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    Predefinito Antropologia del "mostruoso"

    Soprannaturale e innaturale
    di Maurizio Elettrico
    (Istituto Italiano di Studi Filosofici)


    Villa Palagonia (particolare)

    L'immaginario religioso, artistico, onirico dell'uomo è da sempre popolato da figure mostruose, deformi e innaturali, che affondano le loro radici simboliche nelle più profonde pieghe della psiche e nelle più arcaiche strutture culturali e mitiche. Carica di poteri e valenze simboliche, profetiche e iniziatiche, per poco che si indaghi il vario e grottesco repertorio iconografico dell'innaturale, la deformità si protende verso il nostro sguardo attraverso i secoli, alludendo ancora, anche per l'occhio disincantato della modernità, a un'inquietante ricchezza di significati nascosti e arcani messaggi.

    Le deformazioni e l’idea stessa di deformazione ha avuto in passato un valore sacrale, profetico ed estetico. Nasce essenzialmente dall’importanza comunicata alle immagini e all’immaginazione dalla filosofia antica e dalla sensibilità religiosa. Per gli antichi l’immagine è la forma del pensiero degli dei. Gli dei pensano per immagini e creano con la parola. L’immagine mostruosa o deformata appartiene agli dei del caos, precedenti quindi a ogni ordine cosmico: ha quindi concentrata in sé l’energia di un mondo originario ancora non delimitato dalla legge. Essi fanno parte del mondo del silenzio prima che la parola della divinità produca le sue leggi e le sue forme perfette. La deformazione appartiene quindi alla dimensione del caos primigenio e a quella degli inferi: si riferisce all’universo precedente le leggi e a quello che disubbidì alle leggi. La deformazione nel primo caso indica la presenza nello stesso soggetto di forme viventi non ancora separate dall’atto creativo e ordinatore (uomini con elementi animali o vegetali, animali con caratteri intermedi tra più specie), nel secondo riguarda piuttosto individui che hanno perso la loro divinità, smarrendo di fatto una loro antica perfezione e regredendo a forme confuse di tipo precosmico (demoni ebraico-cristiani). Le alterazione morfologiche vengono adoperate quindi per rappresentare dei atavici o demoni dei in tutte le grandi civiltà del passato; esseri anatomicamente anarchici, che si determinano da se stessi, apparentemente senza alcuna regola e legge esterna. Questi esseri e i loro culti ferini, non privi alle volte di elementi sanguinari, testimoniano il passaggio da una teologia orizzontale aperta al culto della foresta e alle sue presenze selvagge a una teologia verticale dispiegata verso il cielo e le sue costellazioni. L’eroe divino o divinizzato si scontra con esseri fantastici; è questa battaglia il primo atto della creazione. Il combattimento e la vittoria sul mostro rappresenta il primo passo verso l’ordinamento di un nuovo universo fondato sulla legge. É una lotta simbolica contro il caos di un universo non ancora formato, contro l’entropia di un universo già esistente, e ancora contro la malattia e l’anarchia biologica di una natura non interamente dominata dalla ragione divina e dalla sua forza organizzatrice. La creazione come formazione di un mondo ordinato e armonioso è quindi identificata con la guerra originaria contro gli esseri deformi del caos. Il babilonese Marduk, il greco Eracle, l’indiano Krisna hanno tutti loro primordiali mostri da distruggere.

    Krishna è di certo una delle più amate divinità indiane e ha dato luogo alla corrente del Krishnaismo. Viene indicata come l’ottava incarnazione di Visnu: la sua nascita, come quella di molte altre divinità, è assolutamente innaturale e al tempo stesso soprannaturale. Egli si origina da un capello del dio Visnu. Visnu si strappa dalla testa due capelli, uno bianco l’altro nero, e pone il primo nel grembo di Rohini e il secondo in quello di Devaki. Il capello nero genererà Krishna, che significa appunto "il nero", mentre dal capello bianco nascerà Balarama.

    Nel Bhagavata Purana, che canta le gesta di Krisna, Dhenukasura è un asino dalla forza gigantesca, Kaliya è invece un immenso serpente nero dotato di un centinaio di teste e dalle cui narici esalano fumi tossici. Il mostro Pralambasura, con denti aguzzi e occhi fiammeggianti, è in grado di gonfiarsi a dismisura, ma anche di assumere sembianze umane. Aghasura ha invece l’aspetto di un gigantesco serpente dalla bocca perennemente spalancata. Le dimensioni di questo asura erano veramente colossali: l’osso del mento appare grande come una montagna, mentre la lingua ha le dimensioni di una strada. Vatsasura può assumere qualsiasi forma e si tramuta in un vitello, mentre Bakasura è un'anitra dalle dimensioni di una collina. Qui i mostri mitici si contrassegnano per due aspetti fondamentali: l’instabilità della forma e le dimensioni smisurate. Denotano quindi un aspetto contronaturale, negando la legge di una specificità biologica come pure quella di una giusta proporzione. I due aspetti sostanzialmente si equivalgono: questi esseri partecipano all’infinitezza precosmica attraverso l’indefinitezza. Le enormi dimensioni sono segno di una non accettazione dei limiti e dei contorni; ugualmente si giustifica il loro aspetto camaleontico.

    Tiamat, dea delle acque salate, foggia per combattere Marduk undici esseri orrendi circondati da fiamme e da un particolare bagliore in grado di allontanare i nemici. Ce ne sono in forma di vipera, di grande elefante e di grande leone, ma anche di cane rabbioso, di centauro e di uomo scorpione. Marduk, per dare vita al nuovo ordine, ammansirà queste creature e ucciderà Tiamat: dallo smembramento della dea nascerà il mondo così come noi lo vediamo.

    Anche la religione ufficiale di antichi popoli troverà irrinunciabile l’idea di raffigurare i ricchi pantheon con deformità di ogni genere. Il mondo egizio preferirà dei con teste animali che congiungono mirabilmente cielo e terra, le forze dell’universo stellare con quelle della natura. Queste figure sono armoniche e ieratiche e simboleggiano una natura organizzata dalla civiltà umana. Nulla viene risparmiato al collo di queste divinità: teste di ippopotamo, di leone, di falco, di coccodrillo, di sciacallo. Sobec è il dio con la testa di coccodrillo, le cui statue antiche, secondo leggende giunte fino al tardo rinascimento, venivano issate su una zattera-tabernacolo, trainata da coccodrilli ammaestrati. Sahu, Orione, avrà testa di scrofa e sarà la dea delle eclissi. Anubi, dio dei morti, avrà testa di oritteropo, strano animale che vive in tane profonde, nutrendosi di termiti.

    Gli egizi, anche se furono i primi grandi chirurghi del cervello, attribuivano però al cuore l’attività psichica dell’uomo; troppo lontano da loro erano i primi tentativi della scuola pitagorica di un'anatomia cerebrocentrica. Eppure la testa è per il loro pantheon determinante; la presenza dei sensi e in particolare dell’occhio fa della testa uno dei riferimenti maggiori della manipolazione simbolica di questo popolo. Il dio animale, quindi, ha un cuore umano in un corpo umano, ma sensi animali per la presenza di una testa animale; è questa la garanzia della sua divinità: la grande vita psichica dell’uomo congiunta con la superiorità sensoriale degli animali. Olfatto vista udito di falchi leoni ippopotami sciacalli si combinano con la complessa vita psichica umana coincidente con quella degli dei. Una sintesi di successo con molte varianti.

    Ancora il dio creatore, il grande Osiride, è un dio presensoriale, poiché precede qualsiasi possibilità di sentire, poiché precede qualsiasi essere o ambiente, che in quanto tale può fornire sensazioni e percezioni della sua esistenza. Per questo è rappresentato acefalo. La sua attività psichica, cioè il suo cuore, è l’organo che gli consente di produrre il mondo e i suoi enti.

    Le teste possono trovarsi a sostituire però anche altre parti del corpo; ne abbiamo esempi ancora nella religione egizia, ma con rimandi in tutte le religioni del Mediterraneo. In questo senso Bes, dio della fecondità, rappresenta forse una crisi del sistema cardiocentrico della cultura egizia; la sua testa è infatti nel petto, i suoi occhi si aprono all’altezza del torace. Il cervello e il cuore si identificano anatomicamente quasi ad accordare due scuole di pensiero: di chi vuole il cuore e di chi crede il cervello, invece, il centro dell’essere psichico. Anche le ginocchia e i piedi del dio sono animate. Questa divinità è caratterizzata da un panpsichismo anatomico: in corrispondenza dei due ginocchi ruggiscono due bocche di leoni, i piedi sono sostituiti ora da teste di sciacallo, altre volte da teste di serpente. É una creatura, questa, che avrà grande successo anche nel mondo miceneo e greco-romano.

