OMNIA SUNT COMMUNIA
QUALE E’ LA DIFFERENZA TRA COMUNISTI E SOCIALISTI?
Tra comunisti e socialisti è sempre intercorso un rapporto di amore e odio: ciò che li distingue è, essenzialmente, il rapporto con la rivoluzione. Per i socialisti, infatti, non si tratta di abbattere il sistema capitalistico, ma di governarlo, di renderlo più vivibile e umano. Per usare un’espressione impiegata da un socialista svedese del Novecento, il capitalismo per i socialisti deve essere, al pari di una mucca, munto per poter sfamare il maggior numero possibile di persone; esso non deve essere lasciato in balia di se stesso, assolutamente libero e senza leggi che lo regolino (come invece credeva quel liberismo che trovava in Adam Smith il suo eroe), bensì va direzionato e gestito accuratamente affinchè non si inceppi, come di fatto è avvenuto nel 1929. Per i comunisti, al contrario, si tratta non già di riformare il capitalismo in senso sociale, bensì di abbatterlo con la rivoluzione a mano armata. Questa divergenza di vedute che sta alla base della divergenza e, spesso, della conflittualità tra le due correnti di pensiero, spiega perché spesso i comunisti arrivarono addirittura a vedere nei socialisti e nel loro esasperato tentativo di salvaguardare il capitalismo il loro peggior nemico, addirittura più pericoloso rispetto ai liberali: infatti, se i liberisti, con la loro sfrenata smania di non imbrigliare minimamente il capitalismo, lo difendono in maniera piuttosto ingenua, i socialisti invece, proponendosi di governarlo con ponderatezza, ne frenano la caduta. Ed è per questo motivo che i comunisti italiani videro nell’avvento del fascismo l’ultima mossa, marcatamente violenta e reazionaria, di un capitalismo ormai agonizzante che stava per cadere; si dovettero però ricredere nel momento in cui il fascismo si alleò con la Germania di Hitler. Ma l’antipatia non è univoca: spesso, anche i socialisti hanno nutrito una cordiale avversione per i comunisti e per le loro velleità rivoluzionarie. Come prova lampante di questa asserzione, potremmo ricordare la tragica repressione perpetrata in Germania, nel 1919, dai socialisti ai danni dei comunisti della “Lega di Spartaco”: essa si concluse in un bagno di sangue e persero la vita, tra gli altri, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, barbaramente trucidati. Che i socialisti guardassero con sospetto alla volontà comunista di sopprimere la società borghese è anche testimoniato dalle vicende italiane degli anni ’20 del Novecento: quando, all’indomani del feroce assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti, tutti i partiti di opposizione al fascismo abbandonarono il parlamento e si ritirarono, in segno di protesta, sull’Aventino, di fronte alle pressanti richieste dei comunisti di scendere sulle piazze per abbattere, finchè si era ancora in tempo, il regime fascista, i socialisti e i liberali preferirono restare arroccati sull’Aventino a proseguire la loro opposizione puramente formale, poiché temevano vivamente che dal fascismo si sarebbe potuti passare al comunismo di ispirazione sovietica. A tal proposito, sul giornale socialista “Giustizia” si potè testualmente leggere: “ noi non vogliamo mettere in movimento le masse perché quando sono scatenate non si è sicuri se si fermeranno a Kerenskij, andranno sino a Lenin o oltrepasseranno anche Lenin ” Dopo aver delineato le motivazioni che fanno del socialismo e del comunismo due movimenti se non del tutto inconciliabili, per lo meno molto distanti, è bene chiedersi come sia nata tale divergenza di prospettive. In realtà, essa, latente o manifesta a seconda dei casi, è sempre esistita e si spiega con la fondazione, nel 1875, del Partito della Socialdemocrazia tedesca (SPD): esso nacque, con il congresso di Gotha, dalla fusione di due correnti dalle idee alquanto contrastanti. Da una parte, vi era infatti l’ala marxista, rappresentata da Marx ed Engels in persona, che trovava nella rivoluzione e nell’abbattimento del sistema capitalistico i suoi princìpi ispiratori; dall’altra parte, vi era una corrente che trovava in Lassalle il suo maggior rappresentante e che, piuttosto che sulla rivoluzione, faceva leva su una tenace battaglia parlamentare ed era anche disponibile a scendere a compromessi con le frange più reazionarie pur di scalzare i borghesi dalla loro posizione egemonica (Lassalle stesso intrattenne una fitta corrispondenza epistolare con Bismarck, l’antidemocratico e reazionario cancelliere tedesco che aveva portato alle stelle il militarismo più fervente). Marx non esitò, fin da principio, a