà per promuovere la sua versione di un "pacchetto di stimolo". Teniamoci saldi.

    Tale teoria omette anche il fatto, evidente ai più, che in un ambiente di deflazione globale anche i salari ed i redditi nominali dovrebbero scendere. In altre parole, o i teorici della deflazione-disastro ci chiedono di credere che i prezzi scenderanno ma i salari non lo faranno - in modo tale che il reddito reale magicamente aumenterà: Alleluja, abbiamo finalmente trovato la soluzione a tutti i nostri problemi - o la storia della spirale sembra improbabile anche teoricamente. Se rinviate l'acquisto odierno in attesa di prezzi più bassi, domani dovrete comprare con un reddito inferiore rispetto a oggi. Se, per compensare, risparmiate una parte del reddito corrente vuol dire che oggi state investendo che è (per gli argomenti dati qui) esattamente quello che dovremmo fare. Risparmiare non riduce la domanda aggregata di oggi: semplicemente ne cambia la composizione. I teorici della spirale, a questo punto, possono solo affermare che le famiglie nasconderanno centinaia di miliardi di dollari sotto i loro materassi. Possibile, ma non sembra: per il momento le famiglie comprano buoni del tesoro o, semplicemente, lasciano i soldi in alcune banche di cui si fidano. Il problema è: perché queste banche non prestano (assumo sia vero che le banche non stanno proprio prestando, occorrerà ritornarci)? In sintesi: o i ripetuti annunci di BB & GWB ci hanno portato ad una situazione di "equilibrio recessivo dovuto ad aspettative pessimistiche" (in tal caso, devono invertire le loro politiche e smetterla di parlare così tanto), o l'argomento "spirale deflazionistica" è una sciocchezza. Se l'impatto che la deflazione (ammesso che sia in atto) ha è quello di portare a più risparmio e meno consumo, allora sarebbe un bene e non un male.

    Nonostante tutto, è ragionevole sostenere che il mercato degli alloggi, sia negli Stati Uniti che nell'Unione Europea, è in uno stato di attività molto debole poiché molti potenziali acquirenti sono in attesa di vedere in che misura i prezzi scenderanno. Questo crea ulteriore pressione al ribasso aggravando in tal modo la frequenza di default. Creare domanda di case, e di beni durevoli come le auto più in generale, appare quindi auspicabile. È auspicabile, ma è anche difficile se vogliamo farlo senza causare seri danni collaterali. La ragione è sviluppata nel seguente paragrafo che descrive (credetemi) quello che ha in mente BB nei suoi giorni buoni. Egli vorrebbe far credere questo ai consumatori USA: domani ci sarà inflazione, ma i redditi nominali non cresceranno. Meglio, dunque, procedere all'acquisto di beni durevoli ora che siamo in grado di farlo. Una volta che i consumatori credano che questa inflazione asimmetrica si realizzerà egli (BB) vuole anche assicurarsi di compiere i seguenti miracoli. L'inflazione, in realtà, non si gonfia però parte giusto un pelino (ma i redditi nominali no, altrimenti siamo punto e a capo); non appena la gente inizia ad acquistare case e beni durevoli e la macchina riparte (c'è un problema, lo so ... come riparte la macchina se i redditi nominali stanno fermi? Transeat, questa anomalia concediamogliela) lui ricomincia ad aumentare lentamente i tassi (così nessuno se ne accorge) ed evita un'esplosione dell'inflazione sia dei prezzi che dei redditi nominali. In questo modo non ci sarà inflazione ma ci sarà la ripresa economica ... Se questa fantasia vi suona molto simile al trucco da circo che BB ed il suo predecessore han cercato di mettere in atto tra il 2001 e il 2006, facendoCI cadere addosso sia piatti che bicchieri, avete colto il punto. Infatti è lo stesso trucco, i cui risultati ci stiamo tutti godendo. Questa volta, però, BB & Co han detto che hanno imparato come farlo bene senza farci cadere addosso piatti e bicchieri.

    Il secondo argomento teorico è più cinico: abbiamo bisogno di sgonfiare i debiti che non siamo in grado di rimborsare, e questo si ottiene inflazionando. Questa idea funzionerebbe se i creditori fossero davvero "qualcun altro" (i cinesi?) e "noi" fossimo solo i debitori. In questi casi si fa come hanno ripetutamente fatto gli argentini, che sono furbi e nel breve periodo se la cavano sempre ... cioè, se la cavano fino alla prossima volta che hanno bisogno di prendere a prestito! Verificate come i nostri cari cugini imbroglioni se la passano in questi giorni, quando nessuno presta più loro una lira! In ogni caso il problema non si pone perché, oggi come oggi, "loro" (i creditori) siamo "noi" (i debitori)!