    Bes diviene nei sigilli cretesi la testa con le gambe, in Libia molto somiglianti a Bes saranno gli akephaloi, Plinio descriverà esseri simili chiamati Blenni, indicati sostanzialmente come specie deformi di terre lontane. In questi ultimi il divino Bes presta la sua forma a oscure specie esotiche. Non mancano rappresentazioni di angeli gastrocefali, con una testa che appare all’altezza dello stomaco, scolpiti a Chartres e a Bourges in piena età medievale. Sono angeli decaduti: la faccia sulla pancia simboleggia chiaramente che l’intelligenza è in loro asservita ai più bassi istinti.

    Altre volte la testa si moltiplica all’interno di una stessa testa. Nella civiltà sumera, in quella sciita e nelle antiche culture sarde sono diffuse le rappresentazioni di teste a loro volte composte da teste, quasi ad indicare un essere psichicamente e diremo schizofrenicamente composto da alcune sottounità. Queste immagini sembrano legarsi a un'idea discontinua e disomogenea del mondo. Anticipano formalmente le rappresentazioni dell’uomo composto da molti uomini (XVII secolo), simbolo del sovrano nella visione politica di Hobbes, o certi scherzi anatomici come nella litografia di Filippo Balbi Testa anatomica (1864). Le teste composte da altre teste sembrerebbero fornire l’antefatto di una visione dell’io come realtà composita, come coordinazione ed equilibrio di una molteplicità, intuitivamente nella direzione che verrà indicata dallo psicologo Frederich Myers. Il proliferare delle teste, separate e innestate sullo stesso tronco, la policefalia, avrà pure innumerevoli esempi: con tre teste di montone viene a volte rappresentato il dio egizio Ammon, come pure alcune divinità sumere. Idra, cerberi ed altre fanta-zoologie a più teste riempiono gli inferni dell’antichità.

    Anche braccia e gambe si moltiplicano. Nella religione indiana Bramha ha quattro braccia, tante quanto sono le sue facce; Agni, dio del fuoco, ha sette braccia e tre gambe. Nel medioevo occidentale l’immagine della fortuna sarà proprio di una divinità orientale fornita di molte braccia, come Boccaccio la descriverà nel De casibus. Ma la deformazione anatomica viene usata anche per evocare e contemporaneamente esorcizzare i sentimenti di paura dell’uomo. Dei e demoni devono quindi incutere timore: per l’autorità della giustizia suprema che rappresentano i primi, per l’ineluttabilità della punizione che infliggono i secondi, giudici e carnefici di uno stesso sistema di leggi. Se quindi nell’antichità gli dei possono avere caratteri disformi, i demoni sono veri azzardi della fantasia. A questi ultimi è consentita qualsiasi oscena combinazione. Qui l’elemento bestiale è lontano dalla riconoscibilità specifica delle divinità egizie; esso è indice di caos e non di un ordine altro o divino. Nel Libro dei Morti sono descritti demoni a forma di serpente con teste di gatto o di papera. Non meno impressionanti o grotteschi appaiono i demoni etruschi. Tuchulcha aveva orecchie d’asino capelli di serpente e un intenso colore livido. I demoni babilonesi sfoggiano corpi di cane, zampe di aquila, artigli di leone, code di scorpione, crani scarnificati, corna di capra ali di uccello: così mostruosi che l’unica cosa in grado di spaventarli era la loro stessa immagine riflessa in uno specchio. Molto simili a questi saranno i demoni locusta descritti da Giovanni nell’Apocalisse. Nel Lemegeton, nello Pseudomonarchia e in altri testi si descrivono creature del male come Amon, decaduto dio egizio, l’antico Ammon-Ra, che diviene un improbabile lupo con testa di serpente che vomita fuoco. La parte serpentina probabilmente doveva conferirgli il potere di prevedere il futuro, quella di lupo la capacità di dare a chi lo invocasse l’amore delle donne. Altrettanto inquietante è Balaam, rappresentato con tre teste mentre cavalca un orso con un avvoltoio appollaiato sulla spalla, dove le tre teste potrebbero avere significato temporale di presente, passato e futuro.#

    Ancora l’ibrido mostruoso tra animale ed umano nell’età moderna perderà il suo carattere sacrale e fobico per acquisirne uno biologico ed evolutivo.

    Anche nella visione evoluzionistica democritea appaiono questi esseri di passaggio tra animale ed umano come, in pieno Rinascimento, ci testimoniano le pitture di Piero di Cosimo dedicate all’età della pietra, che descrivono ambienti preistorici con animali, fauni e bestie quadrupedi con teste umane. Qui i fauni non sono più esseri semidivini, ma specie animali semiumane.

    In queste rappresentazioni c’è quindi un processo di umanizzazione dell’animale e di animalizzazione dell’umano, idea presente nelle religioni antiche come anche nella magia. Un processo questo che passerà attraverso una rivisitazione biologica e naturalistica nell’età moderna.

    Già un Gian Battista della Porta ordinerà una tassonomia di ibridi nati dagli accoppiamenti di uomini con animali. Queste idee sembrerebbero permanere in una teoria embriogenetica formulata nel secolo scorso secondo la quale ogni animale tenderebbe a diventare un uomo, se il suo sviluppo embrionale non si fermasse ad un certo punto. Questa teoria potrebbe aver ispirato del resto il libro di George Wells L’isola del dottor Moreau, dove sono descritti processi di umanizzazione di animale come nel gioco di una Circe alla rovescia. Ancora la deformazione come scambio tra animale e umano la riscontriamo in un età molto vicina a noi nei cartoni di Walt Disney.

    Il film Pomi d’ottone e manici di scopa rappresenta bene il mito antico dell’alchimista, ripreso in precedenza da Wells, che trasforma gli animali di un isola in esseri antropomorfi. Anche in questi casi è il volto e la testa l’elemento su cui maggiormente si attua lo scambio tra specie animale e specie umana.

    Non solo l’uomo si animalizza e l’animale si umanizza, ma lo stesso mondo assume ora carattere animale ora decisamente umano. Uomo e animale trovano la loro identità nel mondo che acquistano ora i caratteri dell’uno ora dell’altro.
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 14-09-16 alle 16:09
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    KALA MUKHA

    (dal cap. 59 di «Simboli della Scienza sacra» - R. Guénon)


    A.K. Coomaraswamy (Janua Coeli, in «Zalmoxis”, II, 1939) esamina incidentalmente un simbolo il cui significato è in rapporto con la “Janua Coeli”: si tratta di una «testa di mostro» che sotto forme varie, spesso più o meno stilizzate, si riscontra nei paesi più diversi, in cui ha ricevuto nomi anch'essi diversi, in particolare quelli di “Kala mukha” e “Kirti-mukha» in India, e quello di “T'ao t'ie” in Cina; la si ritrova anche, non solo in Cambogia e a Giava, ma fin nell'America Centrale, e non è neppure estranea all'arte medioevale europea.