mettere alla berlina la posizione lassalliana, criticandone soprattutto l’inattualità dell’alleanza coi ceti reazionari che essa si proponeva al fine di neutralizzare i borghesi: allearsi con l’aristocrazia per spazzar via la borghesia altro non era, secondo Marx, che fare un salto indietro in quel passato in cui a dominare la società era l’aristocrazia. Viceversa, sosteneva Marx, il merito della borghesia era stato quello di distruggere con la Rivoluzione francese quei residui aristocratici che inquinavano l’era moderna e di aver aperto la strada al moderno scontro di classe tra borghesi e proletari. Quest’opposizione di idee non impedì però la fusione dei due movimenti (lassalliano + marxiano) in un sol partito, la SPD, che visse fin dall’inizio in un’invalicabile ambiguità: si doveva aspirare alla rivoluzione, secondo i princìpi di matrice marxiana, o ci si doveva limitare al riformismo, cercando di far passare leggi che fossero favorevoli alla classe operaia, come invece suggerivano le tesi lassalliane? Marx si accorse subito del paradosso e scagliò i suoi velenosi strali (nell’opera “Critica del programma di Gotha”) all’appena nato partito, sottolineando l’assurdità dell’ambiguità poc’anzi tratteggiata e avanzando la tesi che prima o poi il problema sarebbe dovuto esplodere. E Marx aveva ragione: dopo la sua morte, la situazione all’interno della SPD non tardò a degenerare, a tal punto che non si fu più in grado di tenere le varie correnti che la costituivano. Come inevitabile conseguenza, si andò incontro ad u rapido scorpamento del partito: vi fu chi, come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, si sganciò dalla SPD perché, fedele fino in fondo all’ideologia marxista, non volle rinunciare alla prospettiva rivoluzionaria e alla nuova società che ne sarebbe scaturita; vi fu poi chi, come Bernstein, arrivò a sostenere l’esigenza impellente di revisionare la dottrina marxista (anche perché le profezie di Marx sembravano ogni giorno più lontane dal concretizzarsi), espungendo la possibilità di una rivoluzione. In “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” Bernstein afferma che la rivoluzione altro non è se un’idea, nel senso kantiano del termine, ovvero è un modello da imitare pur nella consapevolezza che resterà sempre irrealizzabile. Infine, vi fu uno stuolo di pensatori, capeggiato da Bebel e da Kautsky, presso i quali continuava a sopravvivere la convinzione dell’assoluta necessità della rivoluzione, ma che di fatto continuavano ad operare pragmaticamente nella vita sociale e politica (e per questo motivo furono detti “ortodossi”), poiché, sulle orme dell’ultimo Engels, concepivano la rivoluzione come una spallata finale al sistema capitalistico. Dalle posizioni dei “revisionisti” muoveranno quelli che siamo soliti definire “socialisti”, mentre da quelle dei “rivoluzionari” prenderanno spunto i “comunisti”. Similmente, verso la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, maturavano in Russia, con impeto sempre maggiore, i fermenti rivoluzionari e la soluzione prospettata dai bolscevichi (così detti perché maggioritari all’interno del partito) si scontravano apertamente con quelle dei menscevichi (minoritari nel partito): i primi, sulla scia del marxismo più coerente, si sbizzarrivano in celebrazioni fantastiche della rivoluzione, i secondi guardavano con simpatia alla SPD tedesca che andava sempre più incanalandosi in posizioni riformiste. Il fronte sul versante di Sinistra, in Russia, era ulteriormente frammentato dalla presenza di un terzo movimento (i “social-rivoluzionari”), il cui consenso poggiava soprattutto sul mondo contadino, e se alla fine, con la Rivoluzione russa, prevalsero i bolscevichi fu soprattutto in virtù del fatto che in quel Paese spazio per la democrazia non ce n’era e lo zarismo soffocava senza mezzi termini ogni forma di organizzazione anche lontanamente “sovversiva”, rendendo in tal modo impossibile una prospettiva riformista. E i bolscevichi sono quelli che comunemente identifichiamo con i comunisti, mentre i menscevichi rappresentano quelli che siamo soliti definire socialisti. Per concludere questa carrellata di avvenimenti e di motivazioni per cui i comunisti e i socialisti si sono allontanati, si può ricordare come anche in Italia si siano sentiti gli influssi di quei dibattiti teorici che avevano portato un po’ in tutta Europa alla spaccatura tra i due movimenti: e fu sull’onda di tali tensioni che, nel 1921, con il Congresso di Livorno, i comunisti italiani si staccarono dal partito socialista.
ARDITI NON GENDARMI