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  1. #51
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    Citazione Originariamente Scritto da carre Visualizza Messaggio
    Mi sembra chiaro che tra noi non si riesca a trovare un punto di intesa. Anzi mi sembra che si marci su due lunghezze d'onda diverse.
    Ti voglio bene lo stesso eh! E poi sono contento quando c'è qualcuno con un punto di vista differente che ha voglia di discutere. Discutere fa bene.

    Un paio di precisazioni: a) una gran parte delle opere di Marx vennero pubblicate in Unione Sovietica negli anni '30 (basti pensare all'Ideologia Tedesca); b) Lenin ed Engels dicono cose piuttosto diverse dagli "studenti" di Marx; essere "studenti" di Marx non significa essere marxisti e ti ringrazio quindi della tua precisazione che mi da modo di rapportarmi con gli utenti del forum in un modo adatto alle loro posizioni.
    Aspetta, non ho capito la prima precisazione. Vuoi dire che, secondo te, il corpus di ciò che è stato attribuito a Marx non sia stato edito e sistemato da Engels e Kautsky?

    Altra cosa: se per essere marxista intendi dire essere convinto e sostenere la totalità di ciò che è stato scritto da Marx e, a seguire, da tutti i marxisti, allora no, non sono marxista. Studio Marx e ritengo fondamentale la sua opera, ma non condivido alcuni punti, come mi pare normale dopo più di cento anni.

    Invece non ti ringrazio di mettermi (ed è la seconda volta che lo fai nel poco tempo che io frequento questo forum!) più o meno direttamente nel novero dei "preti" di una fantomatica "religione" di Marx.
    E dai, non te la prendere. ...però quando scrivi pare che tu abbia tutta una serie di certezze che io riscontro solo nei religiosi.

    Evidentemente tu, invece, ti reputi un libero pensatore. Ed allora io dal mio "pulpito" potrei scagliarmi contro il liberalismo piccolo-borghese. Ma non è il caso che io lo faccia in quanto già Marx ha stigmatizzato il libero pensiero con questa mirabile frase:
    Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi di produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante e dunque sono le idee del suo dominio
    Mah, io penso che siamo tutti "liberi pensatori", dal momento che abbiamo un'intelligenza ed una capacità di ragionamento autonoma. Non vedo perché l'aver scelto di farsi domande e cercare delle risposte dovrebbe essere tacciato di piccolo-borghesismo...boh, non lo so proprio.

    Ad ogni modo, dai, torniamo in topic, perché siamo usciti e di molto.

  2. #52
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    Citazione Originariamente Scritto da frontenord Visualizza Messaggio
    soviet supremo?? qua si parla già dittatura,come del resto nella storia siete soliti a fare...no grazie! meglio la libertà,grazie lo stesso della vostra proposta e complimenti alle idee innovative (che non vedo!!!) sembra piu' nostalgismo e voglia di ricreare regime fallimentari e falliti del passato...che tristezza...pensare che vorreste fare ciò in Italia è deprimente per tutti...

    saluti fascisti.

    http://www.youtube.com/watch?v=5jQASk5aJOU questa la vostra creazione ed innovazione!?? bleah!!! l'antico che avanza!!! a proposito di antico...
    Veltroni, l'antico che avanza




    http://www.youtube.com/watch?v=D0PEUvpymMg
    Guarda con tutta la buona volontà a me hai già rotto i coglioni. Non ho voglia di stare a fare le pantomime di compagno vs camerata per cui dal prossimo intervento o scrivi qualche cosa di decente o ti sego ogni intervento di questo tenore.

  3. #53
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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Le chiacchere stanno a zero, i socialisti hanno sempre ostacolato le lotte dei comunisti e il comunismo in quanto teoria rivoluzionaria, sono sempre stati anticomunisti e sempre lo saranno, passate in rassegna i personaggi del socialismo italiano, bella feccia, vero?

    PER IL COMUNISMO COMUNITARIO

    ARDITI NON GENDARMI

  4. #54
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    ^ mah, aldilà dell'annosa discussione socialismo-comunismo (abbastanza sterile amio parere), mi permetto di dssentire sul "bella feccia"

  5. #55
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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    QUALE E’ LA DIFFERENZA TRA COMUNISTI E SOCIALISTI?