    Questa raffigurazione è generalmente posta sull'architrave di una porta o sulla chiave di volta di un arco, o ancora al vertice di una nicchia (torana) contenente l'immagine di una divinità; in un modo o nell'altro, essa appare il più delle volte legata all'idea della porta, il che ne determina chiaramente il valore simbolico. Coomaraswamy fornisce la riproduzione di una figura di T'ao t’ie dell'epoca Han, alla quale è come sospeso un anello, che potrebbe essere in certo modo considerata il prototipo della forma comune dei picchiotti, in uso fino ai nostri giorni, quella di una maschera di animale che tiene un anello in bocca; quest’anello è anch'esso un simbolo della «porta stretta», come lo sono in altri casi le fauci aperte del mostro.Di questa figura è stato dato un certo numero di spiegazioni (non parliamo, beninteso, di coloro che vogliono vedervi solo un motivo «decorativo”), che possono contenere una parte di verità, ma la maggior parte delle quali sono insufficienti, non foss'altro perché non si potrebbero applicare a tutti i casi indistintamente. Così, K. Marchal ha osservato che nelle raffigurazioni da lui studiate più in particolare mancava quasi sempre la mascella inferiore; unendo a questo fatto la forma rotonda degli occhi [In realtà, questa forma è in genere un carattere della rappresentazione tradi¬zionale delle entità «terribili»; è così che la tradizione indù lo attribuisce agli Yaksha e ad altri geni «custodi», e la tradizione islamica ai “Jinn”] e l'evidenza dei denti, ne concluse che probabilmente dovesse trattarsi in origine dell'immagine di un cranio umano [The Head of the Monster in Khmer and Far Eastern Decoration, nel “Journal of the Indian Society of Oriental Art”, 1948]. Tuttavia la mascella inferiore non è sempre assente, ed esiste in particolare nel “T'ao t'ie” cinese, per quanto essa vi presenti un aspetto abbastanza singolare, come se fosse tagliata in due parti simmetriche che fossero state schiacciate da ciascun lato della testa, cosa che secondo Carl Hentze risponderebbe all'aspetto della pelle stesa di una tigre o di un orso [Le Culte de l’ours et du tigre et le «T'ao t’ie», in “Zalmoxis», I, 1938]; questa interpretazione può essere esatta in questo caso particolare, ma non lo sarebbe in altri casi, ove il mostro ha una bocca di forma normale e più o meno largamente aperta; e anche per quanto concerne il “T'ao t’ie” questa spiegazione ha in definitiva solo un valore «storico» e non modifica affatto l'interpretazione simbolica.
    Il “T'ao t’ie” non è d'altronde in realtà né una tigre né un orso, né alcun altro animale determinato, e Hentze descrive così il carattere composito di questa maschera fantastica: «fauci di carnivoro armate di grandi zanne, corna di bufalo o di ariete, muso e ciuffi di gufo, monconi d'ala e artigli di uccello da preda, ornamento frontale a forma di cicala». Tale figura è assai antica in Cina, poiché la si trova quasi costantemente sui bronzi della dinastia Chang [Cfr. H. C. Creel, Studies in Early Chinese Culture; quest'autore insiste particolarmente sugli elementi di tale rappresentazione presi dal bue e dall'ariete, e vi scorge un possibile rapporto con il fatto che all'epoca dei Chang, questi animali erano quelli che venivano più spesso usati nei sacrifici]; il nome di “T'ao t’ie”, tradotto di solito con «ghiottone» o «orco», sembra essergli stato dato solo molto più tardi, ma questo appellativo è comunque giusto, poiché si tratta in effetti di un mostro «divoratore». Questo vale anche per i suoi equivalenti appartenenti ad altre tradizioni, e che, anche se non presentano un carattere composito come quello del “T'ao-t'ie», sembrano in ogni caso non potersi mai ricondurre alla rappresentazione di un unico animale: così in India può essere un leone (e allora si è soliti dargli in particolare il nome di “Kala”), o un “Makara” (simbolo di Varuna, il che è da tener presente in vista delle considerazioni che seguiranno), o anche un'aquila, cioè un “Garuda”; ma, pur sotto tutte queste forme, il significato essenziale rimane sempre lo stesso.
    In quanto al significato, Hentze, nell'articolo appena citato, vede anzitutto nel “T'ao t’ie” un «demonio delle tenebre»; ciò può essere vero in un certo senso, ma a condizione che venga spiegato e precisato, come del resto ha fatto egli stesso successivamente in un altro lavoro [Die Sakralbronzen und ihre Bedeutung in der Fruhchinesischen Kulturen, Anversa, 1941. Non conosciamo direttamente quest'opera ma dobbiamo a Coomara¬swamy l'indicazione dell'interpretazione data al “T'ao t’ie”]. Non è un «demonio» nel senso comune della parola, ma nel senso originario dell'Asura vedico, e le tenebre di cui si parla sono in realtà le «tenebre superiori” [Si veda il nostro studio su Les deux nuits]; in altri termini, si tratta di un simbolo dell’»Identità Suprema» che assorbe ed emette a volta a volta la «Luce del Mondo». Il “T'ao t’ie” e gli altri mostri simili corrispondono dunque a Vritra e ai suoi vari equivalenti, e anche a Varuna, dal quale la luce o la pioggia è alternativamente trattenuta e liberata, alternanza che è quella dei cicli involutivi ed evolutivi della manifestazione universale [La luce e la pioggia sono due simboli delle influenze celesti; torneremo su questa equivalenza]; così Coomaraswamy ha potuto dire con ragione che tale faccia, quali che siano i suoi diversi aspetti, è veramente la «Faccia di Dio» che nello stesso tempo «uccide e vivifica» [El Muhyi e El Mumit sono due nomi divini nella tradizione islamica]. Non è dunque precisamente un «teschio» come vorrebbe Marchal, a meno che quest'ultimo non sia preso come un simbolo; ma è piuttosto, come dice ancora Coomaraswamy, la «testa della Morte», cioè di Mrityu, di cui Kala è pure uno dei nomi [Coomaraswamy segnala a questo proposito certe impugnature di sciabole indonesiane su cui sono raffigurati mostri divoratori; è evidente che in questa sede un simbolo della Morte è particolarmente appropriato. D'altra parte, si può anche fare un accostamento con certe rappresentazioni di Shinje, la forma tibetana di Yama, che tiene dinanzi a sé la «ruota dell'Esistenza» e sembra apprestarsi a divorare tutti gli esseri che vi sono raffigurati (si veda M. Pallis, Peaks and Lamas, p. 146)].
    Kala è propriamente il Tempo «divoratore» [Questa parola ha come primo senso quello di «nero», il che ci riconduce ancora al simbolismo delle «tenebre», il quale è d'altronde applicabile, all'interno della manifestazione, a ogni passaggio da uno stato a un altro], ma designa anche, per trasposizione, il Principio stesso in quanto «distruttore» o piuttosto «trasformatore», in rapporto alla manifestazione che esso riconduce allo stato non manifestato riassorbendola in certo modo in sé, che è il senso più elevato nel quale la Morte possa essere intesa. È anche assimilato simbolicamente al sole, ed è noto d'altronde che il leone, di cui assume la maschera (sinha mukha), è più particolarmente un simbolo solare; questo ci riconduce a quanto abbiamo detto in precedenza a proposito della Janua Coeli, e Coomaraswamy ricorda a tale riguardo che Cristo, il quale ha detto: «Io sono la Porta», è altresì tanto il «Leone di Giuda» quanto il «Sole degli uomini» [La “porta solare” (surya dwara) è la «porta della Liberazione» (mukti dwara); la porta (dwara) e la bocca (mukha) sono in questo caso simboli equivalenti. Il sole, in quanto «Faccia di Dio», è pure rappresentato da una maschera di leo¬ne su un sarcofago cristiano di Ravenna]. Nelle chiese bizantine la figura del “Pantokrator” o del Cristo «in maestà” occupa nella volta la posizione centrale, cioè quella che corrisponde precisamente all’»occhio” della cupola; ora quest'ultimo, come abbiamo spiegato altrove, rappresenta, all'estremità superiore del¬l’“Asse del Mondo», la porta attraverso la quale si effettua l’»uscita dal cosmo» [Si veda La Porte étroite (qui sopra, come cap. 41)].
    Per tornare a Kala, la raffigurazione composita conosciuta a Giava sotto il nome di “Kala makara”, nella quale i tratti del leone sono combinati con quelli del “Makara”, ha anch'essa un significato essenzialmente solare, e nello stesso tempo, per il suo aspetto di “Makara”, si riferisce più precisamente al simbolismo di Varuna. In quanto quest'ultimo si identifica a Mrityu o a Yama [Si veda Le «trou de l'aiguille” (qui sopra, come cap. 55)], il Makara è il coccodrillo (shishumara o shimshumari) dalle mascelle aperte che sta «controcorrente” la quale corrente rappresenta l'unica via per la quale ogni essere deve necessariamente passare; il coccodrillo si presenta così come il «guardiano della porta” che l'essere deve varcare per essere liberato dalle condizioni limitative (simboleggiate anche dal “pasha” di Varuna) che lo trattengono nell'ambito dell'esistenza contingente e manifestata [Si veda Le Passage des eaux (qui sopra, come cap. 56). Questo coccodrillo è l'Ammit degli antichi Egizi, mostro che attende il risultato della “psychostasis” o “pesatura delle anime», per divorare coloro che non avranno superato la prova. È anche il coccodrillo che a fauci spalancate apposta il «matto» della ventunesima lama dei Tarocchi; questo «matto» è generalmente interpretato come l'immagine del profano che non sa né da dove viene né dove va, e che cammina ciecamente senza aver coscienza dell'abisso nel quale è sul punto di precipitare]. D'altra parte, questo stesso Makara è nello Zodiaco indù il segno del Capricorno, cioè la «porta degli Dèi» [Si veda Quelques aspects du symbolisme du poisson (qui sopra, come cap. 22). Invece dell'aspetto del coccodrillo «divoratore», il Makara assume allora quello del delfino «salvatore»]; esso ha quindi due aspetti apparentemente opposti, «benefico” e «malefico” se si vuole, che corrispondono anche alla dualità di Mitra e di Varuna (riuniti in una coppia indissolubile sotto la forma duale Mitravarunau), o del «Sole diurno” e del «Sole notturno», il che equivale a dire che, a seconda dello stato cui è pervenuto l'essere che gli si presenta dinanzi, la sua bocca è per quest'ultimo la «porta della Liberazione” o le «mascelle della Morte» [In certe tradizioni, alla dualità Mitravarunau corrisponde l'associazione dei simboli dell'Amore e della Morte, che abbiamo avuto occasione di segnalare a proposito dei «Fedeli d'Amore». Questa stessa dualità è anche, in un certo sen¬so, quella dei «due emisferi», alla quale si riferisce in particolare il simbolismo dei Dioscuri; si veda La double spirale (cap. V della «Grande Triade”]. Quest'ultimo caso è quello dell'uomo comune, che deve, passando per la morte, tornare a un altro stato di manifestazione, mentre il primo è quello dell'essere «qualificato a passare attraverso il centro del Sole» [Jaiminiya Upanishad Brahmana, I, 6, 1], «per mezzo del «settimo raggio», perché si è già identificato con il Sole stesso, e così, alla domanda «chi sei?» che gli viene rivolta quando arriva a questa porta, egli può veramente rispondere: «Io sono Te».
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 29-05-10 alle 14:02

