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    Predefinito FORMAZIONE - Podhoretz: La Quarta Guerra Mondiale_2

    Calcoli errati

    Bin Laden non è stato il primo nemico di un regime democratico ad essere incoraggiato da simili impressioni. Negli anni trenta, Adolf Hitler fu convinto dell'incapacità degli inglesi di riarmarsi per difendersi dalla nuova minaccia, così come dalla loro politica di appeasement nei suoi confronti, che l'Inghilterra fosse sulla via del declino e non sarebbe mai scesa in guerra, nemmeno se avesse continuato ad invadere un paese dopo l'altro.
    Lo stesso vale per Joseph Stalin all'indomani della seconda guerra mondiale. Incoraggiato dalla rapida smobilitazione degli Stati Uniti (cosa che ai suoi occhi significava che non eravamo preparati e disposti ad opporci alle sue iniziative con la forza militare), Stalin violò la promessa che aveva fatto a Yalta quando aveva accettato di organizzare libere elezioni nei paesi dell'Europa orientale occupati dalla Russia alla fine della guerra. Al contrario, consolidò il suo dominio su questi paesi, e si rivolse minacciosamente verso la Grecia e la Turchia.
    Dopo la morte di Stalin, i suoi successori ripeterono lo stesso gioco tutte le volte che percepivano un indebolimento della determinazione americana. In certi casi si trattò di manovre intese a stabilire un equilibrio di potenza militare favorevole all'Urss. In altri, si trattò di utilizzare come strumento i partiti comunisti locali o altri canali. Ma grazie al declino della potenza americana dopo il ritiro dal Vietnam (un declino riflesso dal diffondersi, alla fine degli anni Settanta, di tendenze isolazioniste e pacifiste, ed espresso in termini concreti da una riduzione delle spese militari), Leonid Breznev non ebbe alcun timore nell'inviare le sue truppe in Afghanistan nel 1979.
    Fu lo stesso declino della potenza americana, così stranamente incarnato da Jimmy Carter, che, meno di due mesi prima dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, aveva incoraggiato l'ayatollah Khomeini a prendere in ostaggio cittadini americani. Senza dubbio, molti negarono che l'audace azione di Khomeini avesse alcunché a che fare con la sua convinzione che, con Carter, gli Stati Uniti fossero diventati impotenti. Ma questa tesi non poteva essere sostenuta di fronte al contrasto tra il comportamento mantenuto dal regime khomeinista in occasione dell'attacco alla nostra ambasciata di Teheran e l'aiuto invece offerto ai sovietici quando un gruppo di manifestanti iraniani cercò di fare irruzione nell'ambasciata sovietica subito dopo l'invasione dell'Afghanistan.
    I fondamentalisti islamici al potere in Iran odiavano il comunismo e l'Unione Sovietica con la stessa forza con cui odiavano gli Stati Uniti, in particolare dopo l'invasione di un paese musulmano. Di conseguenza, il diverso atteggiamento mantenuto da Khomeini non può essere spiegato da fattori ideologici o politici. La spiegazione sta nella paura delle ritorsioni sovietiche; quanto agli Stati Uniti, ci si aspettava invece che, avendo perso la loro determinazione, avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di evitare l'uso della forza.
    Lo stesso vale per Saddam Hussein. Nel 1990, durante la presidenza di George Bush padre, Saddam Hussein invase il Kuwait in quello che fu ampiamente, e giustamente, considerato il primo passo di un piano per assumere il controllo dei pozzi petroliferi medio-orientali. Il presidente americano, incoraggiato da Margaret Thatcher, allora primo ministro dell'Inghilterra, dichiarò che l'invasione non sarebbe stata tollerata e mise insieme una coalizione che inviò una forza imponente nella regione. Già questo soltanto avrebbe potuto impaurire Saddam e convincerlo a ritirarsi dal Kuwait, se non fosse stato per l'ondata di isteria che si abbattè sugli Stati Uniti, dove si prediceva che, se fossimo entrati in guerra contro l'Iraq, sarebbero tornate in patria decine di migliaia di "sacchi neri" con i corpi dei soldati americani. Non senza ragione, Saddam concluse che, se avesse tenuto duro, gli americani avrebbero ceduto.
    Il fatto che Saddam avesse fatto male i suoi calcoli e che l'America fosse passata dalle minacce ai fatti non impressionò particolarmente Osama bin Laden. Dopo tutto, temendo le numerose perdite che avremmo subito se, dopo la liberazione del Kuwait, ci fossimo diretti su Baghdad, avevamo permesso a Saddam di restare al potere. Per bin Laden, questa non era altro che un'ulteriore prova della debolezza che avevamo già dimostrato con l'inefficace politica sul terrorismo seguita da una lunga serie di presidenti americani. Non stupisce che fosse convinto di poter colpirci sul nostro territorio, e scamparla.
    Tuttavia, proprio come Saddam aveva fatto male i suoi calcoli nel 1990 (e come avrebbe di nuovo fatto nel 2002), bin Laden non capì affatto come avrebbero reagito gli americani se fossero stati colpiti sul loro stesso territorio. Con ogni probabilità, si aspettava un crollo nella disperazione e nella demoralizzazione; invece, ciò che ha ottenuto è stato uno scoppio di rabbia e una rinascita di sentimento patriottico come gli americani più giovani li avevano visti soltanto al cinema e di cui non avevano mai avuto esperienza personale.
    In questo senso, bin Laden ha fatto per questo paese esattamente ciò che Khomeini aveva fatto prima di lui. Prendendo in ostaggio cittadini americani, e scampandola senza subire alcune ritorsioni Khomeini aveva inflitto una grande umiliazione agli Stati Uniti. Ma, allo stesso tempo, aveva rivelato quanto fosse stupida la visione del mondo che aveva Jimmy Carter. La stupidità non stava nel fatto che Carter si era reso conto che, perlomeno da dopo il Vietnam in poi, la potenza militare, economica, politica e morale dell'America aveva continuato a decadere. Stava invece nelle conclusione che Carter ne trasse. Anziché proporre politiche intese a fermare il declino, sostenne che la causa risiedesse nel gioco di forze storiche che non potevano in alcun modo essere né fermate né rallentate. A suo giudizio, invece di lamentarci e agitarci in un vano tentativo di riprendere il nostro posto al sole, dovevamo per prima cosa riconoscere, accettare e subire questo inesorabile sviluppo storico, e poi reagire "con misurato equilibrio".
    In un sol colpo, l'ayatollah Khomeini mandò all'aria l'illusoria filosofia di Carter, facendola apparire assurda agli occhi di moltissimi americani, compresi quelli che prima l'avevano condivisa. Parallelamente, nuovo coraggio fu infuso in coloro che, rifiutando l'idea che il declino americano fosse inevitabile, avevano sostenuto che la ragione stesse nelle politiche sbagliate e che la tendenza potesse essere invertita ritornando a quelle politiche più efficaci grazie alla quali eravamo diventati una superpotenza.
    Tutta la vicenda divenne quindi una delle forze che spingevano una già risoluta determinazione a ricostruire la potenza americana, e il risultato finale fu l'elezione di Ronald Reagan, che aveva impostato la sua campagna elettorale proprio su questo tema. E malgrado tutti i difetti del suo modo di affrontare il terrorismo, Reagan mantenne la sua promessa e ricostruì la potenza americana. E' stato proprio questo a determinare la vittoria in quella guerra fredda che si combatteva fin dal 1947, quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di resistere contro ogni ulteriore avanzata dell'impero sovietico.
