Originariamente Scritto da
Abbott
Ovvero elogio dell’uomo imperfetto che agisce “come se”
Sono ormai mesi che si sente parlare di liberismo in crisi, di mercati in crisi e di capitalismo in crisi.
Tra un articolo e l’altro, tra un catastrofismo ambientale e una crisi dei mutui subprime, non può, per chi ha una formazione umanistico-filosofica come il sottoscritto, che venire in mente uno dei più grandi filosofi del novecento italiano (di sempre, direbbe Massimo Cacciari): Emanuele Severino. Poi, subito dopo (non nel senso dell’importanza, ma in senso cronologico della mia memoria), il fisico Julian Barbour. Quindi, spinto dal momento storico, mi alzo e raggiungo la mia copia de “Il declino del capitalismo” libro del pensatore del millenovecentonovantatre e “La fine del tempo” testo dello scienziato del millenovecentonovantanove.
Cosa lega il filosofo e il fisico in questione? Vediamo e cerchiamo di capire.
Severino identifica l’occidente con il nichilismo, cioè con la fede nell’esistenza del divenire; il più grande errore, ci dice, è pensare che le cose escano dal niente e ritornino nel niente, errore in quanto l’essere è, quindi non può divenire. Tutto è eterno. Il tempo non esiste e, negli ultimi duecento anni, il pensiero filosofico si è fatto relativista distruggendo l’idea che esista una Verità. Qualsiasi tentativo di Verità (gli immutabili) viene annientato dalla convinzione che gli enti siano niente. Qualsiasi fede religiosa, il papa, l’imperatore, il comunismo e il capitalismo (“Da tempo vado indicando i motivi che fanno pensare che la discesa del capitalismo sia già cominciata. Non si tratta delle difficoltà in cui oggi si trova l’economia capitalista che prima o poi possono essere superate. Si tratta di qualcosa di ben più decisivo: un insieme di forze di diversa natura e potenza agisce con pressione costante per distogliere il capitalismo dal fine che gli è proprio; e questo significa che esse agiscono per trasformare il capitalismo in qualcosa che non è più capitalismo.”), culmineranno nell’apparato tecnico-sciantifico, cioè nella volontà di potenza forza dominatrice delle cose, degli enti.
Scorro le pagine di Severino rileggendo le parti sottolineate già da quindici anni, rimango come sempre stregato dalla sua scrittura, che tanto somiglia a una scultura. Poi prendo Barbour e il perché li abbia associati è ovvio, lo scienziato sostiene di aver dimostrato l’inesistenza del tempo. Propone una “Platonia” in sostituzione dello spazio e del tempo (le leggi della fisica funzionano sia dal passato al futuro che viceversa), gli istanti non sarebbero nel tempo, bensì il tempo negli istanti e teorizza un universo di infiniti adesso (capsule temporali). Platonia sarebbe ricoperta da una nebbia di intensità atemporale (il tempo non esiste) che cambierebbe da un punto all’altro. Nella figura 6 vi è una raffigurazione grafica di platonia:
Dati gli argomenti inizia già a girarmi un po’ la testa, poi, scorrendo velocemente le pagine trovo una brano tratto da “Il gene egoista” del biologo Richard Dawkins e, immediatamente, ho come una botta alla fronte: mi viene in mente un altro brano di quel libro. Mi viene in mente quando dice che gli uomini per determinismo biologico devono accoppiarsi in modo da perseguire la sopravvivenza del DNA, ma che noi abbiamo inventato i mezzi contraccettivi per decidere quando perseguire quello scopo. Quindi torno a Severino e leggo: “Nella misura in cui prende coscienza o si convince del proprio carattere distruttivo e autodistruttivo, il capitalismo procede alla mobilitazione delle forme di energia alternativa – rese disponibili dallo sviluppo tecnologico -, che determinino una quantità sempre minore di inquinamento e di distruzione. Per sperare di sopravvivere, il capitalismo si sottomette, cioè, all’apparato tecnico della salvaguardia ambientale. Se non potesse rivolgersi all’innovazione tecnologica e perpetuasse le forme attuali della produzione con l’impiego delle forme di energia attualmente utilizzate, il capitalismo si troverebbe di fronte a questo dilemma: o imporre alla società la perpetuazione delle forme di produzione da esso attualmente praticate, provocando «realmente» la distruzione della Terra – o attivando sempre di più la «convinzione» che le sue procedure economiche distruggono la Terra -; oppure rinunciare alla produzione in vista del profitto e produrre limitatamente in vista della sopravvivenza della Terra. Nel primo caso, la produzione economica o perviene «realmente» alla distruzione della propria base naturale e quindi alla distruzione di se stessa, oppure alimenta a tal punto quella «convinzione» circa il suo carattere distruttivo da provocare il rifiuto della società a proseguire sulla strada del capitalismo. Nel secondo caso, il capitalismo, costretto ad assumere come scopo primario la sopravvivenza della Terra e dunque a rinunciare al proprio scopo, cioè al profitto, è costretto a rinunciare a se stesso. O distrugge la Terra, e quindi distrugge se stesso; oppure si dà un fine diverso da quello per il quale esso è quello che è, e anche in questo caso distrugge se stesso.” Allora, improvvisamente, sorridendo, mi alzo e raggiungo “La fine dell’economia” di Sergio Ricossa, qui trovo citato Severino in tre pagine; tra queste pagine mi sento come se fossi a casa, mi torna in mente che, quindici anni fa, mentre studiavo Severino, mi ripromisi che nonostante trovassi affascinanti e credibili le sue teorie, io mi sarei comportato come se potessi scegliere, come se la mia libertà fosse la cosa suprema, come se il liberalismo non è un relativismo, come se la libertà individuale e la proprietà privata fossero un faro ad indicare la strada della Verità. Come se il mio imperfettismo coincidesse proprio con lo spazio della libertà di scelta.
Come se, speriamo, nonostante i dazi e i vari interventi centrali, col tempo, la fine non sarà del capitalismo, ma dell’economia.
Come se, dovendo scegliere tra Severino o Barbour, uno, alla fine, si schierasse per Sergio Ricossa.
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