    Tra comunisti e socialisti è sempre intercorso un rapporto di amore e odio: ciò che li distingue è, essenzialmente, il rapporto con la rivoluzione. Per i socialisti, infatti, non si tratta di abbattere il sistema capitalistico, ma di governarlo, di renderlo più vivibile e umano. Per usare un’espressione impiegata da un socialista svedese del Novecento, il capitalismo per i socialisti deve essere, al pari di una mucca, munto per poter sfamare il maggior numero possibile di persone; esso non deve essere lasciato in balia di se stesso, assolutamente libero e senza leggi che lo regolino (come invece credeva quel liberismo che trovava in Adam Smith il suo eroe), bensì va direzionato e gestito accuratamente affinchè non si inceppi, come di fatto è avvenuto nel 1929. Per i comunisti, al contrario, si tratta non già di riformare il capitalismo in senso sociale, bensì di abbatterlo con la rivoluzione a mano armata. Questa divergenza di vedute che sta alla base della divergenza e, spesso, della conflittualità tra le due correnti di pensiero, spiega perché spesso i comunisti arrivarono addirittura a vedere nei socialisti e nel loro esasperato tentativo di salvaguardare il capitalismo il loro peggior nemico, addirittura più pericoloso rispetto ai liberali: infatti, se i liberisti, con la loro sfrenata smania di non imbrigliare minimamente il capitalismo, lo difendono in maniera piuttosto ingenua, i socialisti invece, proponendosi di governarlo con ponderatezza, ne frenano la caduta. Ed è per questo motivo che i comunisti italiani videro nell’avvento del fascismo l’ultima mossa, marcatamente violenta e reazionaria, di un capitalismo ormai agonizzante che stava per cadere; si dovettero però ricredere nel momento in cui il fascismo si alleò con la Germania di Hitler. Ma l’antipatia non è univoca: spesso, anche i socialisti hanno nutrito una cordiale avversione per i comunisti e per le loro velleità rivoluzionarie. Come prova lampante di questa asserzione, potremmo ricordare la tragica repressione perpetrata in Germania, nel 1919, dai socialisti ai danni dei comunisti della “Lega di Spartaco”: essa si concluse in un bagno di sangue e persero la vita, tra gli altri, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, barbaramente trucidati. Che i socialisti guardassero con sospetto alla volontà comunista di sopprimere la società borghese è anche testimoniato dalle vicende italiane degli anni ’20 del Novecento: quando, all’indomani del feroce assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti, tutti i partiti di opposizione al fascismo abbandonarono il parlamento e si ritirarono, in segno di protesta, sull’Aventino, di fronte alle pressanti richieste dei comunisti di scendere sulle piazze per abbattere, finchè si era ancora in tempo, il regime fascista, i socialisti e i liberali preferirono restare arroccati sull’Aventino a proseguire la loro opposizione puramente formale, poiché temevano vivamente che dal fascismo si sarebbe potuti passare al comunismo di ispirazione sovietica. A tal proposito, sul giornale socialista “Giustizia” si potè testualmente leggere: “ noi non vogliamo mettere in movimento le masse perché quando sono scatenate non si è sicuri se si fermeranno a Kerenskij, andranno sino a Lenin o oltrepasseranno anche Lenin ” Dopo aver delineato le motivazioni che fanno del socialismo e del comunismo due movimenti se non del tutto inconciliabili, per lo meno molto distanti, è bene chiedersi come sia nata tale divergenza di prospettive. In realtà, essa, latente o manifesta a seconda dei casi, è sempre esistita e si spiega con la fondazione, nel 1875, del Partito della Socialdemocrazia tedesca (SPD): esso nacque, con il congresso di Gotha, dalla fusione di due correnti dalle idee alquanto contrastanti. Da una parte, vi era infatti l’ala marxista, rappresentata da Marx ed Engels in persona, che trovava nella rivoluzione e nell’abbattimento del sistema capitalistico i suoi princìpi ispiratori; dall’altra parte, vi era una corrente che trovava in Lassalle il suo maggior rappresentante e che, piuttosto che sulla rivoluzione, faceva leva su una tenace battaglia parlamentare ed era anche disponibile a scendere a compromessi con le frange più reazionarie pur di scalzare i borghesi dalla loro posizione egemonica (Lassalle stesso intrattenne una fitta corrispondenza epistolare con Bismarck, l’antidemocratico e reazionario cancelliere tedesco che aveva portato alle stelle il militarismo più fervente). Marx non esitò, fin da principio, a mettere alla berlina