    Ben pochi contemporanei di Truman si sarebbero mai sognati che questo prodotto della macchina politica di Kansas City, il quale aveva passato la sua vita occupandosi di tasse e di ferrovie, si sarebbe opposto con tale decisione e successo contro la minaccia dell'imperialismo sovietico. Nello stesso modo, cinquantaquattro anni dopo di lui, un altro politico con una reputazione piuttosto bassa e fino ad allora mai interessato alla politica estera si sarebbe trovato di fronte ad una sfida probabilmente molto più difficile di quella che dovette affrontare Truman; e anche lui ha stupito i suoi contemporanei per la determinazione con la quale ha reagito.
    In "The Sources of Soviet Conduct" (del 1947) la difesa teorica della strategia adottata da Harry Truman per combattere la nuova guerra, George F. Kennan (allora direttore del Policy planning staff del Dipartimento di Stato, e autore del documento con lo pseudonimo "X"), descriveva questa strategia come "un contenimento di lungo termine, paziente ma risoluto e attento alla volontà di espansione russa () per mezzo dell'applicazione acuta e vigile della controforza in una serie di aree geografiche e politiche in costante mutamento".
    In altri termini (sebbene lo stesso Kennan non abbia usato proprio quelle parole), avevamo di fronte la prospettiva di un'altra guerra mondiale; e ­ benché negli anni successivi, sconfessando il significato evidente delle parole che lui stesso aveva usato, Kennan cercasse di pretendere che la "controforza"che aveva in mente non fosse di tipo militare ­ non sarebbe stata una guerra completamente "fredda". Prima della sua conclusione, sarebbero morti oltre 100.000 americani sui lontani campi di battaglia della Corea e del Vietnam, e sarebbe stato sparso anche il sangue di molti nostri alleati nella lotta ideologica e politica contro l'Unione Sovietica su quegli stessi campi di battaglia e in molti altri ancora.
    Per queste ragioni, sono d'accordo con uno dei nostri quattro più autorevoli studiosi di strategia militare, Eliot A. Cohen, il quale ritiene che a quella che si definisce normalmente "guerra fredda" (un'espressione, detto per inciso, coniata dalla propaganda sovietica) dovrebbe essere dato un altro nome. "La guerra fredda", scrive Cohen, fu in realtà "la terza guerra mondiale, cosa che ci fa ricordare che non tutti i conflitti globali implicano il movimento di eserciti di milioni di uomini, o le convenzionali linee del fronte disegnate su una carta". Sono anche d'accordo sul fatto che la natura del conflitto che combattiamo oggi può essere compresa adeguatamente soltanto se lo consideriamo come la quarta guerra mondiale.
    Per giustificare questo nome (anziché, per esempio, "guerra al terrorismo"), Cohen elenca "alcune caratteristiche fondamentali" che l'accomunano alla terza guerra mondiale: "Il fatto che sia, in effetti, globale; che preveda una combinazione di iniziative militari e non militari; che richieda la mobilitazione di notevoli capacità, esperienze e risorse, se non di un vasto numero di soldati; che possa durare molto tempo; che abbia radici ideologiche".
    C'è ancora una caratteristica in comune non menzionata da Cohen: sia la terza che la quarta guerra mondiale sono state dichiarate per mezzo di una dottrina presidenziale. La dottrina Truman del 1947 nacque con l'annuncio che "la politica degli Stati Uniti doveva essere a sostegno dei popoli liberi che resistono contro la sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne". Cominciando con un programma speciale di aiuti alla Grecia e alla Turchia, che erano minacciate dalla possibilità di un golpe comunista, la strategia fu presto estesa lanciando un ambizioso programma di aiuti economici noto come Piano Marshall.
    Lo scopo del Piano Marshall era quello di promuovere e affrettare la ricostruzione dell'economia dell'Europa occidentale, distrutta dalla guerra: non solo perché si trattava di una cosa giusta in sé, né soltanto perché era nell'interesse americano, ma anche perché avrebbe contribuito a eliminare le rimostranze di cui il comunismo si nutriva.
    Poi avvenne però un colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia. Essendo avvenuto subito dopo l'insediamento nei paesi occupati dell'Europa dell'est di regimi fantoccio da parte dell'Unione Sovietica, il colpo di Stato cecoslovacco dimostrò che le misure economiche non sarebbero state sufficienti per allontanare un analogo pericolo per l'Italia e la Francia da parte dei fortissimi partiti comunisti locali completamente asserviti a Mosca. Sulla base di questa consapevolezza (e di analoghe preoccupazioni su una possibile invasione sovietica dell'Europa occidentale) fu creata la North Atlantic Treaty Organization (Nato).
    Il contenimento si presentava quindi come una strategia triplice: economica, politica e militare. Tutte e tre queste componenti sarebbero state utilizzate in varia misura nel corso dei quattro decenni che ci sono voluti per vincere la terza guerra mondiale.
    Se la dottrina Truman si è dispiegata in modo graduale, rivelando il suo pieno significato poco a poco, la dottrina Bush è stata enunciata in modo pressoché completo in un solo discorso, pronunciato davanti a una seduta plenaria del Congresso il 20 settembre 2001. E' stata poi ulteriormente chiarita ed elaborata in tre successive dichiarazioni: il primo discorso sullo stato dell'Unione pronunciato da Bush il 29 gennaio 2002; il discorso all'accademia militare di Westpoint del primo giugno 2002 e le osservazioni sul medioriente rilasciate tre settimane dopo, il 24 giugno. A parte questa differenza, lo stupore è stato altrettanto grande che al tempo di Truman, sia per il contenuto della nuova dottrina sia per la trasformazione che rivelava nel suo autore. Perché George W. Bush, che in politica estera era sempre stato un più o meno passivo discepolo di suo padre, si era messo a parlare come un combattivo seguace di Ronald Reagan.
    In netto contrasto con Reagan, generalmente considerato un pericoloso ideologo, Bush padre (che era stato vicepresidente di Reagan) fu spesso accusato di non avere alcuna "visione ideale". L'accusa era giusta perché Bush padre non aveva in effetti alcun principio guida per il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero potuto svolgere nel rimodellamento del mondo post guerra fredda. Tenace sostenitore del punto di vista "realista" negli affari mondiali, riteneva che il mantenimento della stabilità fosse lo scopo precipuo della politica estera americana, e la sola via saggia e prudente da seguire. Perciò, quando, nel 1991, Saddam Hussein sconvolse l'equilibrio di potenza in medioriente invadendo il Kuwait, Bush entrò in guerra non per creare una nuova configurazione nella regione ma per restaurare lo status quo ante. E fu a causa della stessa dominante preoccupazione per il mantenimento della stabilità che, dopo avere realizzato l'obiettivo di cacciare Saddam dal Kuwait, Bush lo lasciò al potere.
    Prima e dopo l'11 settembre

