Da molti anni a questa parte, analisti e studiosi del Giappone sono attratti dalle strane analogie tra la politica dell'arcipelago ai confini dell'Asia e quella di un Paese situato invece nel cuore dell'Europa: sì, parliamo proprio dell'Italia. Culturalmente, i due Paesi non potrebbero essere più diversi. Eppure, decenni di governi deboli da una parte e dall'altra, con un costante andirivieni di primi ministri e caratterizzati, fino a questi ultimi anni, da economie che sembravano ignorare le disfunzioni della politica, rendono il confronto irresistibile. Oggi che la coalizione di Silvio Berlusconi gode di un'ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, i due Paesi sembrano aver preso strade diverse: il Giappone infatti è rimasto bloccato da una paralisi politica e un Parlamento diviso.

Ma le cose stanno davvero così? Ci ha pensato Giulio Tremonti, proprio in questi giorni, a ristabilire un collegamento. Il redivivo ministro del Tesoro è riuscito, prima della campagna elettorale, a rianimare il dibattito sull'intervento dello Stato nell'economia, grazie al suo recente libro La paura e la speranza. Anche il suo capo ha illustrato ampiamente le proprie vedute nel manifestare la sua opposizione alla vendita della quota del governo (49%) in Alitalia ad Air France/KLM. Tuttavia, Tremonti è sensibile alle critiche provenienti dall'estero che lo accusano di essere un sostenitore del protezionismo e dell'interventismo statale. In risposta a un articolo apparso sul Financial Times, il 16 aprile Tremonti ha inviato al giornale inglese una lettera in cui proclama la sua innocenza, affermando di favorire «un mercato regolato, contro un mercato libero e non regolato» e una filosofia di «mercato se possibile, Stato se necessario».

E che cosa ci sarebbe da ridire? In Giappone, perlomeno, qualcuno è d'accordo con lui. Un hedge fund inglese, The Children's Investment Fund (TCI), è appena stato bloccato dal governo quando ha voluto aumentare l'attuale quota azionaria del 10% in una delle grandi aziende elettriche giapponesi, la J-Power. Il capo di gabinetto del governo giapponese, Nobutaka Machimura, l'uomo politico più importante dopo il primo ministro, giura che il suo intervento è legittimo «per proteggere la sicurezza nazionale» e «salvaguardare l'ordine pubblico». Si tratta di un intervento statale necessario, afferma Machimura, e non c'è motivo per cui una tale azione dovrebbe scoraggiare il capitale estero dal fare investimenti in Giappone. L'Italia, dal canto suo, è ben più aperta del Giappone agli investimenti stranieri, eppure i due Paesi condividono la medesima diffidenza di sottofondo riguardo la proprietà estera e i sentimenti nazionalistici nei cosiddetti settori «strategici», come l'aviazione, le telecomunicazioni e l'energia elettrica.

Né Tremonti, né Machimura hanno fatto finora uno sforzo sincero per trovare argomenti logici a sostegno delle loro posizioni. L'affermazione di Tremonti, di essere favorevole a un «mercato regolato», non significa nulla. Non esiste un mercato che non abbia regole, tranne il contrabbando e il narcotraffico. Tutto il commercio legale è soggetto alla normativa stipulata dalla World Trade Organization. E il tribunale della WTO è chiamato a dirimere tutte le questioni relative al rispetto delle regole. Pertanto il «mercato libero e non regolato» contro il quale si scaglia Giulio Tremonti semplicemente non esiste. La vera questione è capire se Tremonti accetta le regole che esistono, o se è intenzionato a cambiarle. Nel qual caso, dovrebbe sottoporre le sue proposte al dibattito pubblico. Ugualmente, sostenere «mercato se possibile, Stato se necessario» non ci dice proprio un bel niente. Chi decide se lo Stato è necessario? Come si definisce la necessità? Esiste questa necessità nel caso dell'Alitalia, in un mondo in cui quasi tutti i Paesi europei hanno rinunciato all'idea di una compagnia di bandiera? Su questi punti dovrebbe focalizzarsi una discussione aperta e sincera. La controparte giapponese è ugualmente in malafede.


Difatti Machimura sostiene che gli investitori stranieri capiranno certamente perché non possono accaparrarsi una quota azionaria troppo cospicua di un'azienda elettrica. E perché mai? Quale possibile minaccia all'«ordine pubblico» e alla sicurezza nazionale ne verrebbe da TCI (o da qualsiasi altro hedge fund), se chiede al management di aumentare i dividendi ed evitare sprechi di capitale nell'acquisto di pacchetti azionari in altre società? In moltissimi Paesi, tra cui la Gran Bretagna, le aziende elettriche sono di proprietà straniera e non ci sono mai stati casi comprovati di minacce all'ordine pubblico. La vera domanda che tanto gli italiani quanto i giapponesi dovrebbero porsi semmai è la seguente: nell'interesse di chi si faranno questi interventi in Alitalia e J-Power? Nel vero interesse dei cittadini, dei passeggeri e degli utenti? Oppure nell'interesse di una lobby specifica, molto più ristretta? Se fosse veramente nell'interesse pubblico nazionale, allora l'intervento statale potrebbe definirsi davvero «necessario», per tornare al termine di Tremonti. Ma questo intervento dovrà essere chiaramente giustificato, ogni qualvolta il governo si arroga il diritto di interferire.

http://www.corriere.it/economia/08_a...4f486ba6.shtml