la posizione lassalliana, criticandone soprattutto l’inattualità dell’alleanza coi ceti reazionari che essa si proponeva al fine di neutralizzare i borghesi: allearsi con l’aristocrazia per spazzar via la borghesia altro non era, secondo Marx, che fare un salto indietro in quel passato in cui a dominare la società era l’aristocrazia. Viceversa, sosteneva Marx, il merito della borghesia era stato quello di distruggere con la Rivoluzione francese quei residui aristocratici che inquinavano l’era moderna e di aver aperto la strada al moderno scontro di classe tra borghesi e proletari. Quest’opposizione di idee non impedì però la fusione dei due movimenti (lassalliano + marxiano) in un sol partito, la SPD, che visse fin dall’inizio in un’invalicabile ambiguità: si doveva aspirare alla rivoluzione, secondo i princìpi di matrice marxiana, o ci si doveva limitare al riformismo, cercando di far passare leggi che fossero favorevoli alla classe operaia, come invece suggerivano le tesi lassalliane? Marx si accorse subito del paradosso e scagliò i suoi velenosi strali (nell’opera “Critica del programma di Gotha”) all’appena nato partito, sottolineando l’assurdità dell’ambiguità poc’anzi tratteggiata e avanzando la tesi che prima o poi il problema sarebbe dovuto esplodere. E Marx aveva ragione: dopo la sua morte, la situazione all’interno della SPD non tardò a degenerare, a tal punto che non si fu più in grado di tenere le varie correnti che la costituivano. Come inevitabile conseguenza, si andò incontro ad u rapido scorpamento del partito: vi fu chi, come Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, si sganciò dalla SPD perché, fedele fino in fondo all’ideologia marxista, non volle rinunciare alla prospettiva rivoluzionaria e alla nuova società che ne sarebbe scaturita; vi fu poi chi, come Bernstein, arrivò a sostenere l’esigenza impellente di revisionare la dottrina marxista (anche perché le profezie di Marx sembravano ogni giorno più lontane dal concretizzarsi), espungendo la possibilità di una rivoluzione. In “I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” Bernstein afferma che la rivoluzione altro non è se un’idea, nel senso kantiano del termine, ovvero è un modello da imitare pur nella consapevolezza che resterà sempre irrealizzabile. Infine, vi fu uno stuolo di pensatori, capeggiato da Bebel e da Kautsky, presso i quali continuava a sopravvivere la convinzione dell’assoluta necessità della rivoluzione, ma che di fatto continuavano ad operare pragmaticamente nella vita sociale e politica (e per questo motivo furono detti “ortodossi”), poiché, sulle orme dell’ultimo Engels, concepivano la rivoluzione come una spallata finale al sistema capitalistico. Dalle posizioni dei “revisionisti” muoveranno quelli che siamo soliti definire “socialisti”, mentre da quelle dei “rivoluzionari” prenderanno spunto i “comunisti”. Similmente, verso la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, maturavano in Russia, con impeto sempre maggiore, i fermenti rivoluzionari e la soluzione prospettata dai bolscevichi (così detti perché maggioritari all’interno del partito) si scontravano apertamente con quelle dei menscevichi (minoritari nel partito): i primi, sulla scia del marxismo più coerente, si sbizzarrivano in celebrazioni fantastiche della rivoluzione, i secondi guardavano con simpatia alla SPD tedesca che andava sempre più incanalandosi in posizioni riformiste. Il fronte sul versante di Sinistra, in Russia, era ulteriormente frammentato dalla presenza di un terzo movimento (i “social-rivoluzionari”), il cui consenso poggiava soprattutto sul mondo contadino, e se alla fine, con la Rivoluzione russa, prevalsero i bolscevichi fu soprattutto in virtù del fatto che in quel Paese spazio per la democrazia non ce n’era e lo zarismo soffocava senza mezzi termini ogni forma di organizzazione anche lontanamente “sovversiva”, rendendo in tal modo impossibile una prospettiva riformista. E i bolscevichi sono quelli che comunemente identifichiamo con i comunisti, mentre i menscevichi rappresentano quelli che siamo soliti definire socialisti. Per concludere questa carrellata di avvenimenti e di motivazioni per cui i comunisti e i socialisti si sono allontanati, si può ricordare come anche in Italia si siano sentiti gli influssi di quei dibattiti teorici che avevano portato un po’ in tutta Europa alla spaccatura tra i due movimenti: e fu sull’onda di tali tensioni che, nel 1921, con il Congresso di Livorno, i comunisti italiani si staccarono dal partito socialista.