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    Anche se il fantastico e il mostruoso hanno accompagnato la storia dell'uomo da sempre, uno dei periodi che con maggior frequenza viene associato a queste categorie dell'immaginazione è quello medievale. È soprattutto in quel tempo che, emergendo da un letargo in cui nei secoli precedenti certe raffigurazioni erano state in parte relegate, torna alla luce e si sviluppa un universo deliberatamente mostruoso e fantastico, descritto e rappresentato con un'evidenza pari a quella del mondo reale, di cui esprime significati oscuri e profondi e con il quale si misura intrecciandosi continuamente. Regnano la zoologia fantastica, la diceria, l'equivoco, la credulità. E i mostri impazzano: corre voce che la pantera abbia l'alito profumato, che il coccodrillo si penta della propria crudeltà e pianga, che l'unicorno s'innamori delle vergini, mentre il basilisco di Mezzocorona incenerisce campi e contadini con lo sguardo. La raffigurazione plastica dei bestiari, sui capitelli delle chiese romaniche, produce un effetto di amplificazione da cinema horror: i mostri biblici e mitologici sono la realtà quotidiana, si incontrano tutti i giorni passando davanti alla chiesa.

    Nel primo Cinquecento fioriscono raffigurazioni di mostri umani dette grottesche, che copiano lo stile degli affreschi sotterranei rinvenuti a Roma scavando nella Domus Aurea di Nerone: signori e prelati ne ornano appartamenti, cappelle e castelli, ma la Controriforma le condannerà quali figurazioni enigmatiche, oscure e pagane. Tra il '500 e il '600 la letteratura sui mostri si fa ghiotta e più scientifica. Conradus Lycosthenes licenzia il suo Prodigiorum ac ostentorum chronicon, pullulante di mostri, nel 1557. Seguono, tra gli altri, il De Monstrorum causis natura et differentiis di Fortunio Liceti, pubblicato nel 1616, e la famosa Monstrorum Historia del bolognese Ulisse Aldrovandi, pubblicata postuma nel 1642.



    Ulisse Aldrovandi, Monstrorum Historia (1642)


    L'epoca delle scoperte geografiche intanto porta nuova linfa alle antiche leggende. Le descrizioni viaggiano attraverso il passaparola e tutto diventa possibile: specie animali sconosciute scambiate per orrori marini e mitologici, allucinazioni da fame e da fatica, mostri dell'inconscio. Cristoforo Colombo annota nel suo diario l'avvistamento di tre sirene: bruttine. Ognuno racconta la sua versione (o la sua visione), esagerando. Chi non sa leggere, guarda le figure: le illustrazioni stampate, copiate, rielaborate, formano una vera e propria cultura visuale di mostruosità.
    Oltre ai bestiari, suscitano meraviglia i popoli dalle fattezze "anormali", improbabili esseri ibridi sdoganati da paesi lontani attraverso i resoconti dei primi esploratori del misterioso Oriente. L'umanità mostruosa si caratterizza per la sua eclatante diversità: può essere priva di organi o averne di dimensioni abnormi. Il repertorio è vastissimo, nessuna parte del corpo è dimenticata: si hanno esseri in cui la testa è localizzata sul petto, detti blemmi, oppure creature senza occhi, naso, orecchie o bocca (astomi). Se non è la "mancanza" a caratterizzare il mostro, può essere l'ipertrofia: un collo troppo lungo, orecchie elefantiache, labbra e organi sessuali enormi. L'elenco continua con esseri detti sciapodi, dotati di un unico grande piede che permette loro di ripararsi dai raggi del sole e di saltellare agilmente. E ancora gli antipodi con un unico piede rivolto verso la schiena, per non parlare dei famosissimi ciclopi con un solo occhio. Molto vasto è anche il repertorio che vede mostri dal corpo umano e la testa da animale, presenti già nell'antichità con figure come il Minotauro e alcune divinità egizie, come Anubis dalla testa di cane o Bastet dalla testa di gatto.



    Kaspar Schott
    Physica Curiosa, sive mirabilia naturae et artis (1662)

  4. #4
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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    I giganti della Val di Ledro

    Una curiosa ricerca dello storico Danilo Mussi ha messo in luce le vicende di una dinastia di giganti, originari della Val di Ledro. Per capire lo straordinario successo che ebbe il più famoso e il più smisurato tra loro, soprannominato “el Popo”, occorre fare cenno all’interesse per i freaks maturato tra il Settecento e l’Ottocento. L’intramontabile interesse per le deformità - un misto di voyeurismo e di compassione – aveva infatti prodotto un’antropologia ai confini con il museo degli orrori. A quell’epoca diversi “mostri umani”, nani, giganti, obesi, androgini e altre anomalie note alla medicina, si esibivano al circo come fenomeni da baraccone. Il tendone del circo americano Barnum forniva al visitatore uno spettacolo in cui pareva che Dio si fosse divertito a sbagliare e a confondere le creature. C’erano Jojo, l’uomo-cane siberiano con il viso totalmente ricoperto di pelo. C’era la regina Mab che a vent’anni misurava cinquantasei centimetri e pesava nove chili. C’era la bella Francis O’Connor detta la Venere di Milo perché, come la statua classica, mancava delle braccia. C’erano diversi esemplari di fratelli e sorelle “siamesi” e John Merrick, il famoso “uomo elefante”.


    “El Popo” di Bezzecca

    La storia del gigante della Val di Ledro s’inquadra in questo panorama. Bernardo Gilli detto “el Popo”, nasce a Bezzecca nel 1726. A vent’anni misura due metri e sessanta, ed è forse l’uomo più alto del mondo. Il giovane colosso per qualche tempo rimane in paese, dove strabilia i compaesani caricandosi enormi slitte cariche di fieno sulle spalle. Nel 1745 viene notato da Giambattista Perghem, detto Carattà, un equilibrista di Nomi che torna carico di glorie al paesello nativo. Il Carattà intravvede subito il business, come si direbbe oggi, e si porta via “el Popo” per impartirgli sei mesi di apprendistato. Vestiti da turchi i due si esibiranno davanti a papi e regnanti. Quando il Carattà, a un certo punto, decide di rientrare, il gigante è ormai lanciato. Con due servitori viaggia da Madrid a Varsavia, da Roma a S. Pietroburgo, esibendosi in straordinarie prove di forza. Tanto che un signore di Venezia, sospettando un inganno, paga una bella somma per vederlo all’opera completamente nudo. Nonostante le proporzioni erculee, sappiamo da una testimonianza dell’epoca che il volto di Bernardo Gilli “non spicca ferocia, sibbene una tal quale bonarietà da montanaro”.
    Il gigante aveva disposto nel testamento che i suoi nipoti utilizzassero il suo scheletro a futura memoria, per scopi scientifici. Il suo cadevere verrà quindi ceduto a un chirurgo di Riva del Garda, che provvederà a scarnificarlo. Il cranio e il femore del “Popo” finiscono poi al Museo Civico di Rovereto, con un ritratto a olio a grandezza naturale e una smisurata calza di seta. Nel 1872 in una sala del Museo roveretano viene allestita una vetrina con alcuni passaporti e altri documenti personali del gigante. Purtroppo, tutto andrà perduto durante la prima guerra mondiale, quando il Museo viene colpito da una bomba.


