Le promesse della campagna elettorale si sono concentrate quasi esclusivamente su un blocco sociale: quello composto da lavoratori dipendenti e pensionati. Questa scelta si spiega per effetto non solo di fenomeni relativamente recenti (il “ritorno dell’inflazione”), quanto della necessità di rispondere a dinamiche di lungo periodo.
Le retribuzioni reali crescono a ritmo molto lento da troppo tempo, essenzialmente perché cresce poco, o non cresce affatto, la produttività media del sistema.
La politica si è prodigata in promesse, più o meno verisimili o fantasiose: redditi minimi, interventi sui salari, adeguamenti di vari tipo delle pensioni, aumenti delle pensioni minime, provvidenze per le famiglie, eccetera.

L’aritmetica di ciascuna di queste voci è piuttosto complessa e difficilmente verificabile senza conoscere i dettagli delle diverse proposte. C’è però un’aritmetica macroeconomica che è molto semplice da verificare e fornisce un metro chiaro per capire quello che il prossimo governo potrà effettivamente fare. I lavoratori dipendenti sono circa 17 milioni. I pensionati, spesso titolari di più posizioni pensionistiche, sono oltre 16 milioni. In tutto 33 milioni di persone. Se a ciascuno di questi si volessero dare, sotto forma si sgravi fiscali o maggiori spese, 1000 euro l’anno, ossia non più di 77 euro al mese per 13 mensilità, il costo per il bilancio pubblico sarebbe di 33 miliardi di euro all’anno, oltre il 2 per cento del Pil. Si tratta di una somma enorme che farebbe scattare una nuova procedura di infrazione europea e, soprattutto, rimetterebbe su un sentiero di crescita insostenibile il debito pubblico.

Dunque, in questi termini, certamente non si può fare. Cosa dunque “si può fare”? Ammettiamo che effettivamente vi siano 5 miliardi di extra gettito, il che non è affatto scontato dal momento che non sappiamo se vi saranno anche delle extra-spese e quali saranno gli effetti reali sul bilancio della cattiva congiuntura internazionale. Volendo mettere 5 miliardi di euro a disposizione di 33 milioni di persone, si arriverebbe a 12 euro al mese.

Si possono ovviamente sviluppare interventi mirati solo sui più poveri. Ad esempio, si possono dare 77 euro al mese solo al 15% più povero dei 33 milioni di dipendenti e pensionati. A loro volta, però, i pensionati che stanno sotto ai 1500 euro al mese sono 13 milioni. Loro, da soli, farebbero 13 miliardi di spesa in più. Se si riducesse ulteriormente la platea ai soli pensionati con meno di 1000 euro al mese, il costo sarebbe di circa 9 miliardi. Ancora non ci staremmo dentro. E nulla avremmo fatto per i lavoratori dipendenti.

Queste cifre, o qualunque loro sottoinsieme, vanno viste alla luce dello stato delle finanze pubbliche. Le valutazioni ufficiali, contenute nella “Relazione unificata sull’economia e la finanza pubblica” del Ministro dell’Economia, sono state sommerse nel gran baccano della campagna elettorale. Per conseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2011 concordato con l’Unione Europea - obiettivo definito non negoziabile - dovrà rimanere “quasi ferma in termini nominali” la spesa corrente primaria, al netto della componente delle prestazioni sociali sulle quali nella Relazione si ritiene che non si possano fare ulteriori interventi. Ciò significa che, in termini reali, tale spesa dovrà scendere di oltre l’1 per cento all’anno sino al 2011. Se invece si desse la priorità alla riduzione della pressione fiscale, rimarrebbe tuttora sostanzialmente valida la valutazione fornita nell’ottobre scorso dal Governatore Draghi. Se si volesse riportare la pressione fiscale sul livello del 2005, la spesa primaria corrente (inclusiva, questa volta, delle prestazioni sociali) dovrebbe ridursi ad un ritmo superiore al 2 per cento all’anno in termini reali. Per avere un termine di paragone, dal 1998 ad oggi, questo aggregato, la spesa primaria corrente, è cresciuta stabilmente, in termini reali, al ritmo medio annuo del 2 per cento.

La conclusione, sempre secondo la Relazione unificata, è che “nel complesso, la politica di bilancio dovrà recuperare risorse per un ammontare che si situa fra i 20 e i 30 miliardi di euro nel triennio 2009-2011”.
Di fronte a questi numeri, sono sacrosanti, ma pressoché ininfluenti i tre immancabili protagonisti delle campagne elettorali: la lotta agli sprechi, la valorizzazione del patrimonio pubblico e il contrasto dell’evasione.

Cosa farà dunque il prossimo governo? Con tutta probabilità sarà costretto a cestinare o quantomeno ridurre a misere briciole la gran parte delle promesse elettorali. Sarà forte la tentazione politica di rinegoziare gli impegni europei, con tutti i rischi che questo comporta - specie in un momento in cui gli investitori internazionali sono alla ricerca di impieghi sicuri e hanno la piena consapevolezza che il nostro Paese sta iniziando ad affrontare una complessa transizione demografica che peserà sulla spesa pensionistica e, ancor di più, su quella sanitaria.
Non è facile dire come si possa gestire questa situazione. Di ben altre promesse avremmo avuto bisogno: di un progetto di svolta, di netta e drastica diminuzione del peso dello Stato, di creazione di opportunità, di vere liberalizzazioni, capaci di rimettere in moto la crescita della produttività. Ma sono promesse che non portano voti.

Da Il Riformista, 11 aprile 2008


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