    Quanto al secondo presidente Bush, prima dell'11 settembre era, secondo tutte le apparenza, altrettanto privo di una "visione ideale". Se nutriva qualche dubbio sull'opportunità dell'approccio "realista", non lo dava a vedere. Nulla di ciò che diceva o faceva poteva in alcun modo far supporre che fosse insoddisfatto dell'idea secondo la quale il suo principale compito in politica estera era quello di mantenere in equilibrio la situazione. Né c'era alcun segno che potesse essere attratto dalla più "idealistica" ambizione reaganiana di cambiare il mondo, e in particolare con il fine "wilsoniano" di renderlo un luogo "sicuro per la democrazia" incoraggiando in tutti i paesi possibili le libertà di cui godevano gli americani. E' per questo che il discorso fatto da Bush il 20 settembre 2001 ha lasciato tutti di stucco. Pronunciato soltato nove giorni dopo l'attacco al World Trade Center e al Pentagono, con l'ufficiale dichiarazione che gli Stati Uniti erano ora in guerra, il discorso del 20 settembre diede a questa nazione la consapevolezza che, pur se era stato davvero un rigido e tradizionale realista come suo padre, George W. Bush era ora diventato un politico rinato come un appassionato idealista della democrazia secondo il modello reaganiano.
    Questo discorso fu anche l'atto di nascita della dottrina Bush, nella quale si delineava il concetto di quarta guerra mondiale con la stessa chiarezza con cui nella dottrina Truman si era delineato quello di terza guerra mondiale. Bush non definì esplicitamente quarta guerra mondiale il nuovo conflitto, ma lo caratterizzò come il diretto successore delle due precendenti guerre mondiali. Così, a proposito della "rete terroristica globale" che ci aveva attaccato sul nostro stesso suolo, disse: "Abbiamo già visto questo tipo di cose. Sono le eredi di tutte le violente ideologie del ventesimo secolo. Sacrificando la vita umana al servizio delle loro idee radicali, rinunciando ad ogni valore tranne che alla volontà di potenza, seguono la strada del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E continueranno a seguire quella strada fino a precipitare nella fossa comune delle menzogne".
    Se questo passaggio, all'inizio del discorso, collegava la dottrina Bush a quella Truman e alla grande battaglia prima combattuta da Franklin D. Roosevelt, la parte finale dimostrava che, se il presidente George W. Bush non aveva fino ad allora avuto una "visione ideale", ora gli luccicava addirittura negli occhi. "Ci è stato fatto un enorme male", proclamò verso la fine, "abbiamo subito una grande perdita. Ma nel nostro dolore e nella nostra rabbia abbiamo trovato la nostra missione e il nostro scopo". Poi ne definì concretamente il contenuto: "Il progresso della libertà umana, il grande risultato del nostro tempo e la grande speranza di sempre, ora dipende da noi. La nostra nazione libererà il suo popolo e il suo futuro da quest'oscura minaccia di violenza. Con il nostro impegno e il nostro coraggio, chiameremo a raccolta il mondo. Non si stancheremo, non tentenneremo e non falliremo".
    Alla fine del suo appello, usando in parte le stesse parole che prima aveva riferito alla nazione nel suo complesso, Bush passò a parlare in prima persona, giurando il proprio impegno nella grande missione che tutti eravamo chiamati a compiere: "Non dimenticherò la ferita inferta al nostro paese né tantomeno coloro che ci hanno colpito. Non esiterò, non mi fermerò e non mi tirerò mai indietro in questa battaglia per la libertà e la sicurezza del popolo americano. Lo svolgimento di questo conflitto è ignoto, ma il suo risultato è certo. La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra, e noi sappiamo che Dio non è neutrale in questa lotta".
    Nemmeno Ronald Reagan, il "Grande Comunicatore", aveva mai espresso con simile eloquenza lo slancio "idealistico" sul quale si fondava la sua concezione del ruolo dell'America nel mondo. E non è stata la sola volta che Bush ha battuto su questo tasto. Due anni e mezzo dopo il discorso del 20 settembre 2001, in un momento in cui la guerra sembrava andare molto male, ha ribadito le stesse idee con cui aveva cercato di rincuorare la nazione subito dopo gli attentati. L'occasione è stata un discorso d'apertura alla Air Force Academy, pronunciato il 2 giugno 2004, nel corso del quale ha ripetutamente posto la "guerra contro il terrorismo" in diretta successione alla seconda e alla terza guerra mondiale. Ha anche rinunciato a qualsiasi cortesia diplomatica nel suo rifiuto del realismo: "Per decenni, le nazioni libere hanno tollerato, in nome della stabilità, l'oppressione in medioriente. In pratica, questo atteggiamento ha portato soltanto a meno stabilità e a più oppressione. Perciò, ho deciso di cambiare politica".
    E in modo ancora meno diplomatico: "Alcuni di coloro che si definiscono realisti si chiedono se la diffusione della democrazia in medioriente debba essere una nostra preoccupazione. Ebbene, i realisti in questo caso hanno perso contatto con una realtà fondamentale: l'America è sempre stata meno al sicuro quando la libertà è costretta a battere in ritirata, e lo è sempre stata di più quando la libertà marcia trionfalmente in avanti".
    Per coronare il tutto, Bush ha infine asserito che la sua politica, da lui giustificata in primo luogo come il modo migliore per proteggere gli interessi americani, si inseriva anche nel solco della versione reaganiana dell'idealismo wilsoniano: "Questo conflitto avrà molte svolte, e ci saranno disfatte lungo la strada della vittoria. Ma la nostra fiducia deriva da una convinzione incrollabile: Noi crediamo nelle parole di Ronald Reagan, il quale affermava che 'il futuro appartiene agli uomini liberi'".
    Il primo pilastro della dottrina Bush, dunque, poggia sul rifiuto del relativismo morale e su una affermazione aperta e risoluta della necessità e della possibilità di un giudizio morale nell'ambito degli affari internazionali. E per essere certo che ciò che aveva detto il 20 settembre 2001 aveva colpito nel segno, Bush lo ha ribadito con precisione ancora maggiore nel discorso sullo stato dell'Unione, pronunciato il 29 gennaio 2002.
    Bush aveva ottenuto da molti un entusiastico applauso per la "chiarezza morale" del suo discorso del 20 settembre, ma aveva anche provocato un disprezzo e un disgusto ancora più profondi in numerosi pensatori "progressisti", commentatori "raffinati" e diplomatici, tanto in patria quanto all'estero. Nel discorso sullo stato dell'Unione esasperò addirittura il loro sdegno mettendosi a parlare in modo più specifico. Mentre prima aveva parlato soltanto in termini generali del nemico contro il quale dovevamo combattere la quarta guerra mondiale, ora Bush indicò tre nazioni (Iraq, Iran e Corea del Nord), da lui definite come parte di un "asse del male".