    Bibliografia

    Danilo Mussi, I giganti della Valle di Ledro, Editrice Rendena, Tione 1997

    http://www.trentinocultura.net/radic...ti_ledro_h.asp
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 14-09-16 alle 16:11
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  5. #5
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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    Walter Catalano

    FREAKS: SCHERZI DI NATURA


    A dire il vero, ora che gli uomini, enormemente moltiplicatisi, hanno popolato il
    mondo intero, è assai diminuito il numero dei mostri che nascono sotto il sole.

    (Anonimo – Liber monstrorum de diversis generibus
    )



    Il termine latino monster – che derivi da moneo, ammonisco, o da mostro, esibisco – indica, nella concezione propria all'Antichità, una volontà di integrazione dell'anormalità all'interno del reale: l'eccezionalità non era vista come capriccio, ma come segno; apparteneva quindi alla sfera del sacro o ne era manifestazione indiretta. In totale antitesi con questa concezione è invece quella espressa dalla parola inglese freak, che deriva da freak of nature, "scherzo di natura", da cui "fenomeno da baraccone", bizzarria da esporre a pagamento nei circhi, nei luna-park e nelle fiere paesane alla malsana curiosità delle folle. Uno dei testi più antichi riguardante i mostri, un lessico babilonese risalente al 2800 a.C., insegna ad interpretare il monstruum come segno: le tre sottoclassi tradizionali della teratologia, mostri per eccesso, mostri per difetto e mostri doppi, hanno ognuna un significato diverso, fausto o nefasto. Ancora i romani praticavano analoghi vaticini.

    Se presso le civiltà antiche non era ignota la pratica di sopprimere i bambini malformati appena nati, spesso tramite un sacrificio rituale, era assai più comune che essi venissero preservati e venerati: non esisteva infatti nel Mondo Antico quella mentalità che ha portato al fenomeno tipicamente moderno dell'"eugenetica" e alla volontà di eliminazione del diverso in nome di un presunto modello di purezza o di salute. La forma era pertinenza dell'umano e ciò che tale forma infrangeva non era a questo necessariamente inferiore ma piuttosto superiore o comunque pertinente ad un altro piano: divino o infero. Già dai tempi di Plinio, nel II sec. a. C., però, emerge la tendenza ad "usare" il "mostro" come oggetto di divertimento: Lucius il nano, buffone di Augusto, ebbe addirittura una statua eretta in sua memoria nel palazzo dell'imperatore. E così, fino alle corti spagnole del Seicento e oltre, i "mostri" furono passatempi per un'aristocrazia annoiata. "Ma le risate dei normali – commenta Leslie Fiedler nel suo saggio Freaks: miti e immagini dell'io segreto – devono essere sempre state ambigue e di difesa. L'autentico freak suscita invece sia un terrore soprannaturale sia una naturale simpatia, perché, a differenza dei mostri mitologici, è uno di noi, un figlio umano di genitori umani, trasformato però da forze che noi non comprendiamo bene in qualcosa di mitico e di misterioso come non lo è mai un semplice storpio. Incrociando l'uno o l'altro per la strada, possiamo essere contemporaneamente tentati a distogliere gli occhi o a guardare; ma nel caso dello storpio non percepiamo alcuna minaccia a quei limiti disperatamente difesi dai quali dipende qualunque definizione dell'equilibrio mentale. Solo il vero freak contesta i confini tradizionali tra maschio e femmina, sessuato e asessuato, animale e umano, grande e piccolo, io e altro, e quindi tra realtà e illusione, esperienza e fantasia, dato di fatto e mito".

    Se nel medioevale Liber monstrorum de diversis generibus (Libro delle mirabili difformità), dell'ottavo secolo, mostro mitologico e mostro naturale si trovano ancora fianco a fianco, fra il '500 e il '600, con il progredire della medicina, andò sviluppandosi un interesse scientifico per lo studio e la raccolta di reperti irregolari e anomali: i primi passi della teratologia come branca dell'anatomia patologica. Il medico e naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522/1605) fu uno dei primi, con il suo Monstrorum historia, pubblicata postuma nel 1642, a raccogliere una vera e propria enciclopedia del mostruoso in cui questo trovava ancora una giustificazione mitica nel contesto magico-astrologico del tardo Rinascimento e così aveva fatto anche Ambroise Paré con Des monstres et prodiges (1570). Ma fu soprattutto Fortunio Liceti (1577/1656), professore di fisica aristotelica a Padova, nel suo De monstrorum natura, caussis et differentiis (1616), a tentare con certa precisione tassonomica una classificazione dei mostri: li divise in due gruppi, mostri uniformi e mostri multiformi, e ogni gruppo in dieci classi; negò loro inoltre ogni valore di presagio.



    Fortunio Liceti - De monstrorum natura, caussis et differentiis
    (P. Frambotti, 1634)

    Album di astropop - 198119_sp3f.jpg | Flickr - Photo Sharing!


    Manifestazioni del sacro, divertimento di principi, oggetto di studio scientifico, i mostri entrarono nel massificato ed utilitaristico mondo moderno con la prima rivoluzione industriale. Il testimone letterario di questa, lo scrittore inglese Charles Dickens, lo fu anche dei freaks nel suo romanzo del 1840 The Old Curiosity Shop (La bottega dell'antiquario) e il primo divertimento di massa prima dell'invenzione del cinema, il Circo Barnum e Bailey, dette ampio spazio alle deformi "curiosità".

    E proprio nell'Inghilterra del primo Ottocento ed in seguito in quella vittoriana, il cinismo del capitalismo industriale avanzante unito alla pruderie sessuale del puritanesimo, scatenava il morboso interesse, voyeristico ed erotico, per i "fenomeni", i "mostri", i "freaks". Mentre il governo faceva impiccare gli ultimi luddisti – mostri di altro genere – rei di sabotare le macchine e il progresso, circhi e baracconi facevano affari d'oro mostrando prodigi veri e falsi al nuovo imprenditore tessile, fiero dei suoi telai a vapore, come all'artigiano appena regredito ad operaio salariato: l'uno investiva, cercando distrazione, qualche penny dei facili guadagni, l'altro finiva di abbrutirsi dopo le 18 o 20 ore di prigionia nelle nuove fabbriche. Una bella galleria di mostri al di qua e al di là delle sbarre della gabbia. In quegli anni o poco dopo si hanno le testimonianze più precise e dettagliate, in cui la pretesa neutralità scientifica mal traveste lo sguardo rapace del guardone, sulla vita e le deformità dei freaks, tornati temporaneamente divi di un olimpo desacralizzato. Primo fra tutti il celeberrimo Uomo-Elefante, John Merrick.



    Elephant man


    "La sua caratteristica più impressionante era la testa enorme – scriverà il dottor Frederick Treves, che lo salvò dai suoi sfruttatori circensi facendolo ricoverare in un ospedale a Londra nel 1884 – e deforme. Dalla fronte sporgeva una grande massa ossea simile a una pagnotta, mentre dalla nuca penzolava un sacchetto di pelle spugnosa con l'aspetto di un fungo, la cui superficie ricordava quella di un cavolfiore bruno… L'escrescenza ossea sulla fronte gli occludeva quasi completamente un occhio… Dalla mascella superiore sporgeva un'altra massa ossea. Usciva dalla bocca come un moncherino rosa, rovesciando il labbro superiore e riducendo la bocca stessa ad una mera apertura sbavante…". La schiena, le natiche, le gambe e le braccia del disgraziato erano inoltre ricoperte di "escrescenze papillomatose" che le rendevano orribilmente simili alla pelle rugosa di un elefante: "…che fosse ancora umana – era l'attributo più repellente della creatura. Non c'era nulla in essa della miseria del malformato o del deforme, né del grottesco del freak, ma solo la disgustosa insinuazione di un uomo mutato in animale…". Merrick era però una persona tutt'altro che animalesca, di animo affabile e gentile, appassionato di teatro e di poesia, avido lettore e amante della natura, si illuse sempre di trovare una 'Bella', fra le molte caritatevoli dame della Londra bene – dove il suo caso aveva fatto cronaca – che gli recavano visita o gli inviavano foto con dedica, che potesse accettare la 'Bestia'. Morì a ventisei anni, soffocato per aver cercato di sdraiarsi e dormire "come gli altri" – le dimensioni pachidermiche della testa non gli permettevano infatti una posizione di riposo normale.