    ARDITI NON GE
    NDARMI

  6. #56
    compagno
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    Non bisognerebbe confondere la differenza tra "socialismo" e "comunismo" con la differenza tra "socialisti" e "comunisti"

  7. #57
    COSTRUIRE IL COMUNISMO!!
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    Predefinito La Rivoluzione D"ottobre



    La Rivoluzione d'Ottobre
    Memorie e testimonianze dei protagonisti
    Una lunga introduzione di Adriana Chiaia ci riporta all’attualità delle teorie di Marx e di Engels, all’audacia di Lenin, Stalin e dei rivoluzionari di tutto il mondo

    È un libro per ricordare il valore universale dell’evento che segnò la storia dell’umanità e per rivendicarne i suoi insegnamenti contro ogni revisionismo e negazionismo. Nella prima parte, attraverso le testimonianze dei protagonisti, rivivono le febbrili giornate dell’insurrezione di Pietrogrado e dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Il pressante appello di Lenin “l’indugio significa la morte” si materializza nel fermento del quartier generale del Comitato militare rivoluzionario (Smol’nyj), cuore pulsante della rivoluzione.
    La seconda parte del libro offre un quadro entusiasmante dell’incendio rivoluzionario che si propaga in tutta la Russia: da Mosca a Kiev, a Sebastopoli, fino alla Siberia e all’estremo Oriente.
    La terza parte descrive i primi passi del potere sovietico: la creazione del Consiglio dei Commissari del popolo, i primi decreti emanati dal Governo operaio e contadino sulla pace e sulla terra, in immediata attuazione del programma e delle parole d’ordine del Partito bolscevico.
    Nelle ultime pagine le voci dei controrivoluzionari, l’intreccio dei sentimenti di odio, d’impotenza, di rassegnazione, di disperazione e di miseria morale, espressioni di un mondo morente, travolto dalla tempesta rivoluzionaria.
    Nell’introduzione la curatrice, Adriana Chiaia, ripercorre le tappe del pensiero leninista, autentico erede dello spirito rivoluzionario del marxismo: la concezione del partito, l’analisi dell’imperialismo, la teoria della rivoluzione proletaria e della dittatura del proletariato. Teoria che, in rapporto dialettico con la prassi del partito bolscevico, ha condotto alla vittoria la rivoluzione d’Ottobre ed instaurato il potere dei soviet degli operai e dei contadini.
    Lo spazio maggiore dedicato alla parte teorica e storica nell’introduzione ha lo scopo – come spiega Adriana – di fornire il quadro, necessariamente sintetico, dei fondamenti della teoria leninista, prezioso patrimonio che ha guidato la pratica politica del Partito bolscevico, dei suoi militanti e di migliaia di proletari nella lotta e nel trionfo della rivoluzione. Una scelta che sottintende una speranza ed un auspicio. L’autrice vorrebbe, appunto, che i lettori fossero stimolati da questo lavoro e cercassero nella lettura o nella rilettura e nello studio dei testi riportati una verità da troppo tempo cancellata e si impossessassero di quest’arma formidabile più che mai utile in questo momento in cui da più parti – anche da quei partiti che nominalmente si richiamano al termine comunista – si accantona la lotta di classe e la prospettiva di una società socialista.
    Lo scritto di Adriana riporta all’attenzione l’attualità delle teorie di Marx e di Engels e l’audacia di Lenin, Stalin e dei rivoluzionari di tutto il mondo che hanno abbracciato la teoria marxista, l’hanno sviluppata nell’epoca dell’imperialismo e delle rivoluzioni coloniali e calata nelle condizioni specifiche dei rispettivi paesi e che hanno dimostrato nella pratica la validità delle loro idee.
    Le lotte degli sfruttati e degli oppressi, infatti, saranno vincenti se loro, forti del patrimonio della teoria e della pratica del movimento rivoluzionario e comunista, si uniranno contro il nemico comune: il capitalismo imperialista.
    E questo libro è un contributo a dare solide radici al futuro che si auspica, a trasformare l’aspirazione ad “un mondo migliore” nella consapevolezza che il solo “mondo migliore” possibile è la società socialista. Il mondo socialista, nel massimo della sua espansione che ha compreso un terzo dell’umanità, ha dimostrato di essere capace di emancipare economicamente, politicamente e culturalmente enormi masse popolari. Questo mondo è esistito e deve essere nuovamente ricostruito perché è l’unica alternativa possibile alla barbarie del capitalismo imperialista e che, con le sue guerre infinite, annienta intere popolazioni e distrugge interi paesi; impone le sue politiche di rapina, rende schiavi, impoverisce e costringe all'emigrazione milioni di uomini; saccheggia le risorse naturali dei paesi dipendenti e, con il suo consumo dissennato, minaccia perfino la sopravvivenza dell’intero pianeta.
    La Rivoluzione d'Ottobre, Memorie e testimonianze dei protagonisti
    a cura di Adriana Chiaia, Zambon editore, f.to 13x21, pp. 336, 12,80 euro

    Distribuzione
    <SPAN style="FONT-FAMILY: Tahoma; mso-bidi-font-size: 7.5pt">
    nelle librerie:
    CDA (Consorzio Distributori Associati) via Mario Alicata 21 40050 Monte San Pietro (BO)
    tel. 051969312 - fax 051969320
    Per privati, biblioteche e circoli culturali: DIEST
    via Cavalcanti 11 10132 Torino tel/fax 0118981164 posta@diestlibri.it.

  8. #58
    COSTRUIRE IL COMUNISMO!!
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    L'era di Stalin