    Dall'impero all'asse

    Ancora una volta Bush seguiva in questo le orme di Ronald Reagan, il quale aveva denunciato l'Unione Sovietica (nostro principale nemico durante la terza guerra mondiale) come un "impero del male" ed era stato accolto da un autentico scoppio di isteria nelle ambasciate, nelle università e nei giornali di tutto il mondo. Male? Quale posto poteva avere una parola come quella nel vocabolario degli affari internazionali, concesso poi che non sarebbe mai venuto in mente a una persona illuminata di riesumarla dal cimitero dei concetti antiquati nemmeno per impiegarla in qualsiasi altro ambito? Ma agli occhi degli "esperti", Reagan non era affatto una persona illuminata. Era invece un "cowboy", un attore di film di serie B, il quale, per qualche meccanismo perverso della democrazia, era riuscito a salire alla Casa Bianca. Per la sua denuncia dell'impero sovietico, Reagan fu accusato sia di volere scatenare una guerra nucleare sia di essere troppo stupido per capire ciò che la sua retorica violentemente provocatoria avrebbe inavvertitamente potuto provocare.
    La reazione di fronte alle parole di Bush è stata forse meno isterica ma più sprezzante e sdegnata rispetto a quella suscitata da Reagan, dal momento che in questo caso non si è paventata la guerra nucleare. Ma l'atmosfera è stata altrettanto spessa e fitta di scherno e derisione. Chi altri se non un ignorante sempliciotto ­ o un fanatico fondamentalista religioso ­ potrebbe ricorrere a antiquati e sorpassati commenti morali assoluti come "bene" e "male"? Da un lato, ci voleva davvero una massiccia dose di semplicioneria per bollare un'intera nazione come il "male"; dall'altro, soltanto uno sciocco come Bush (ancora più di Reagan) poteva convincersi e sostenere con completa e infantile sincerità che solo gli Stati Uniti, tra tutti i paesi del mondo, rappresentino il bene. Senza dubbio soltanto un ignorante zoticone può non essere consapevole degli innumerevoli crimini commessi dall'America, tanto sul suo stesso suolo quanto all'estero; crimini che i più autorevoli intellettuali del paese hanno documentato con la massima precisione richiesta dalla ormai classica visione accademica della storia di questo paese.
    Ecco come si esprime Gore Vidal, uno di questa schiera di intellettuali: "Insomma, vedere Bush fare la sua piccola danza di guerra nel Congresso contro i "malfattori" e "l'asse del male" () Ho pensato: non sa nemmeno che cosa significhi la parola 'asse'. Qualcuno deve avergliela suggerita. E' forsa la cosa più insensata che si possa dire. Poi se ne viene fuori con una dozzina di altri paesi che ospitano gente 'cattiva', che potrebbe compiere 'atti terroristici'. Che cos'è un atto terroristico? Tutto ciò che secondo lui è un atto terroristico. E noi daremo la caccia ai terroristi. Perché noi siamo il bene e loro sono il male. E li 'beccheremo'".
    Sono parole più dure e violente di quelle lette sulle pagine degli editoriali, ascoltate nei think tank e nei ministeri esteri o espresse dalla maggior parte degli altri intellettuali, ma in realtà niente affatto diverse da ciò che quasi tutti costoro pensano e dicono in privato.
    Ma si è capito abbastanza presto che Bush non si sarebbe fatto intimidire. In successive dichiarazioni ha continuato a ribadire il primo pilastro della sua dottrina e ad affermare l'universalità del fine morale che anima questa nuova guerra: "Alcuni si preoccupano del fatto che non sia diplomatico o gentile parlare nei termini di ciò che è giusto o sbagliato. Non sono d'accordo. Circostanze differenti richiedono metodi differenti, ma non principi morali differenti. La verità morale è la stessa in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni luogo. Siamo impegnati in una battaglia tra il bene e il male, e l'America chiama il male con il suo nome".
    Poi, con un affascinante salto nel grande dibattito teoretico dell'era post guerra fredda (sebbene senza identificare i principali partecipanti), Bush si è schierato apertamente dalla parte della molto fraintesa tesi di Francis Fukuyama sulla "fine della storia", secondo la quale la sconfitta del comunismo aveva eliminato il solo vero rivale del nostro sistema politico: "Il ventesimo secolo si è concluso con un solo modello ancora in vita di progresso umano, fondato su esigenze imprescindibili della dignità umana, sul regno della legge, sui limiti del potere dello Stato, sul rispetto delle donne, della proprietà privata, della libertà di parola, della giustizia uguale per tutti e della tolleranza religiosa".
    Dopo avere condiviso la tesi di Fukuyama, Bush ha respinto la tesi rivale del politologo Samuel Huntington, secondo il quale stiamo assistendo ad uno "scontro di civiltà", nato dal conflitto fra visioni apparentemente incompatibili dominante nelle varie regioni del mondo: "Quando si tratta dei diritti comuni e delle esigenze degli uomini e delle donne, non c'è nessuno scontro di civiltà. I canoni della libertà sono gli stessi in Africa, in America Latina e nel mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche desiderano e meritano le stesse libertà e le stesse opportunità che hanno i popoli di altre nazioni. I loro governi devono soddisfare queste speranze".