    Più fortunata in amore fu la Donna Mula, Grace McDaniel. "La sua carne era come polpa rossa cruda; il mento enorme era talmente storto da impedirle quasi di muovere le mascelle. I denti erano seghettati e aguzzi, il naso largo e adunco… in realtà non assomigliava affatto ad una mula ma piuttosto ad un ippopotamo…"; nonostante questo, ricevette numerose proposte di matrimonio e si sposò infine con "un simpatico giovane innamorato di lei".




    Numerose altre poi sono le vittime di disfunzioni dello scheletro o della pelle assurte alle glorie dello spettacolo e della medicina: Koo Koo la Ragazza Uccello; Priscilla la Donna Scimmia; l'Uomo Porcospino; il Ragazzo Alligatore, ecc. ecc. In questa insolita galleria non possiamo dimenticare Chang e Eng, i fratelli siamesi originali – in realtà cinesi nati nel Siam nel 1811 – attaccati per lo sterno e in eterno litigio fra loro: Chang ubriacone, amante delle donne, delle barzellette volgari e dei cibi orientali piccanti; Eng astemio e vegetariano, poco incline alle compagnie femminili, austero e intellettuale. Si sposarono entrambi con due americane, l'uno con Sarah Ann, l'altro con Adelaide Yates, e generarono in tutto ventidue figli, tutti normali, "12 Sarah, presumibilmente da Eng, 10 Adelaide, presumibilmente da Chang". Le famiglie vivevano in case diverse, di una delle quali era capo Eng, dell'altra Chang, dove passavano tre giorni per uno. Tentarono più volte di farsi separare chirurgicamente, ma i medici dell'epoca valutarono che l'operazione sarebbe stata fatale. Furono fra i pochi freaks ad arricchirsi con Barnum divenendo poi impresari di sé stessi. Il progressivo alcolismo di Chang lo portò alla paralisi e alla morte nel 1874: terribile fu l'agonia di Eng, attaccato al cadavere del gemello. Si volle tentare in extremis un'operazione che separasse il vivo dal morto, ma un colpo apoplettico stroncò Eng prima che i medici potessero intervenire.
    Un'altra categoria di siamesi particolari da citare è infine quella degli "Uno e mezzo": esseri umani pienamente sviluppati con un corpo parassita incompleto unito al loro. Uno dei più famosi fu Laloo l'Indù, che nel 1899 fu tra gli organizzatori di un comizio di protesta contro Barnum in cui gli artisti del circo chiedevano di essere chiamati "prodigi" e non più freaks. Più famoso di lui il cubano Jean Baptista dos Santos che, oltre a un paio di gambe congiunte in soprannumero, aveva due grossi organi virili perfettamente funzionanti.




    L'invasione suprema nell'intimità personale che simili dettagli biografici evidenziano svela il gusto ambiguo del "normale", la sua curiosità incredula, la volontà pervicace di violare il mistero quotidiano di queste creature mutanti, repellenti eppure fascinose.
    Ancora Fiedler individua acutamente in questo gusto proibito "un collegamento con gli spettacoli per voyeur o con i film porno; la sensazione di guardare, riluttanti ma affascinati, l'oscenità messa a nudo dell'io o dell'altro… quel tanto di pornografico che è implicito in tutti i freak shows… nei quali bizzarrie adulte guardano dall'alto in basso con i loro occhi vivi gli occhi altrettanto vivi degli spettatori".


    Walter Catalano - Jubaleditore.net

  6. #6
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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    IL FASCINO AMBIGUO DEL MOSTRO

    di Emilia Musumeci


    Fotogramma del film Freaks (1932)
    Immagine dal sito http://sideshowbobdada.blogspot.com/

    "L’uomo ha sempre affiancato il mostro, come il pensiero la follia". (Jean-Luc Nancy)


    1. Il mostro: lo stupore e il caso.

    «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»[1]. Questo lapidario e provocatorio monito lanciato da Nietzsche nel 1886 sembra riassumere, per molti versi, l’ancestrale rapporto che l’uomo ha sempre vissuto con il proprio lato oscuro, con qualcosa che genera insieme fascinazione e repulsione, mistero e terrore: il mostro. L’aforisma nietzschiano ci ricorda quanto labile e confuso sia il confine tra vittima e carnefice, tra normale e patologico. È come se vittima e carnefice si sovrappongano e si rincorrano vicendevolmente, in un immaginario gioco di specchi. Ad un simile ribaltamento di ruoli si assiste, ad esempio, nell’epilogo del racconto di Edgar Allan Poe, Il gatto nero (1843), in cui il carnefice alla fine si trasforma in vittima a conferma del rapporto di identità-alterità che li lega indissolubilmente[2]. Lo stesso scambio di parti avviene nel celebre film di Fritz Lang, M. il mostro di Düsseldorf (1931), in cui l’odioso violentatore e uccisore di bambine, Hans Beckert, acciuffato dai “comuni criminali” e sottoposto da essi ad un sommario giudizio sembra mostrare tutta la sua fragilità e umanità[3]. Del resto, l’abissale ambiguità del mostro, si evince già dal suo significato letterale originario. Con tale termine si designa tutto ciò che, mettendo insieme aspetti contrari e di impossibile coesistenza per uno sguardo normale, esce dall'ordinario e viola in modo orribile e terrificante l'andamento consueto della realtà: «il mostro appare a sconfessare ogni normalità»[4]. La sua esistenza ci fa capire come la natura possa inventarsi fuori da ogni ordine trascendente o comunque predeterminato. “Mostro” deriva, secondo quanto sostiene Benveniste, sia dalla parola latina monstrum, ricollegabile all'infinito monstrare e quindi l’azione di indicare, additare, sia dalla parola latina monestrum, che, a sua volta, si ricollega all'infinito monere, ovvero insegnare una via da seguire o prescrivere una condotta[5]. La specializzazione, anche nelle lingue neolatine, di monstrum come essere che presenta una conformazione contro natura - come dirà nel Cinquecento anche Ambroise Paré[6] sviluppando un’idea antica - è lontana dal suo significato originario, e comunque inspiegabile dal punto di vista etimologico[7], nonostante Moussy[8] creda di poter rilevare, un incrocio ed un’influenza su monstrum del polisemantico téras greco[9], che stava ad indicare, in maniera ambivalente[10], sia l'infinito, il bestiale, il subnormale soggetto alla massima esecrazione e all'ammonimento, sia il miracoloso, il divino, il più che normale[11]. Per tale ragione, il mostro, signum di alterità e differenza[12], innesca sentimenti contrastanti: «impaurisce ed esaspera, attrae, regolarizza l’evasione, dà una norma al dissenso […] è considerato con deferenza e sospetto, con una tesa curiosità venerante che rasenta la passione»[13]. Il mostro, per il suo essere ibrido rimanda ad una prossimità dell’uomo con l’animale e con il divino che si traduce non solo in una occulta minaccia di fronte a cui l’apollinea umanità deve necessariamente arretrare, ma anche in fertili risorse custodite in un essere “impuro”[14]. Esso diviene così ben presto «l’Altro che risiede ai bordi della differenza e che controlla i confini del possibile»[15]. Pertanto l’umanità non si è mai potuta sottrarre al confronto con tale alterità, interrogandosi sin dall’antichità sulla mostruosità: basti pensare che già nel diritto romano si distinguevano due categorie di mostro, una relativa all’infermità (c.d. portentum o ostentum), e l’altra riguardante il monstrum propriamente detto. Nel Medioevo è invece principalmente mostro l’uomo bestiale: il misto dei due regni, animale e umano. Nel Rinascimento l’interesse si concentra sul fenomeno dei gemelli siamesi[16], l’uno che è due, due che sono uno. Nel Seicento sugli ermafroditi[17], considerati figure mostruose poiché riunivano in un unico corpo il maschile e il femminile; venivano giustiziati, bruciati e le loro ceneri sparse al vento. Tali episodi si registrano, più o meno negli stessi termini, anche nel Settecento ma con una differenza rilevante: l’ermafroditismo non viene visto più come una mostruosità di natura, ma di comportamento. Non più mescolanza indebita ma semplicemente irregolarità, perversione, comportamento sanzionabile come contrario alla morale e alla pubblica decenza, spia di un possibile comportamento criminoso. Quindi con l’idea di una mostruosità di comportamento la vecchia categoria di mostro viene trasposta dall’ambito del disordine somatico e naturale all’ambito della criminalità pura e semplice; nell’età per eccellenza “positiva”, la mostruosità si riduce a mera deviazione da un tipo normale[18], così i mostri diventano individui asociali da correggere[19] o, nei casi più estremi, da richiudere o annientare. Si assiste, secondo Michel Foucault, alla trasformazione del mostro in anormale[20]. Il mostro così sembra solo il fantasma del monstrum, un pallido mostro che «sopravvive alla sua morte negli spazi umbratili dell’inconscio, nelle sale anatomiche dei biologi, o negli spazi interplanetari»[21].