    un libro di Anna Louise Strong

    Dall'introduzione di Adriana Chiaia

    Anna Louise Strong, con alle spalle una formazione politica ispirata ai settori più radicali del laburismo e del sindacalismo rivoluzionario statunitense, alle cui lotte aveva partecipato come giornalista e come militante, delusa dal riflusso del movimento dei lavoratori, decide di esplorare quel mondo che un altro americano, Lincoln Steffens, di ritorno da un viaggio nella Russia sovietica, aveva definito con il lapidario giudizio: «Ho fatto un viaggio nel futuro ed il futuro funziona».
    Della tempra dei suoi connazionali John Reed ed Edgar Snow (1), che furono capaci di varcare le colonne d’Ercole dei pregiudizi anticomunisti e di rappresentare con onestà intellettuale la realtà delle nuove società socialiste che osavano costruire un mondo senza sfruttamento ed oppressione, Anna Louise Strong, che aspirava ad una società fondata sull’uguaglianza dei diritti sociali e civili e si era sempre battuta a favore dei diritti dei lavoratori, delle donne e dei bambini svantaggiati, descrive con entusiasmo e partecipazione la realtà dell’Unione Sovietica.
    La sua attività giornalistica del 1924-1925 si riferisce al periodo in cui la Russia sovietica si risollevava a stento dalle devastazioni causate dalla guerra civile, dall’aggressione degli eserciti delle potenze imperialiste coallzzate e da una terribile carestia con le sue tragiche conseguenze di centinaia di migliaia di morti per fame.
    Nel suo celebre scritto Children of Revolution - Ten Boys on the Volga, del 1925, la Strong narra con estrema puntualità gli sforzi di un gruppo di ragazzi, scampati alla morte per fame nei loro villaggi, che imparano a basarsi sulle proprie forze, a guadagnarsi da vivere e a gestire il loro collettivo in modo egualitario e solidale. L’autrice fa assurgere la loro storia a simbolo della rinascita dell’intero paese.
    Dopo quel primo soggiorno in Russia, la Strong vi torna e vi si stabilisce negli anni Trenta, periodo a cui si riferisce L’era di Stalin, il libro che qui presentiamo. Fonda il Moscow News, primo giornale in lingua inglese pubblicato a Mosca e rivolto ai lettori americani.
    L’era di Stalin è una rielaborazione delle sue corrispondenze, come inviata del Moscow News, in ogni angolo dello sterminato territorio dell’Unione Sovietica, da Leningrado a Vla-divostok e per l’intero arco di tempo della costruzione del socialismo, dalla fine degli anni Venti alla morte di Stalin.
    La Strong ci narra, con il sentimento e la passione «non solo per il sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere» (2), come auspicava Gramsci, le tappe principali di un processo che avrebbe cambiato il volto della vecchia Russia e delle altre Repubbliche socialiste dell’URSS, trasformando un’economia contadina e arretrata in un’economia industriale, tecnologicamente avanzata, capace di competere con le principali potenze capitaliste. Un evento epocale che si ripercosse sugli equilibri politici e sociali del resto del mondo e che cambiò il corso della storia dell’umanità.
    Nel capitolo che raccoglie le corrispondenze sul primo piano quinquennale è descritta la nascita di alcuni dei grandi colossi del piano: l’acciaieria di Kusnetsk, la fabbrica di trattori di Stalingrado ed il troncone di ferrovia tra il Turkestan e la Siberia.
    La descrizione della costruzione dell’acciaieria di Kusnetsk è un’epopea in due tempi distanti poco più di un anno. E’ la storia di un complesso gigantesco esteso per cinque chilometri, composto di altiforni, ciminiere, laminatoi, centrale elettrica, alloggi per i lavoratori. Complesso gigantesco nato dal caos iniziale di fondamenta scavate in una pianura fangosa della Siberia e dall’agitarsi febbrile di migliaia di uomini, tesi nella sforzo di portare a termine un compito di cui sfuggiva il senso complessivo. La spiegazione di questo modo di procedere, apparentemente insensato, la dà il direttore dei lavori: «I giapponesi avevano invaso la Manciuria e la Russia aveva bisogno di acciaio. Si doveva scegliere: o procedere alla maniera classica (...) o fare tutto in una volta».
    Si sottolinea qui un fattore fondamentale, di cui troppo spesso ci si dimentica: quello del pericolo mortale dell’accerchiamento delle potenze imperialiste e della minaccia di nuove aggressioni armate. Come osserva la Strong: «II popolo sovietico era convinto che, se il ritmo fosse stato meno veloce, non solo la costruzione del socialismo sarebbe stata ritardata, ma la sua stessa esistenza come nazione sarebbe stata in pericolo».
    La Strong mette in luce un altro elemento che caratterizzò lo sforzo per la costruzione di Kusnetsk, e non solo, poiché la mobilitazione collettiva fu una connotazione costante e generalizzata della partecipazione attiva della classe operaia all’edificazione di quella che i lavoratori finalmente potevano considerare la “loro” società: «Tutta l’URSS ha contribuito: dalle fonderie di Leningrado, alle officine dell’Ucraina. Per tutto il Paese era corsa la parola d’ordine “Forza per Kusnetsk”, perché Kusnetsk apriva la strada all’industrializzazione della Siberia. Essa aveva già trasformato milioni di contadini in operai siderurgici e dato esperienza preziosa a centinaia di ingegneri». Costruzione di strutture e trasformazione di uomini erano i frutti di quel titanico sforzo che rese anche necessario, in molti casi, lo spostamento di intere popolazioni, quegli stessi spostamenti che la propaganda borghese bolla come “deportazioni”.
    Per questioni di spazio, in queste note introduttive dobbiamo limitarci a brevi flash che sottolineano il valore ed il significato delle altre realizzazioni del piano descritte dalla Strong.
    Sulla costruzione della fabbrica di trattori di Stalingrado, la prima catena di montaggio dell’URSS, la Strong osserva: «In America per realizzare la produzione in serie c’era voluta un’intera generazione: in Russia bastò la battaglia di Stalingrado del 1931. Ma la costruzione dell’immensa fabbrica richiese il sacrificio di molte giovani vite. Molti furono gli uomini che caddero sfiniti davanti alle bocche ardenti delle fornaci nei caldi meriggi estivi...». Nel giugno del 1930, in saluto all’apertura del Congresso del Partito, la fabbrica fu messa in funzione e, alla scadenza del primo anno del piano, fu completato il cinquemillesimo trattore.
    «[...] In entrambe le occasioni, molti dei dirigenti e quasi tutti i tecnici americani avevano dichiarato l’impresa irrealizzabile: tutte e due le volte la volontà degli operai, specialmente dei giovani del Komsomol, aveva realizzato l’impresa...».
    «[...] Dodici anni più tardi gli uomini della fabbrica di trattori di Stalingrado, a bordo dei carri armati usciti dalle loro officine, snidarono i soldati di Hitler dalle rovine della fabbrica...».