    Il regime change

    Se il primo dei quattro pilastri sui quali poggia la dottrina Bush è rappresentato da un nuovo atteggiamento morale, il secondo è costituito da un altrettanto significativo spostamento di concezione sul terrorismo rispetto alla definizione che si è imposta nel mondo accademico e in quello degli intellettuali. In base a questa nuova concezione (confermata ripetutamente dal fatto che la maggior parte dei terroristi di cui sappiamo qualcosa provengono da famiglie benestanti), il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici. Le "paludi" in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell'oppressione politica. Soltanto prosciugando queste paludi attraverso una strategia di "cambio di regime" possiamo liberarci dalla minaccia del terrorismo e allo stesso tempo dare ai popoli di "tutto il mondo islamico" le libertà che "desiderano e meritano".
    Inoltre, secondo questa nuova concezione, i terroristi, con pochissime eccezioni, non sono folli che agiscono per proprio conto, ma agenti di organizzazioni che dipendono dall'appoggio di vari governi. Il nostro scopo, perciò, non può essere semplicemente quello di catturare o uccidere Osama bin Laden e di annientare i terroristi di al Qaida che stanno ai suoi ordini. Bush ha giurato che sradicheremo e distruggeremo l'intera rete delle organizzazioni e delle cellule terroristiche "con ramificazioni globali" che hanno le proprie basi in almeno 50 o 60 paesi. Non considererò più i membri di questi gruppi come criminali comuni che devono essere arrestati dalla polizia, ai quali devono essere concessi tutti i diritti e che devono essere sottoposti a regolare processo. Da ora in poi, devono essere considerati come cambattenti irregolari di una alleanza militare in guerra contro gli Stati Uniti, e anzi contro tutto il mondo civile.
    Non che questa analisi del terrorismo fosse stata esattamente un segreto. Lo stesso Dipartimento di Stato aveva redatto un elenco di sette Stati sponsor del terrorismo ­ tutti tranne due, Cuba e la Corea del Nord, sono a maggioranza musulmana ­ e pubblicava regolarmente rapporti sugli attentati terroristici in tutte le regioni del mondo. Ma a parte il lancio di un paio di missili cruise, qualche provvedimento diplomatico e qualche sanzione economica applicata in modo saltuario e soltanto proforma, nonché un certo numero di operazioni segrete, continuava a dominare l'approccio legalistico.
    L'11 settembre ha cambiato molto, se non proprio tutto. Ma continuavano a essere usate frasi arcaiche come "consegnare i terroristi alla giustizia". Ma nessuno poteva più sognarsi che la risposta americana a ciò che ci era stato fatto a New York e Washington avrebbe potuto cominciare con un'indagine dell'Fbi e terminare con una serie di normali processi. Era stata dichiarata guerra contro gli Stati Uniti, e gli Stati Uniti erano entrati in guerra.
    Ma contro chi? Poiché era certo che Osama bin Laden era l'architetto dell'11 settembre, e poiché Osama stesso si nascondeva in Afghanistan insieme alla leadership di al Qaida, il primo obiettivo, e quindi il primo banco di prova per questo secondo pilastro della dottrina Bush si è offerto da se stesso.
    Prima di ricorrere alla forza militare, tuttavia, Bush ha lanciato un ultimatum ai radicali estremisti talebani che erano al potere in Afghanistan. L'ultimatum richiedeva ai talebani di consegnarci Osama bin Laden e i suoi seguaci e di chiudere tutti i loro campi di addestramento. Rifiutando l'ultimatum, i talebani hanno provocato non soltanto l'invasione del paese ma anche, in base alla dottrina Bush, il loro stesso rovesciamento. Così, il 7 ottobre 2001, gli Stati Uniti (affiancati dalla Gran Bretagna e da una dozzina di altri Stati) hanno sferrato una campagna militare contro al Qaida e il regime che le forniva "aiuto e protezione".
    In confronto a quello che sarebbe avvenuto in seguito, non ci fu molta opposizione né in patria né all'estero al momento dell'apertura del primo fronte di battaglia della quarta guerra mondiale. Il motivo era che la campagna in Afghanistan poteva essere facilmente giustificata come una ritorsione contro i terroristi che ci avevano attaccato. E, per quanto si discutesse piuttosto animatamente sul pericolo di seguire una politica di "cambio di regime", in pratica c'era ben poca simpatia (al di fuori del mondo musulmano, ovviamente) per i talebani.
    Tutte le critiche contro la guerra in Afghanistan si condensavano in uno scetticismo sulle possibilità di vincerla. In verità, dietro a questo scetticismo si nascondeva in certi settori una vera e propria opposizione contro la potenza americana in generale. Ma una volta avviata la campagna afghana, l'attenzione principale fu rivolta a tutto ciò che sembrava andare storto sul campo di battaglia.
    Per esempio, soltanto un paio di settimane dopo l'inizio della campagna, quando ci furono alcuni passi falsi nell'uso dei combattenti afghani dell'Alleanza del Nord, osservatori come R.W. Apple, del New York Times, richiamarono immediatamente lo spettro del Vietnam. Questo fantasma inquietante, richiamato dalle vaste profondità, da questo momento in poi rifiutò di farsi esorcizzare, e si sarebbe insinuato in tutti i dibattiti sulle prime battaglie della quarta guerra mondiale. In quest'occasione, il messaggio era che stavamo cadendo vittime dell'illusione che potevamo contare su una forza locale male addestrata per svolgere i combattimenti sul terreno mentre noi ci limitavamo a fornire il supporto logistico e la copertura aerea.