    2. La nascita della criminalità mostruosa.

    Tra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento emerge pertanto un campo specifico, quello della criminalità mostruosa o della mostruosità che non si realizza nella natura e nel disordine della specie, ma nel comportamento stesso[22]. Questo porterà alla ribalta una figura centrale dell’intero Ottocento e degli inizi del Novecento, quella del mostro morale, che sovverte l’idea del mostro giuridico-naturale e giuridico-biologico, realizzata alla fine del XVIII secolo. Mentre la mostruosità in precedenza portava in se stessa un indizio di criminalità, adesso c’è un sospetto sistematico di mostruosità al fondo della criminalità. Chi è quindi il mostro? La forma primitiva o spontanea del contro-natura? O, al contrario, l’enfatizzazione delle minime irregolarità, delle piccole deviazioni?

    A partire da tali interrogativi l’antropologia criminale dalla fine dell’Ottocento e per gran parte del Novecento cercherà di individuare il substrato di mostruosità che si trova dietro ogni anomalia, devianza o irregolarità. È in tale contesto che va inserita l’indagine di Cesare Lombroso tesa a scoprire quale grande monstrum si celi dietro il ladruncolo o il brigante. Catalogando i segni della diversità colpevole, certificandone scientificamente le differenze, non solo tra delinquenti e “normali”[23] ma anche tra i diversi tipi di delinquenti[24], nella convinzione che la mostruosità[25] fisica rispecchi quella morale[26], Lombroso intraprende una ricerca affannosa sui corpi e sui volti di detenuti e folli delle stigmate inequivocabili della devianza, prove inconfutabili che l’uomo delinquente sia già predeterminato a commettere il male poiché biologicamente diverso[27] dagli altri esseri umani. Tale incessante ricerca sembra essere, l’elemento caratterizzante della riflessione lombrosiana, a partire dalla celebre “scoperta” della fossetta occipitale mediana nel cranio di Giuseppe Villella, settantenne contadino calabrese sospettato di brigantaggio e deceduto in carcere, che per Lombroso, costituisce la prova dell’esistenza nei criminali di «frequenti regressioni mostruose, che avvicinano l’uomo ad animali inferiori»[28] nonché la premessa della teoria del delinquente-nato. In una “grigia mattina del novembre del 1872” (come ci racconterà in seguito la figlia, Gina Lombroso)[29] analizzando il suo cranio notò una strana anomalia: al posto della consueta sporgenza, conosciuta con il termine anatomico di cresta occipitale interna, rilevò una concavità a fondo liscio, che prese il nome di fossetta occipitale interna o fossetta cerebellare mediana[30]. Il ritrovamento di questa anomalia - per Lombroso l’«atto di nascita»[31] dell’antropologia criminale - spiega l’esistenza del crimine con il fenomeno dell’atavismo[32] (dal latino, atavus, antenato) che coincide con il ritorno ancestrale ad uno stadio evolutivo inferiore e fa di Villella l’emblema di una nuova disciplina tesa a formulare una vera e propria scienza dell’anormale.

    [1] F. Nietzsche, Al di là dal bene e dal male, Adelphi, Milano 1977, p. 79 (ed. or., ‎Jenseits von Gut und Böse‎, ‎CG Naumann, Lipsia 1886).

    [2] S. Anelli, Edgar Allan Poe e la «perversità»: tra orrore e razionalità, in M. Bellini (a cura di), L’orrore nelle arti. Prospettive estetiche sull’immaginazione del limite, ScriptaWeb, Napoli 2007, p. 145.

    [3] P. Cattorini, L’occhio che uccide. Criminologi al cinema, Franco Angeli, Milano 2006, p. 19.

    [4] T. Negri, La linea del mostro, in U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio della politica, Manifestolibri, Roma 2001, p. 7.

    [5] Cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, vol. II, pp. 477 ss. (ed. or., Le Vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 1969).

    [6] A. Paré, Mostri e prodigi, (a cura di M. Ciavolella), Salerno, Roma 1996 (ed. or., Vingt cinquième livre traitant des monstres et prodiges, in Id. Les Œuvres, Gabriel Buon, Paris 1585).

    [7] In tal senso, C. Bologna, Mostro, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1980, vol. IX, pp. 562-563.

    [8] C. Moussy, Esquisse de l’histoire de monstrum, in «Revue des Etudes Latines», 1977, pp. 345-369.

    [9] «Non vi era niente nella forma di monstrum che richiamasse questa nozione di “mostruoso” se non il fatto che, nella dottrina dei presagi, un ‘mostro’ rappresentava un “insegnamento”, un “avvertimento” divino» (E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit., p. 479.)

    [10] Sul carattere ambivalente del mostro, oscillante tra sacralità e marginalità cfr. L. Marchetti, Il fanciullo e l’angelo. Sulle metafore della redenzione, Sellerio, Palermo 1996.

    [11] «Teras/teratos si riferisce sia a un prodigio che a un demone, qualcosa che evoca orrore e fascinazione, aberrazione e adorazione. Ha due facce: l’angelico e l’infernale, il sacro e il profano. Ancora una volta la simultaneità degli opposti è ciò che distingue il corpo mostruoso» (R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, Manifestolibri, Roma 2005, p. 111).

    [12] Per un’originale rilettura del concetto di mostruosità alla luce del concetto deleuziano di différence v. U. Fadini, Differenza e mostruosità, in U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro, cit., pp. 111-132.

    [13] F. Porsia, Introduzione. Il significato del diverso, in Id. (a cura di), Liber monstrorum, Dedalo, Bari 1976, p. 36.

    [14] E. Canadelli, L’ibrido uomo/animale. Suggestioni nella cultura di fine Ottocento, in M. Bellini (a cura di), L’orrore nelle arti, cit., p. 264.

    [15] M. T. Chialant, I mostri della mente: ambigue presenze nella 'ghost story' del secondo Ottocento, in Id. (a cura di), Incontrare i mostri: variazioni sul tema nella letteratura e cultura inglese e angloamericana, ESI, Napoli 2002, p. 99.

    [16] Un «celebre medico ostetrico, nel 1754 afferma: quando due bambini sono separati sono chiamati gemelli e quando sono uniti insieme sono chiamati mostri» (C.J.S. Thompson, I veri mostri. Storia e tradizione, Mondadori, Milano 2001, p. 123 (ed. or., ‎The Mystery and Lore of Monsters‎, ‎Williams & Norgate, London 1930).

    [17] Cfr. amplius M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2000 pp. 67 ss. (ed or., Les anormaux. Cours au Collège de France. 1974-1975, Seuil/Gallimard, Paris 1999).

    [18] Lo studio delle differenze del mostro rispetto al tipo normale ovvero lo studio delle irregolarità sarà la base di partenza della teratologia moderna, inaugurata da Etienne Geoffroy Saint-Hilaire e proseguita dal figlio, Isidore. Cfr. O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1992³, pp.97-98 e P. Ancet, Teratologia, ovvero la scienza dei mostri. Il lavoro di Geoffroy Saint-Hilaire, in U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro, cit., pp. 83-108.

    [19] Avviene la “medicalizzazione” della diversità: i concetti di mostruosità e mostruoso rappresentano rispettivamente questo momento di passaggio dal prodigio (il mostro) al patologico (il mostruoso), v. G. Canguilhem, La monstruosité et le monstrueux, in «Diogène», 1963, n. 40, pp. 29-43 (ora anche in Id., La connaissance de la vie, Vrin, Paris 1992, pp. 219-236).

    [20] M. Foucault, Gli anormali, cit., pp. 103-104.

    [21] C. Bologna, Mostro, in Enciclopedia Einaudi, cit., p. 576.

    [22] Cfr. D. Forest, La monstruosité morale est-elle intelligible? Le crime entre histoire des idées et philosophie de l’action, in J.-C. Beaune (a cura di), La vie et la mort des monstres, Champ Vallon, Seyssel 2004 pp.113-122.

    [23] Cfr. C. Lombroso, L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie. Aggiuntavi la teoria della tutela penale del Prof. Avv. F. Poletti, 2a edizione, Bocca, Torino 1878, p. 50.