    Non possiamo rinunciare a rimandare almeno un’immagine dell’inaugurazione del tronco ferroviario tra il Turkestan e la Siberia, il Turk-Sib, che ebbe luogo il 1° maggio del 1930. I duemila chilometri di binari gettati da nord a sud, attraverso deserti e pianure disabitate, sarebbero serviti agli scambi commerciali tra la Siberia e l’Asia centrale e tra la Russia e la Cina. Lungo la ferrovia sarebbero sorte città al posto dei villaggi sperduti, le comunicazioni e i traffici commerciali avrebbero cambiato il volto a quelle zone semidesertiche e offerto alle popolazioni, soprattutto ai giovani, la possibilità di liberarsi dall’antica oppressione tribale.
    L’inaugurazione avvenne alla presenza di 10.000 persone. Al punto di congiungimento dei due tronconi furono sistemati gli ultimi segmenti di rotaia. «Gli ultimi bulloni furono ribattuti da funzionari russi e kasaki, da Bill Sharoff (veterano della lotta per la libertà di parola in America, reduce dalla guerra civile che per anni aveva insanguinato la Russia e che era stato chiamato a dirigere i lavori) in rappresentanza degli operai e dal settantenne Katayama, segretario generale del Partito Comunista del Giappone e delegato alla Terza Internazionale». Secondo la Strong, la ferrovia era il contributo dell’URSS alla rivoluzione mondiale. E non sembri un’affermazione retorica, dato che la parola d’ordine “fare come la Russia” diede impulso a tutte le lotte e alle conquiste dei lavoratori di ogni parte del mondo.
    Tuttavia, la Strong non dipinge un quadro senza contrasti di quella corsa contro il tempo che fu l’industrializzazione in URSS. Al contrario, porta varie testimonianze dei non infrequenti sabotaggi: danneggiamenti alle macchine e agli impianti, ostruzionismo burocratico finalizzato ad intralciare la produzione e a rallentarne i ritmi. Tutto ciò era l’espressione concreta dell’opposizione dei nepmen, piccoli imprenditori e trafficanti che avevano utilizzato, abusandone, gli spazi di libero mercato che la NEP si era vista obbligata a concedergli. Lo sviluppo dell’economia socialista li riduceva a forze residuali della vecchia società capitalista, da combattere ed eliminare. La Strong tornerà in seguito su questo aspetto della lotta di classe in URSS.
    «Ho visto la collettivizzazione piombare come una tempesta sul basso Volga, nell’autunno del 1929. Era una rivoluzione che provocava mutamenti più profondi di quelli della rivoluzione del 1917, della quale, del resto, era il frutto ormai maturo». Questo scrive la Strong nel capitolo sulla collettivizzazione dell’agricoltura. In effetti non si poteva che definire rivoluzionaria la radicale trasformazione dell’agricoltura che, tra il 1930 e il 1933, portò circa 14 milioni di piccoli appezzamenti di proprietà contadina, estremamente frazionati e scarsamente produttivi, a raggrupparsi nelle fattorie collettive (kolcos), servite da trattori e altre macchine agricole. Era una trasformazione necessaria ed improcrastinabile, complementare allo sviluppo dell’industria, poiché garantiva l’approvvigionamento di viveri alle fabbriche e alle città; viceversa la crescita della produzione industriale era necessaria e complementare alla modernizzazione dell’agricoltura, poiché ne garantiva la meccanizzazione. Lo sviluppo armonico di entrambi i settori assicurava l’innalzamento del tenore di vita e del livello culturale delle masse lavoratrici. Questo è, in sostanza, il significato di un’economia pianificata.
    A sfatare i luoghi comuni secondo i quali si trattò di una trasformazione progettata centralmente sulla carta e imposta dall’alto, ecco, se ce ne fosse bisogno, una tra le tante testimonianze dell’autrice: «Quando lasciai la zona (del basso Volga) chiesi ad un funzionario locale cosa dicesse Mosca di questo e di quello. Egli rispose frettolosamente ma con orgoglio: “Non possiamo aspettare ciò che ci dice Mosca: Mosca fa i piani secondo quello che diciamo noi”».
    Come abbiamo visto per l’industrializzazione, le contraddizioni di classe e al loro interno il fattore umano incidono sulle trasformazioni sociali.
    Le forze in campo vengono chiaramente identificate dalla Strong: su un fronte, i contadini poveri ed i braccianti senza terra, sostenitori entusiasti della collettivizzazione, sul fronte opposto, i contadini ricchi (kulaki) che «combattevano il movimento con tutti i mezzi, che arrivavano fino all’incendio e all’assassinio». In mezzo, la spina dorsale dell’agricoltura: i contadini medi, indecisi tra la gestione individuale delle loro proprietà e l’ingresso nei kolcos, dove avrebbero usufruito del sostegno del governo e dell’impiego delle macchine. Quando la maggior parte di essi decise per questa seconda opzione, l’entrata nelle fattorie collettive assunse dimensioni di massa, in termini di villaggi, circoscrizioni ed intere regioni.
    Queste lotte laceravano tutta la società, compresi gli amministratori locali ed i funzionari di partito. Alcuni, per eccesso di zelo, forzarono, con pressioni e minacce, i contadini ad entrare nei kolcos, altri pretesero di collettivizzare tutte le proprietà private, dalle abitazioni, agli animali domestici, agli attrezzi di lavoro. Altri ancora, al contrario, si fecero complici dei kulaki, frenando con ostacoli burocratici il movimento di collettivizzazione. La Strong riconosce che queste divisioni arrivavano anche ai livelli più alti della direzione del partito.
    La rivoluzione “dal basso” fu ufficializzata “dall’alto” con la svolta nella politica del partito, nota per la parola d’ordine “liquidazione dei kulaki in quanto classe” (3), decisa nel Comitato Centrale del 5 gennaio 1930. La risoluzione adottata stabiliva inoltre scadenze differenziate per la collettivizzazione e ribadiva alcuni principi: il carattere volontario dell’adesione ai kolcos e la forma principale d’organizzazione dei kolcos, cioè l’artel agricolo, che prevedeva la collettivizzazione soltanto dei principali mezzi di produzione. Infine, gli eccessi dei più zelanti funzionari di partito furono criticati nel famoso articolo di Stalin, sulla “Vertigine del successo”, apparso sulla Pravda del 2 marzo 1930, che ebbe un’entusiastica accoglienza, come ci racconta la Strong in alcuni esilaranti aneddoti, a cui rimandiamo.
