OMNIA SUNT COMMUNIA


Comunità in movimento nel segno dell'esclusione


Da poco uscita per Leonardo International, la raccolta di saggi «Il caso zingari» rappresenta il punto di partenza per riconsiderare la travagliata storia della presenza gitana in Europa. Intessuta di persecuzioni e pregiudizi secolari Secondo una recente indagine, solamente un italiano su mille possiede conoscenze adeguate sul variegato universo gitano. E nel divario fra una informazione volutamente distorta, e la realtà sociale quale essa è, si incunea una dilagan

Martino Patti

Specie a ridosso delle elezioni, mostrare il pugno di ferro, seminare terrore, soffiare sulla placida fiamma del pregiudizio può rivelarsi, dal punto di vista strategico, un'operazione redditizia. C'è infatti una sola strada, nella società dell'homo videns, per dare legittimazione e senso all'azione politica: additare allo sguardo indifferente della pubblica opinione capri espiatori e spauracchi per ogni dove. E se la minaccia non esiste, la soluzione è semplice: basta crearla a tavolino. La persistenza e la gravità di una tale condizione di stallo sono ben testimoniate, fra le altre cose, dalla deriva securitaria - che si è manifestata con preoccupante sistematicità in mezza Europa - dei vecchi partiti riformisti. Neppure in Italia, beninteso, questa linea di tendenza ha tardato a emergere in tutta la sua devastante carica corrosiva, e perciò non ha destato particolare stupore osservare come, nel corso della campagna elettorale ormai archiviata, quasi ogni ora anche Alemanno e Rutelli si siano rincorsi a vicenda sul tema della sicurezza, della legalità e più nello specifico dell'immigrazione.

Bersagli di un'ondata populista
Nel linguaggio di entrambe le coalizioni «moderate» si è così consolidato il riferimento a una visione, per molti versi schiavista e autoritaria, nei limiti della quale se da un lato risulterebbe opportuno, e persino moralmente legittimo, ospitare solo quel contingente di stranieri strettamente necessario al fabbisogno produttivo del paese, dall'altro lato la figura stessa del migrante è spogliata dei suoi tratti personali per essere fatalmente ridotta all'idea, vaga e quanto mai inquietante, del «clandestino» o dell'«extracomunitario» vittima suo malgrado o protagonista attivo dei circoli criminali: e niente più. Come dimostra il pogrom milanese di appena venti giorni fa, anche le comunità zingare presenti nella penisola rientrano fra i bersagli prediletti di questa ennesima ondata populista.
A causa della sua presunta fisionomia inafferrabile e ab-norme, infatti, lo zingaro sembra prestarsi molto bene all'opera di reificazione e di mistificazione ormai imprescindibile per la costruzione del consenso, e pertanto quando un campo è sgomberato, anche se in barba alle più elementari consuetudini umanitarie, sono pochi coloro che non tacciono compiaciuti. Perché nell'immaginario comune, lo zingaro è - come un tempo l'ebreo - l'alterità assoluta in carne e ossa, l'usurpatore malvagio, irriducibile, refrattario al buon costume, la cui semplice presenza incrina e mette in crisi quell'insieme di piccole certezze filistee che sembrano costituire, oggi più che mai, l'essenza stessa della vita.
Sul piano dei fatti, tuttavia, si verifica sempre più spesso una torsione, stridente e lacerante, fra quel che le masse sono indotte a pensare, e in parte anche a volere, e la realtà sociale quale essa è e si svolge oltre l'angusta cortina dei media. Proprio in questo divario si incunea la dilagante ostilità riservata a quanti, macchiandosi d'un crimine orribile, dis-velano le innumerevoli sfaccettature della diversità. Nel caso degli zingari, la forzatura è palese: li si condanna senza appello, li si denigra, ma poi, ed è curioso, non si sa neppure - né si vuole sapere - quale nome dare loro. Vale allora la pena di ricordare che, secondo una recente indagine statistica condotta da Renato Mannheimer, appena un italiano su mille (lo 0,1%) dimostra di possedere conoscenze adeguate sul variegato universo gitano. Per esempio, mentre un terzo abbondante del campione preso in esame da Mannheimer sovrastima la presenza di rom e sinti in Italia (qualcuno paventa l'invasione e parla addirittura di due milioni di zingari, quando ve ne sono centoquarantamila al massimo, ovvero uno ogni quattrocento italiani), solo un intervistato su quattro sa che almeno una metà abbondante della loro popolazione è italiana, mentre sono ben nove intervistati su dieci a pensare che gli zingari in generale siano e rimangano tuttora in larga parte nomadi.
Sullo sfondo di queste cifre risalta dunque con maggiore evidenza l'estrema povertà di studi dedicati sia al percorso storico compiuto dagli zingari nel vecchio continente sia, e forse soprattutto, alle croniche difficoltà connesse a tale percorso. Si tratta, in effetti, di un punto cruciale. Perché se è vero, come suggeriscono i lavori di Jean-Loup Amselle e di Marco Aime, che le tradizionali nozioni di identità e di cultura possiedono un carattere essenzialmente strumentale, processuale e dinamico (solo quel che si diventa, si è), non può che conseguirne, come corollario, che la comprensione dell'altro - e di qui l'educazione al dialogo e alla reciproca tolleranza - si rende possibile sul solo terreno di una attenta ricostruzione storica, e non dell'ingenuo folklore. Si segnala in questo senso quasi alla stregua di un vero e proprio unicum nell'odierno panorama intellettuale Il caso zingari, recentemente edito dalla Leonardo International di Milano (introduzione di Andrea Riccardi, pp. 128, euro 12). Il volume - che raccoglie con ordine le relazioni presentate da Marco Impagliazzo (curatore dell'opera), Amos Luzzatto, Giovanni Maria Flick e Paolo Morozzo della Rocca a una delle rare giornate di studi sul tema organizzata lo scorso luglio a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio, e che contempla un'utile appendice documentaria - è un buon punto di partenza per riconsiderare in prospettiva una serie di snodi fondamentali della presenza gitana in Europa e dunque per cominciare a scalfire quella fitta coltre di stereotipi e di pregiudizi che rimane all'origine di fraintendimenti molteplici. Accostiamone ora almeno un paio.