    Immaginate, infatti, che l'intera operazione inflazionistica abbia successo: i prezzi aumenteranno, i prezzi degli alloggi non cadranno più e magari aumentaranno un po'. Quest'ultimo deve essere veramente "un po'" e sicuramente non tanto quanto l'IPC perché, come affermato in precedenza, un riallineamento dei prezzi relativi è necessario, sano e inevitabile. Altrimenti tutti i discorsi sulla bolla sarebbero assurdi, nel qual caso possiamo anche andare tutti a casa. Inoltre, perché la cosa funzioni, occorre un aumento del valore nominale dei redditi (salari compresi) di circa la stessa percentuale dell'IPC: se i redditi nominali non crescono, mentre l'IPC lo fa, siamo in guai ancora peggiori perché i redditi reali calerebbero e questo, dopo il calo della ricchezza che abbiamo già sperimentato, ridurrebbe ulteriormente la domanda e, quasi certamente, aumenterebbe il tasso di default sui prestiti ... Mi auguro che questo punto sia chiaro, perché è fondamentale.
    Si supponga, quindi, che questo miracolo accada: tutti i prezzi ed i salari aumentano, per esempio, del 10% all'anno per i prossimi due anni, i prezzi degli alloggi aumentano, per esempio, del 2% e la produzione cresce. Cosa succederà ai mercati finanziari e alle banche in particolare? Le banche, di per sé, sembrano non avere problemi: devono quantità nominali e stanno meglio ... Ma, e qui sta la trappola, i finanziatori delle banche siamo noi e noi non siamo così stupidi (quando agiamo come finanziatori) quanto lo siamo (apparentemente) nel prendere a prestito. Il motivo è semplice: i tassi d'interesse reagiscono all'inflazione, e reagiscono rapidamente. Non dimentichiamo che la maggior parte dei prestiti sono ARMs e che Libor, Euribor e tutto il resto, non stanno fermi un minuto: se spunta l'inflazione essi ripartono. A questo punto siamo tornati alla casella di partenza: il 10% di inflazione implica un aumento del 10% dei tassi nominali, che corrispondono al 10% di aumento del valore nominale dei redditi! La situazione reale delle famiglie, che ora hanno problemi a pagare i loro debiti, rimane esattamente la stessa!

    Beh, probabilmente non esattamente la stessa, perché, come abbiamo appreso per esperienza, l'inflazione porta a cambiamenti imprevisti e dannosi dei prezzi relativi che portano a perturbazioni economiche che portano, quasi sempre, a minore reddito reale. Per fortuna (strana fortuna, ma sempre fortuna è) che i mercati finanziari non sembrano (finora) ritenere che BB avrà successo: i tassi di interesse nominali sono in continua diminuzione. In altre parole, le banche stanno prendendo tutto il credito che viene pompato dalla Fed per accumulare riserve e non per spendere, ossia prestare. Nel caso in cui inizino a prestare aspettandosi tassi bassi per un lungo periodo ... vedremo se si ripete il 2001-2004 oppure no. Voi, che dite?

    In sintesi: abbiamo sperimentato una grande deflazione patrimoniale, purtroppo inevitabile. A questa deflazione patrimoniale seguirà un lieve deflazione dei prezzi al consumo e, forse, dei redditi nominali dovuta, tra le altre cose, al fatto che le componenti di costo legate ai valori delle attività patrimoniali sono ora inferiori. Fatti e teoria suggeriscono che tale lieve deflazione, per sé, non causa una spirale o una depressione. Essa comporta, semplicemente, un riallineamento dei prezzi relativi, riallineamento che credo molto necessario e comunque inevitabile. Se dovesse venire la depressione, l'esperienza dimostra, sarà perché i mercati finanziari (ossia, le banche) rimangono "intasati" e non operativi. Qui è dove l'attenzione dei responsabili politici dovrebbe concentrarsi, non sulla deflazione.

    Infine, vi è il problema della formazione delle aspettative guidate dalle attuali politiche monetarie e fiscali. Vale a dire il fatto che, osservando un governo ed una Federal Reserve che prendono azioni estreme, gli agenti privati (ragionevolmente) interpretano queste azioni come un segnale che il "governo sa qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa di veramente brutto". In questi casi vendere azioni e ridurre i piani di investimento, perché la fine del mondo è vicina, appare stranamente ragionevole ... Potrebbe venire la fine del mondo, ma se venisse io sosterrò che BB & Co hanno contribuito a causarla.
    http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/Sette_Miti._Anzi%2C_no%3A_sette_confusioni._(II)?f b=keywords

  3. #3
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    aspetto con impazienza il terzo capitolo

  4. #4
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    l'approccio neoclassico mi affascina molto, e sono convinto che i comunisti dovrebbero guardare più questo che il keynesismo.

    mò è tardi, domani lo leggo.

  5. #5
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    Citazione Originariamente Scritto da Feliks Visualizza Messaggio
    l'approccio neoclassico mi affascina molto, e sono convinto che i comunisti dovrebbero guardare più questo che il keynesismo.

    mò è tardi, domani lo leggo.
    perchè ti hanno insegnato solo l'approccio marxista?

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da (Controcorrente Visualizza Messaggio
    perchè ti hanno insegnato solo l'approccio marxista?
    no, quello keynesiano

    l'"approccio marxista" è molto più vicino a quello neoclassico di quanto si pensi

  7. #7
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    Citazione Originariamente Scritto da Feliks Visualizza Messaggio
    no, quello keynesiano

    l'"approccio marxista" è molto più vicino a quello neoclassico di quanto si pensi
    che tipo di keynesismo? post-keynesiani?

    l'approccio marxista sarà anche vicino a quello neoclassico, ma di sicuro le conclusioni sono completamente differenti

 

 

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