    Le contraddizioni strutturali si riflettevano nel quadro sovra-strutturale della cultura contadina e la lotta per la collettivizzazione fu anche lotta contro l’arretratezza e l’ignoranza. Molti fattori sociali cercavano di far girare all’indietro la ruota della storia e su questi puntavano i kulaki che tentavano di allearsi con i vecchi, che vedevano crollare le gerarchie della famiglia patriarcale, con i preti, che temevano la fine del loro potere con la messa in discussione delle superstizioni e delle credenze religiose, con gli uomini, che non volevano rinunciare al loro dominio assoluto sulle donne. I rivoluzionari, in primo luogo i giovani, lottarono per liberarsi dai ceppi delle tradizioni medievali, per una vita più libera e per un lavoro che desse spazio alla loro iniziativa e alla loro creatività. Le donne, una volta conquistata l’indipendenza economica, trovarono il coraggio di liberarsi dalla soggezione ai loro padri e mariti e, fino nei più lontani villaggi dell’Asia centrale, forti di una nuova solidarietà femminile, eliminarono pubblicamente il simbolo della loro soggezione: «Le donne passarono davanti al palco: giunte di fronte al podio, gettarono il velo, e poi, tutte insieme, andarono a sfilare per le strade... Altre donne uscivano dalle loro case, si univano alla sfilata e gettavano il velo davanti alle tribune».
    La Strong mette in luce il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie: dai tecnici innovatori delle Stazioni di macchine e trattori, ai lavoratori delle “sezioni politiche”, formate da operai specializzati, direttori di fabbrica, comandanti dell’esercito, scienziati, venuti volontariamente dalle città per prestare le loro competenze ai fini del miglioramento delle coltivazioni e per formare nuovi quadri, fino ai giornalisti delle “brigate d’assalto”, che denunciavano la corruzione dei funzionari o che percorrevano in lungo e in largo le vaste zone agricole per prevenire gli sprechi e per raccogliere dati da generalizzare. Diamo ancora la parola alla Strong: «In quei quaranta giorni mio marito (redattore del Giornale dei contadini) perse quindici chili di peso, tornò anche pieno di pidocchi. Ma calcolava che la sua brigata avesse evitato la perdita di forse trecentomila ettolitri di grano. Il suo lavoro non è che un esempio della battaglia generale e senza risparmio condotta in quell’anno».
    Dopo averci offerto, nei capitoli precedenti, numerosi esempi di abnegazione e dedizione alla causa del socialismo, la Strong dedica il capitolo “Nuovi tipi umani” a quegli “uomini nuovi” che impegnavano tutte le loro forze e la loro intelligenza non per conseguire vantaggi personali, ma per un obiettivo comune, utile per l’intera società. Lenin aveva chiamato le prime iniziative di lavoro volontario “germi di comunismo”. Questi germi si erano moltiplicati nella società sovietica e moltissimi erano gli “eroi del lavoro” che ogni anno, nei loro congressi, esponevano con orgoglio i risultati raggiunti, suscitando entusiasmo e stimolando l’emulazione. Dopo averne ricordato i più popolari, dal minatore Stakanov, alla colcosiana Maria Demcenko, al metallurgico Vasiliev, detentori di record mondiali nei rispettivi rami produttivi, la Strong sceglie di inquadrarli nella trasformazione di tutta la società. Lo fa con le parole dello scrittore Panferov, che riportiamo:
    «La classe operaia ha costruito una diga sul Dnepr impetuoso e ha costretto le sue indocili acque a servire l’uomo. Essa ha trasformato i nebbiosi Urali in un centro industriale, ha vinto il remoto e selvaggio Kusbass. Nel rifare il paese la classe operaia ha riplasmato anche se stessa».
    La Strong ci parla dello sviluppo culturale che aveva trasformato contadini analfabeti in agronomi, attori dilettanti, paracadutisti. Poiché l’Unione Sovietica comprendeva 150 nazionalità diverse, in tutti gli stadi di civiltà e cultura, «...a Mosca si cominciarono a stampare libri in cento lingue, finché la produzione libraria dell’URSS, alla fine del primo piano quinquennale, superò il numero dei libri stampati in Francia, Germania e Inghilterra, prese insieme».
    Infine l’autrice descrive i metodi educativi dei giovani e giovanissimi, che consistevano nell’aiutarli a sviluppare le proprie attitudini, nell’incoraggiare la loro iniziativa e la loro creatività. La Pravda sintetizzò come segue l’ideale sovietico del carattere, che era l’esatto contrario dell’obbedienza cieca richiesta da Hitler alla gioventù tedesca: «L’individualità forte e originale è la caratteristica essenziale del cittadino sovietico... Non sottomissione e cieca fede, ma consapevolezza, audacia e decisione. Forte individualità, inseparabilmente connessa alla disciplina del collettivo dei lavoratori, altrettanto forte e consapevole».
    E poiché questi principi non erano vuota retorica ma una pratica vivente di milioni di uomini, ciò dovrebbe mettere a tacere i detrattori della società socialista, vista come “massificazione dei cervelli ed annullamento della personalità”.
    La Strong pone a coronamento di questa “stagione felice” della costruzione del socialismo in URSS la promulgazione della nuova Costituzione, approvata dal Congresso dei Soviet il 5 gennaio 1936 sulla base del progetto elaborato da un’apposita commissione presieduta da Stalin e sottoposto ad una vastissima consultazione popolare, che aveva prodottò migliala di emendamenti. L’autrice si sofferma sul capitolo riguardante i diritti e gli obblighi fondamentali dei cittadini e, in particolare, sugli articoli concernenti i diritti sociali, civili e politici. Trascura invece, almeno in questo testo, di mettere in luce gli articoli che sanciscono il dovere, da parte di tutti, «.. .di osservare la norma, la disciplina del lavoro, le regole di convivenza socialista, di salvaguardare la proprietà sociale socialista, con la formula drastica “coloro che attentano alla proprietà sociale socialista sono nemici del popolo”, nonché gli articoli concernenti il tradimento della patria, il passaggio al nemico, lo spionaggio, “punito con il massimo rigore della legge, come il più grave dei misfatti” . » Chi si sofferma su questi articoli, scrive Aldo Bernardini, potrà facilmente comprendere come, almeno in linea di principio, l’attività repressiva, anche molto dura ed ingente in una situazione in particolare di guerra imminente e di inasprimento della lotta di classe, fosse da intendersi già sulla base della Costituzione.. .»...(4).