La rossa ruota di un carro
Sulla scia di Impagliazzo va anzitutto sottolineato come la storia dei popoli zingari coincida in massima parte con le violente persecuzioni da loro subìte. Detto altrimenti, più che rappresentare un innocuo, recente e tutto sommato inevitabile epifenomeno delle nostre metropoli, l'antigitanismo è una nervatura strutturale della storia europea. Dense di significato sono, da questo punto di vista, la totale acriticità e l'inerzia con cui volentieri si continua a impiegare le parole «zingaro» e «gitano», due etnonimi che se rischiano di essere troppo sfumati e generici, testimoniano anche quanto remota sia in realtà l'origine della prevenzione antigitana. Intanto, sarebbe sciocco raffigurarsi la complessa galassia gitana come un unico monolito, privo al suo interno di differenze e di specificità anche marcate.
Proprio per questo, nel lontano 1971, la Conferenza Internazionale dei Rom riunita a Londra adottò come bandiera ufficiale la ruota rossa di un carro con i sedici raggi che alludono alla molteplicità delle genti nomadi (i rom centro-europei, i sinti dell'Italia settentrionale, i kalé spagnoli, i romnichels del Galles e via dicendo), sospese fra il verde e l'azzurro, i colori del cielo e della terra. Per contro, insieme al tedesco Zigeuner e al francese tsiganes, anche il sostantivo italiano «zingaro» germina dal greco atz(s)iganoi - alla lettera: gli «intoccabili» - denominazione con cui sin dalla fine del XIV secolo i bizantini erano soliti alludere ai discendenti di quella frastagliata congerie di «etnie», caratterizzate da una comune matrice linguistica (la romani, di matrice sanscrita), che intorno all'anno Mille abbandonarono il subcontinente indiano per avvicinarsi gradualmente all'Europa e che a motivo del loro paganesimo eretico si videro relegate ai margini della società cristiana.
Il termine «gitano» - alla lettera «e-giziano», da cui le forme distorte gypsies in inglese e gitanos in spagnolo - fu coniata invece solo nel corso del XV secolo, quando prese a circolare la leggenda secondo cui il popolo zingaro, privo da sempre di una cultura scritta, sarebbe stato maledetto da Dio, e quindi condannato a una condizione di nomadismo perenne e senza meta, per aver rifiutato di accogliere la sacra famiglia durante la fuga in Egitto.
È pertanto del tutto legittimo asserire che la segregazione dei gitani nasce e si consolida nel quadro, troppo spesso idealizzato, della civilizzazione cristiana d'età medievale. In seguito, due altri fattori offrirono un contributo determinante sia alla definitiva marginalizzazione sociale degli zingari, sia alla cristallizzazione nella sensibilità popolare dell'accostamento fra lo zingaro e le idee di immoralità, di malvagità, di sporcizia. Stiamo parlando da un lato dell'impressionante sequenza di provvedimenti legislativi che fra la prima età moderna e l'Ottocento colpì le comunità zingare quasi dappertutto. Impagliazzo cita, a questo proposito, le frequenti espulsioni di gruppo (la prima documentata è quella votata dall'assemblea di Lucerna nel 1471), la deportazione coatta in Brasile, Capoverde e Angola degli zingari portoghesi e ancora l'efferato decreto con cui, nel 1725, Federico Guglielmo I di Prussia ordinò che tutti gli zingari al di sopra dei diciotto anni, non di rado marchiati a fuoco nello spazio germanico, fossero impiccati senza processo del tutto a prescindere dalla loro condotta di vita.
Ma da non sottovalutare è anche, dall'altro lato, la capillare diffusione di ulteriori stereotipi peggiorativi come ad esempio quello dello zingaro infingardo di volta in volta spia, rapitore dei bambini cristiani, usuraio. In tal modo, secondo un percorso articolato ma sostanzialmente lineare e omogeneo, il rifiuto e l'esclusione divennero la norma. E se è vero che all'indomani dei Lumi alcuni autori romantici opereranno qua e là una parziale rivalutazione della libera esistenza gitana (per tutti valga l'esempio delle fortunate volgarizzazioni operistiche della novella Gitanilla, scritta da Miguel de Cervantes nel 1613), non va altresì trascurato che parallelamente all'elaborazione delle nuove teorie positiviste, antropomorfiche e razzial-razziste, una sanzione di tipo biologico porrà le basi per la definitiva legittimazione del canone sulla presunta inferiorità ontologica delle stirpi gitane. Sotto il Terzo Reich, il codice antigitano europeo sortirà infine i suoi effetti più sciagurati e funesti.