    Questa strategia era inevitabilmente destinata a fallire, e ci avrebbe fatto precipitare in quello stesso "pantano" in cui eravamo finiti in Vietnam. Dopo tutto, come Apple e altri hanno sostenuto, anche l'Unione Sovietica aveva subito il proprio "Vietnam" in Afghanistan, ma, a differenza nostra, non era stata intralciata dai problemi logistici di proiezione della forza militare a grande distanza. Come ci si poteva aspettare di avere maggiore successo?
    Tuttavia, quando i B52 scaricarono le bombe da 15 mila libbre "Daisy Cutter", lo spettro del Vietnam scomparve, almeno temporaneamente, e smentì i timori di alcuni (e le speranze di altri) che stavamo finendo in un pantano. Ben lungi dal non servire ad altro che "abbattere le macerie", come gli avversari di Bush avevano scritto con sarcasmo, le "Daisy Cutter" hanno avuto, come persino un articolo del New York Times ha dovuto ammettere, "un terrificante effetto psicologico nel momento stesso in cui esplodevano sul terreno, spazzando via tutto quello che esisteva nel raggio di chilometri".
    Ma le "Daisy Cutters" erano solo una parte della storia. Come tutti scoprirono presto, le nostre "bombe intelligenti" avevano ormai una tecnologia molto superiore a quelle usate nel 1991. Nel 2001, in Afghanistan, queste bombe (guidate da uomini "spotters" sul terreno, equipaggiati con radio, computer, laser, che molto spesso si muovevano a cavallo e aiutati da satelliti e altri rilevatori aerei) si sono dimostrate incredibilmente precise, evitando perdite di civili e causando enorme distruzione nelle postazioni nemiche. E' stato questo "nuovo tipo di potenza americana", si leggeva nello stesso articolo del New York Times, "a offrire a una forza male addestrata" (vale a dire la stessa Alleanza del Nord che, a quanto pare, ci stava trascinando in un pantano) la possibilità di sconfiggere le "truppe esperte" dei talebani in meno di tre mesi, e con la perdita di pochissimi soldati americani. Osama non è stato catturato, e al Qaida non è stata annientata. Ma è stata fortemente danneggiata dalla campagna afghana. Quanto al regime talebano, è stato rovesciato e sostituito da un governo che non avrebbe più dato aiuto e protezione ai terroristi. Per di più, per quanto il nuovo governo afghano possa non essere ancora una perfetta democrazia, è infinitamente meno oppressivo della dittatura che lo ha preceduto. E grazie alla bonifica del terreno politico (che era stato infestato dal radicale estremismo islamico dei talebani), è stato gettato il seme di libere istituzioni è gli è stata data la possibilità concreta di crescere e svilupparsi.
    La campagna in Afghanistan ha dimostrato nel modo più evidente le conseguenze della nuova concezione del terrorismo che costituisce il secondo pilastro della dottrina Bush: i paesi che davano rifugio ai terroristi e che si rifiutavano di cacciarli dal loro territorio ne affidavano di fatto il compito agli Stati Uniti, e i regimi che erano al potere in questi paesi si esponevano al rischio di essere rovesciati e sostituiti da nuovi leader sostenitori dei principi democratici. Naturalmente, a seconda delle circostanze, altri strumenti di potere, economici o diplomatici, potevano essere impiegati. Ma l'Afghanistan aveva dimostrato che l'opzione militare era reale, e fatalmente efficace.
    Il terzo pilastro della dottrina Bush è l'affermazione del nostro diritto di prevenzione. Bush aveva già espresso con chiarezza il 20 settembre 2001 che non aveva alcuna intenzione di rimanere fermo ad aspettare di essere attaccato un'altra volta ("Daremo la caccia alle nazioni che forniscono aiuto o protezione al terrorismo"). Ma nel discorso sullo stato dell'Unione, pronunciato nel gennaio 2002, è stato ancora più esplicito: "Saremo determinati, ma il tempo non gioca a nostro favore. Non starò ad aspettare il corso degli eventi, rimanendo a guardare i pericoli che si accumulano. Non resterò con le mani in mano, mentre la minaccia si avvicina sempre di più. Gli Stati Uniti d'America non permetteranno ai più pericolosi regimi del mondo di minacciarci con le armi più terribili e spaventose". Per quelli che hanno orecchie per ascoltare, il discorso di gennaio dovrebbe avere reso perfettamente chiaro che Bush proponeva di andare oltre la ritorsione sferrata contro l'Afghanistan e di intraprendere azioni preventive. Tuttavia, all'inizio, quasi nessuno sembrò accorgersi che questo diritto di colpire, non per ritorsione, ma per prevenzione contro un possibile attacco, era una logica estensione del quadro generale che Bush aveva presentato il 20 settembre. Né questa nuova posizione di principio sembrò suscitare particolare attenzione quando fu ribadita in termini chiarissimi il 29 gennaio. Fu soltanto in occasione del discorso pronunciato il primo giugno 2002 all'accademia di West Point che il messaggio fu finalmente recepito. Forse la ragione per cui il terzo pilastro della dottrina Bush è diventato chiaro soltanto allora è che, per la prima volta, Bush ha collocato le sue idee in un contesto storico: "Per buona parte del secolo scorso, la difesa dell'America si è basata sulle dottrine della deterrenza e del contenimento, caratteristiche della guerra fredda. In alcuni casi, queste strategie sono ancora valide. Ma le nuove minacce richiedono anche nuove risposte. La deterrenza (ossia la promessa di una massiccia ritorsione contro le nazioni) non serve a nulla contro reti terroristiche clandestine che non devono proteggere nessuna nazione e nessun cittadino". Questa considerazione valeva per al Qaida e organizzazioni analoghe. Ma Bush ha anche spiegato, in aggiunta, il motivo per cui le vecchie dottrine non potevano funzionare con un regime come quello di Saddam Hussein in Iraq: "Il contenimento non è possibile se un dittatore squilibrato in possesso di armi di distruzione di massa può impiegare queste armi o offrirle segretamente ai suoi alleati terroristi".