    Non tenere conto di ciò, induce la Strong a scrivere: «La Costituzione fu violata nel momento stesso in cui veniva scritta». Ella ne fa ricadere le colpe sulla polizia politica, della quale nessuno vuoi difendere gli eccessi e le responsabilità personali. Ma il punto politico è semmai l’indipendenza del partito dalla Costituzione e le sue prerogative di lotta e di repressione delle tendenze controrivoluzionarie. Citiamo ancora Bernardini : «... nelle sue funzioni essenziali e tipiche il PCUS staliniano era esterno alla Costituzione e in realtà non soggetto ad essa, in quanto ne aveva la dominanza in vista dei fini di difesa e trasformazione sociale non condizionabili dalla Costituzione vigente. Il fine extracostituzionale del passaggio alla fase comunista era compito del Partito». (5). (...) NOTE

    1 Autori rispettivamente di Dieci giorni che sconvolsero il mondo e di Stella rossa sulla Cina.
    2 Antonio Granisci. Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci. Einaudi editore, NUE, Torino, 1975, Quaderno 11, p. 1.505
    . 3 Parola d’ordine interpretata dalla propaganda borghese come la loro liquidazione fisica di massa, il loro genocidio, ecc. Oltre alla Strong, molti autori inquadrano in quel contesto storico e ridimensionano questo episodio. Non essendo possibile dilungarci su di esso in queste note introduttive, rimandiamo, ad esempio, all’opera di Ludo Martens, Un autre regard sur Staline, Edizioni EPO, di prossima pubblicazione in traduzione italiana.
    4 Problemi delta transizione al socialismo in URSS Atti del Convegno di Napoli 21-23 novembre 2003, Edizioni La Città del Sole, Napoli, 2004, p. 233.
    5 Ibidem, pp. 234-235.

    Adriana Chiaia
    http://www.pasti.org/chiaia5.html

  9. #59
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    Entrambi i testi sono veramente apprezzabili.
    Io ho trovato molto più interessante quello della Strong.

 

 
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