Verso l'abisso concentrazionario
Nella memoria collettiva di rom e sinti, i due gruppi di gran lunga maggioritari nel nostro paese, le parole Porrajmos («divoramento») e Samudaripen («genocidio») simboleggiano il tentativo, avviato nel giugno 1941, di annientare in blocco le comunità zingare d'Europa. Si trattò - come nel caso, ben più noto, della Shoah - di un'immane carneficina, tanto che i morti oscillerebbero fra i 219mila e il mezzo milione. Molti zingari furono uccisi sommariamente prima ancora di salire sui vagoni piombati, molti altri si videro trucidati dalle Einsatzgruppen nel Baltico e in Russia. I camini di Auschwitz rappresentavano però solo l'ultima tappa di un lungo percorso di vessazioni, chiarito sin nel dettaglio dalle pluriennali ricerche di Guenter Lewy (La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi 2002).
Da notare è che il lento ma inesorabile scivolamento verso l'abisso concentrazionario fu sollecitato, questa volta, direttamente dalla pubblica opinione e dalle municipalità sparse sul territorio. Si verificò allora quella che Brunello Mantelli ha definito la «razzizzazione del pregiudizio»: le differenze tra uomo e uomo, innate e acquisite, furono interpretate come differenze razziali, sinché, nel '38, fu esteso anche agli zingari il pacchetto di leggi razziali approvate a Norimberga nel '35. Si affermò, nello specifico, che a causa della loro irreprimibile tendenza a vivere da nomadi e a mescolarsi con vagabondi, asociali e criminali di ogni sorta, il novanta per cento degli zingari rappresentava il semplice risultato di «incroci indesiderabili», e che quindi, per impedirne la riproduzione, si sarebbe dovuto sterilizzarli. Come di fatto avvenne.

Atroci esperimenti medici
I vertici del regime, dal canto loro, non elaborarono subito una strategia unitaria e coerente per la soluzione dell'annosa «questione gitana». Alcuni, come Heinrich Himmler, sostenevano che bisognava preservare la razza gitana là dove essa fosse riuscita a mantenere intatta attraverso i secoli tutta la sua purezza indogermanica. Altri, come Joseph Goebbels e il Führer erano invece convinti che una vera alternativa alle camere a gas non esisteva. Alla fine si preferirà questa strada. Ma nel frattempo, mentre ancora si chiacchierava a Berlino sul da farsi, nei Lager gli zingari erano utilizzati come cavie da laboratorio in atroci esperimenti medici, che il più delle volte costituivano il sicuro preludio alla morte.
Ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, non può dunque che destare doloroso sconcerto la sentenza (di lì a poco confermata dalla Corte Suprema della Bundesrepublik) con cui, nel 1950, il Ministero dell'Interno del Württemberg scelse di rifiutare a rom e sinti un risarcimento anche soltanto di natura simbolica adducendo la motivazione che essi «erano stati perseguitati dal nazismo non già per motivi razziali, bensì per i loro precedenti asociali e delinquenziali». E incredibile a dirsi: solo nel 1980 il governo tedesco di Helmuth Schmidt sconfesserà una volta per tutte il fanatismo di Hitler e dei suoi seguaci, riconoscendo il carattere propriamente razzial-razzista della persecuzione antigitana.

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