  2. #2
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    L'analisi di Podhoretz è impeccabile.
    Gli Stati Uniti hanno attraversato, in epoca recente e durante la Terza Guerra Mondiale (ovvero, la Guerra Fredda), alcune fasi di declino e di manifesta debolezza. Pensiamo ad esempio al periodo seguito alla cocente sconfitta in Vietnam: Jimmy Carter ha incarnato proprio l'atteggiamento tremebondo, insicuro, isolazionista degli USA verso la fine degli anni '70.
    Le conseguenze sono stati devastanti: l'Unione Sovietica ha approfittato della precarietà statunitense per invadere l'Afghanistan, e i fondamentalisti del regime teocratico iraniano hanno invaso l'Ambasciata americana, in spregio ad ogni regola del diritto internazionale.
    Il popolo americano, umiliato da una politica scialba, minimale, disimpegnata e in fin dei conti irresponsabile, ha saputo reagire eleggendo -in modo trionfale- Ronald Reagan, capace di offrire una chiara visione ideale, tendente a riconoscere nel nemico (ovvero, nell'URSS e nell'ideologia comunista) l' "Impero del Male". Reagan ha saputo sconfiggere ed infine annientare questo Impero, e a liberare così buona parte del pianeta dal regime del socialismo reale, e il mondo intero dall'incubo della guerra nucleare.
    Ma il suo successore Bush senior è apparso privo di una visione così stringete e risolutiva, ed è caduto nella trappola della "stabilità", obiettivo raggiungibile con una politica fondata sul realismo, incapace di reagire con forza alle minacce provenienti dall'esterno. Bush sr. ha invaso l'Iraq non per eliminare il dittatore Saddam, ma per riportare la regione allo status quo ante. Questa politica ha evitato sconvolgimenti, ma non è riuscita ad impedire l'addensarsi di nubi nere e di pericoli gravissimi per l'America.
    Anche Bush jr, nel 2000, è parso ai più privo di ideali, chiuso in se stesso, restio a definire la propria politica estera.
    Con l'attentato dell'11 settembre, le cose sono cambiate. Attraverso vari discorsi (fra cui quello del 20 settembre 2001 dinnanzi al Congresso in seduta plenaria) Bush ha enunciato con estrema chiarezza la sua dottrina, specificando poi addirittura i nomi dei paesi facenti parte dell'Asse del Male, ovvero Iraq, Iran e Corea del Nord (si noti la vicinanza terminologica ed ideale con l'"Impero del Male" di reaganiana memoria).
    I benpensanti progressisti non hanno perso tempo nel dileggiare le dichiarazioni del Presidente, sottolineando la semplicità disarmante del suo linguaggio e della sua proposta politica, prove -a loro dire- dell'ingenuità o peggio della crassa ignoranza di Bush. Quest'ultimo, invece, è riuscito a spiegare con grande efficacia, e senza troppa inutile diplomazia, i termini della nuova dottrina, basata su una energica azione per contrastare il terrorismo globale, ovvero per partecipare in forze alla Quarta Guerra Mondiale.
    L'11 settembre rappresenta per Bush nè più nè meno che una dichiarazione di guerra da parte del fondamentalismo islamico organizzato, ovvero da una ideologia sanguinaria e negatrice della Libertà.
    Ma -e qui sta il salto di qualità rispetto al passato- per Bush è l'ora di sradicare il terrorismo non solo nelle sue cellule di base, ma pure nei suoi legami con gli Stati: esistono infatti Stati stranieri che foraggiano questi gruppi, e che ospitano le loro basi.
    Ciò comporta una politica aggressiva, ma non nel senso di un restringimento delle libertà altrui, semmai in una diffusione della democrazia e dei valori connessi primariamente nell'area più delicata di tutte, ovvero in Medio Oriente.
    Per Bush un conflitto di tal genere è destinato ad annientare gli Stati compromessi col terrorismo, e soprattutto ad espandere le forme democratiche: infatti il terrorismo contemporaneo non è dovuto tanto alla povertà, all'emarginazione, ma alla volontà politica ed ideologica antioccidentale ed antidemocratica, e pertanto questa volontà va distrutta, anche con la forza, per garantire l'affermazione definitiva della Libertà e della Sicurezza globali.
    La guerra in Afghanistan è il primo banco di prova per questa dottrina: i talebani sono spazzati via, i campi di addestramento cancellati, e il nuovo Governo addensa tutte le speranze democratiche. Karzai è eletto attraverso libere elezioni, e i primi segni di miglioramento sono palpabili. I semi della Libertà sono posti con successo.

    Ebbene, la lezione di Podhoretz è più che attuale che mai: con Obama gli Stati Uniti rischiano di entrare nella fase di rassegnata accettazione del declino, dell'inattività, dell'isolazionismo o peggio del pacifismo buonista ed ingenuo.
    Ma, come ci insegna l'autore, le conseguenze potrebbero rivelarsi devastanti.
    Un nuovo Bin Laden (o ancora quello vecchio) potrebbe sorgere, approfittare delle debolezze dell'America, preparare l'attacco, e sperare nella rassegnazione del popolo statunitense.
    L'attenzione deve rimanere alta, ne va dell'onore e alla fine della sopravvivenza stessa dell'Occidente.

  3. #3
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    "Sì è vero che l'Attenzione deve rimanere alta" ma non basta. Al Qaeda prevedo ,perchè ne ha interesse, a mettere alla prova,in America e non in altri luoghi,la capacità di risposta del nuovo Presidente che corre il rischio di subentrare già con situazioni politiche internazionali compromesse dalla crisi econonomica e da una ripresa di attività terroristica.
    Non si tratta di fantapolitica ma di una visione concreta che devono essersi fatta i capi della rete di Bin Ladin e che sanno che gli americani non devono spostarsi dall'Irak per dare loro la caccia dove si sono inboscati,in Afganistan e nel corno d'Africa.
    Se ci sarà un altro caso torri gemelle l'eurabia si disgregherà a causa della crisi economica che peggiorerà e della diplomazia imbelle che non vorrà vedere nessun nemico all'orizzonte."Bisognerà dialogare" diranno con ipocrita circospezione.

  4. #4
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    Le previsioni che tu fai, tucidide, sono ahinoi verosimili.
    C'è da sperare che l'antiterrorismo occidentale abbia imparato qualcosa da questi sette anni di guerra al terrorismo.

  5. #5
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    SI, anche io credo che sia un'analisi molto accurata anche se su alcuni punti non mi convince pienamente.
    Per quanto riguarda Hitler e gli Inglesi bisogna ricordare che all'interno del partito conservatore non tutti erano daccordo con la politica di appeasement di Neville Chamberlain. A tal proposito cito il famoso commento di Wiston Churchill agli accordi di Monaco: "Potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra." questo per ricordare che una parte di conservatori inglesi sostenevano che l'unico modo per poter fermare Hitler era quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di una guerra immediata.
    Anche quando dice che in tre mesi la giuerra ai talebani è finita mi sembra un pò azzardato.
    In fine non ho capito in che senso Bush abbia appogiato la tesi di Fukuyama secondo la quale la storia è finita con la caduta del comunismo.

  6. #6
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    Citazione Originariamente Scritto da SaToSHi80 Visualizza Messaggio
    In fine non ho capito in che senso Bush abbia appogiato la tesi di Fukuyama secondo la quale la storia è finita con la caduta del comunismo.
    Bush rifiuta la concezione dello "scontro di civiltà", e quindi di una eterna lotta ideologica e culturale fra blocchi contrapposti (che implicherebbe tra l'altro uno stato di guerra permanente, al di là della stessa Guerra al terrorismo). Una civiltà, poi, è superiore ad un'altra? Chi lo può dire? Quale il metro di giudizio? Il tema è molto vasto; basterà dire che la Storia è finita nel senso che ormai non ci sono più limiti ed ostacoli all'affermazione di un modello globale (una "modernità liquida", in grado di superare gli Stati nazionali in declino), in cui trionfano la velocità delle comunicazioni (annullamento -o quasi - dei tempi necessari allo spostamento ed allo scambio di informazioni, grazie ai trasporti sempre più rapidi e Internet) ed economia di mercato.
    Neppure l'11 settembre, per Fukuyama, smentisce la tesi della fine della Storia:

    "La modernità è un treno merci molto potente che non verrà deragliato dagli eventi recenti per quanto dolorosi e senza precedenti. La democrazia liberale e i liberi mercati continueranno ad espandersi nel tempo come principi di organizzazione dominante per gran parte del mondo" ( Fukuyama, La fine della storia dopo l'11 settembre, in "Repubblica", 19 ottobre 2001)

    Bush ha creduto in questo, agendo per l'affermazione di libertà e democrazia in aree calde come quella del Medio Oriente, per abbattere la barriera costituita da Stati chiusi, dittatoriali, amici dei terroristi.

  7. #7
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    A quanto pare, allora, sia Fukuyama che Bush hanno preso un abbaglio almeno secondo quanto scrive R. Kagan nel suo ultimo libro.

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da SaToSHi80 Visualizza Messaggio
    A quanto pare, allora, sia Fukuyama che Bush hanno preso un abbaglio almeno secondo quanto scrive R. Kagan nel suo ultimo libro.
    Guarda, certe teorie bisogna prenderle con le "pinze".
    Fukuyama afferma: "la storia è finita", ma ovviamente la Storia va avanti, scandita pure da momenti periodizzanti come l'11 settembre.
    Il risultato previsto da Fukuyama, ovvero la globalizzazione finale, la caduta delle frontiere, l'annullamento dello spazio e del tempo (comunicazioni istantanee, sviluppo delle rete virtuale ai massimi livelli), l'affermazione del sistema democratico in ogni luogo, non è -a mio parere- per nulla scontato.
    E, per dirla tutta, nemmeno così auspicabile.

    Se tutto si unifica, se i luoghi diventano omogenei, non esiste più nessun luogo. Intendi: si annullanno le identità, il legame tradizionale col territorio viene a perdersi. E' un rischio da evitare e contrastare.
    Una modernità totalmente liquida prevede lo scioglimento delle frontiere, delle barriere: è accettabile?

  9. #9
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    Premessa: non ho letto la fine della storia e l'ultimo uomo, ho letto invece Il ritorno della storia e la fine dei sogni.
    A quanto ho capito Fukuyama, dopo la caduta del comunismo e la fine della guerra fredda, profetizzava la fine della storia nel senso di fine di qualsiasi scontro ideologico. Un mondo in cui il liberalismo e la democrazia avrebbero trionfato e in cui si sarrebbe potuta auspicare la "Pace perpetua" di Kant.
    Ora quello che non capisco è come può Bush, soprattutto dopo l'11 settembre, schierarsi a favore di questa tesi respingendo quella di un neoconservatore come Samuel Huntington? Non è forse uno scontro ideologico quello tra gli Stati Uniti portatori di democrazia e gli "Stati Canaglia" autarchici?
    L'unica soluzione è che Podhoretz si riferisca a Bush padre che negli anni novanta, in un periodo di relativo ottimismo, scrisse con la collaborazione di Brent Scrowcroft la relazione sulla politica estera americana dopo la guerra fredda intitolandola A World Trasformed (Un Mondo Trasformato) nell'illusione che qualcosa fosse cambiato in positivo.

  10. #10
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    Citazione Originariamente Scritto da SaToSHi80 Visualizza Messaggio
    Non è forse uno scontro ideologico quello tra gli Stati Uniti portatori di democrazia e gli "Stati Canaglia" autarchici?
    Lo è, perchè si scontrano due visioni diverse del mondo, e la democrazia dà battaglia, ancora una volta, alla tirannia travestita da fondamentalismo ("islamo-fascismo").
    Ma non è uno scontro di civiltà, o almeno, a parole le intenzioni non sembrerebbero queste. Bush si guarda bene dall'insultare l'Islam, dal definirlo come religione e civiltà "inferiore", su cui far trionfare la civiltà cristiana ed occidentale. Quella di Bush è una "crociata" per la libertà, non per l'annientamento di un'altra civiltà. Il nemico è il terrorismo islamico, visto come degenerazione dell'Islam, ma non l'Islam.
    Sia chiaro: spesso i confini sono labili.
    Perchè Bush non ha attaccato un paese come l'Arabia Saudita, di sicuro lontana dalla democrazia, e anzi imbevuta di rigorismo islamico fino alle estreme conseguenze? Non siamo forse in presenza di una degenerazione negatrice della libertà?
    A mio parere, sì. E sempre a mio parere non è da escludere uno scontro finale fra civiltà, in prospettiva. L'odio aumenta e l'Islam sembra supino ai richiami puristi. Esiste un Islam moderato? Con cui il dialogo è possibile? Sì. Ma quanto è affidabile? Chi rappresenta? E' davvero forte, maggioritario?

 

 
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