    [24] Cfr. C. Lombroso, L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie, 5a edizione, Bocca, Torino 1896, vol. I, pp. 274-278.

    [25] Sul tema della mostruosità nell’indagine lombrosiana v. E. Musumeci, Le maschere della collezione «Lorenzo Tenchini», in S. Montaldo – P. Tappero (a cura di), Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», Utet, Torino 2009, pp. 75-76.

    [26] Cfr. D. Le Breton, Des visages. Essai d’anthropologie, Métailié, Paris 2003, pp. 97 e 282.

    [27] «è innegabile che nella nostra tradizione di pensiero (quella occidentale) la differenza sia stata descritta in termini negativi, configurandosi come una sorta di “inferiorità peggiorativa” in grado di svolgere un ruolo strutturale di conferma della superiorità del soggetto dominante su ciò che è appunto diverso, “altro”, deviante, mostruoso» (U. Fadini, La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete, Dedalo, Bari 2009, p. 52).

    [28] C. Lombroso, Della fossetta cerebellare mediana in un delinquente, in «Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», 1872, vol. V, fasc. 18, p. 1062.

    [29] Cfr. G. Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso. Storia della vita e delle opere, Zanichelli, Bologna 19212, pp. 130-131.

    [30] Sul ritrovamento di tale fossetta v. da ultimo, M. Renneville, Un cranio che fa luce? Il racconto della scoperta dell’atavismo criminale, in S. Montaldo – P. Tappero (a cura di), Il Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso», cit., pp. 107-112.

    [31] C. Lombroso, Discours d’ouverture au VI Congrés d'anthropologie criminelle, in Comptes-rendus du VIe Congrés international d'anthropologie criminelle: Turin, 28 avril-3 mai 1906, Bocca, Torino 1908, p. 6.

    [32] Su tale tematica si rinvia a R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano 1985, pp. 144-149 e Id., L’atavismo: il ritorno al primitivo, in U. Levra (a cura di), La scienza e la colpa. Crimini criminali criminologi: un volto dell’Ottocento, Electa, Milano 1985, p. 246.

    * * *

    3. L’ «amore mostruoso» di Vincenzo Verzeni.

    Una seconda rivelazione, dopo quella del cranio di Villella, costituirà per Lombroso la «prova più diretta dell’atavismo»: il caso di un ventiduenne bergamasco, Vincenzo Verzeni, «quello che nel linguaggio giornalistico moderno viene definito un “mostro”»[1]. Noto alle cronache anche come “lo strangolatore di donne” o “il vampiro della Padania”[2], quello di Verzeni, può essere considerato il primo caso italiano di serial killer a sfondo sessuale, tanto clamoroso da destare l’attenzione dei mass media dell’epoca, alla stregua dei contemporanei “processi spettacolo”, e da essere tuttora annoverato tra i più sanguinari assassini seriali della storia[3]. Verzeni, prima di balzare agli onori delle cronache, era solo un contadino di umili origini cresciuto nell’ambiente chiuso e bigotto delle valli bergamasche. Dopo aver aggredito alcune giovani donne, tra cui la cugina dodicenne, costretta a letto perché convalescente, Verzeni comincia ad uccidere e squartare diverse ragazze tra il 1870 e il 1871. Nonostante le vittime accertate siano state soltanto due (Giovanna Motta di quattordici anni ed Elisabetta Pagnoncelli di ventotto anni), il giovane bergamasco ne aveva tentato di strangolare molte altre che, a quanto pare, si erano salvate grazie al sopraggiungere in lui dell’orgasmo, nel momento in cui iniziava a stringere le mani al collo delle malcapitate. Le ferine abitudini sessuali di Verzeni non passano inosservate al celebre psichiatra austro-tedesco Richard von Krafft-Ebing che lo inserisce nella sua monumentale opera Psychopathia sexualis (1886), primo tentativo di catalogare in maniera sistematica ed esauriente tutti i comportamenti sessuali ritenuti “devianti”. Nella parte dedicata al sadismo Krafft-Ebing lo annovera al caso n. 48 tra quelli di uccisione per libidine in cui manca lo stupro vero e proprio e il «trucidamento sadistico rappresenta da solo un sostitutivo del coito […] la vita delle sue vittime dipendeva esclusivamente dal più rapido o meno sopraggiungere dell’eiaculazione»[4]. Il modus operandi di Verzeni si ripete macabramente: avvicina le vittime che incontra nel suo solitario vagabondare nei campi, le aggredisce e le immobilizza rapidamente stringendo le mani al loro collo. Dopo aver raggiunto il piacere sessuale se la vittima era già morta ne mutilava e ne squarciava il corpo, lasciandosi andare a veri e propri atti di cannibalismo e vampirismo: «strangolava le donne per il piacere venereo che provocava nel toccarle il collo, e nello sviscerarne il cadavere e succhiarne il sangue ancor caldo»[5]. È lo stesso Verzeni, che dopo un’iniziale riluttanza, racconta - quasi vantandosi – le proprie “gesta” a Lombroso, nominato perito dalla Corte di Assise di Bergamo per accertarne la capacità di intendere e di volere[6]. Quest’ultimo, come era solito fare, analizzò e catalogò meticolosamente tutte le misure del corpo dell’imputato sottoponendolo anche a varie prove (come quella della sua forza fisica e di sensibilità al dolore) e in seguito ne ricostruì l’albero genealogico, alla ricerca di un qualche segno di anomalia e diversità, in poche parole di un qualcosa che riuscisse a rispecchiare anche esternamente la sua innegabile mostruosità interiore. Ma tale concitata ricerca sembrò più disorientare che confortare Lombroso: chi si trovava davanti era un ragazzo apparentemente “normale” ad eccezione di tre sole anomalie nel cranio e il fatto che fosse «affetto da emiatrofia cerebrale […] figlio e nipote a pellagrosi e cretini»[7]. Per il resto le caratteristiche fisiche e mentali di Verzeni appaiono rientranti nella media dei bergamaschi della sua età. Le poche irregolarità riscontrate non riescono a spiegare a Lombroso crimini talmente atroci commessi con una spietata lucidità e di cui l’accusato non appare mostrare il benché minino sentimento di pentimento o di rimorso, come si evince dalle stesse parole di Verzeni, riportate nella perizia: «io ho […] veramente uccise quelle donne e tentato di strangolare quell’altre perché provava in quell’atto un immenso piacere in quantochè appena metteva loro le mani addosso al collo avea l’erezione e ne sentiva un gran gusto […] le vesti, le viscere le esportai perché godeva nel fiutarle e nel palparle»[8]. Di fronte ad una tale ferocia, inspiegabile sia con la follia, sia con altro disturbo psichico, Lombroso - pur riconoscendo l’influsso negativo su Verzeni dell’ambiente arretrato di Bottanuco (Bg) in cui la morale coincide con «le pratiche religiose e l’astinenza giovanile»[9] - sostiene che la tendenza ad «associarsi la libidine del sangue a quella di Venere»[10], come si è manifestata nel caso di Verzeni sia paragonabile solo a quella degli animali in amore e degli uomini primitivi. Così, richiamando Mantegazza, Lucrezio e Tito Livio, afferma che «gli istinti primitivi, scancellati dalla civiltà, possono ripullulare anche in un solo individuo, quando in lui è deficiente il senso morale per l’ambiente in cui vive»[11]. Il medico veronese alla fine conclude per una «diminuzione di responsabilità» di Verzeni perché «rientrerebbe in quei cinque o sei casi che si possedono nella scienza di necrofilomania o pazzia per amori mostruosi o sanguinari»[12]. La perizia di Lombroso attestante la mancanza di responsabilità dell’imputato, per lo meno nella fase finale dell’atto, non convince del tutto i giudici e Verzeni si salva per un solo voto dalla pena di morte. Condannato ai lavori forzati a vita, è successivamente trasferito in manicomio giudiziario, per essere sottoposto a vari trattamenti “riabilitativi” sulla base delle tecniche della psichiatria all’epoca fiorente dove, nel luglio del 1874, avrebbe tentato il suicido, impiccandosi all’inferriata della sua cella. Malgrado quasi tutta la letteratura in materia sostenga che Verzeni morì suicida[13] in quell’occasione, di recente è stato scoperto che, in realtà, fu salvato in extremis dagli infermieri, per spegnersi poi, di morte naturale, nella sua dimora di Bottanuco il 31 dicembre 1918[14]. Questo episodio non fa altro che aggiungere nuove ombre all’alone di mistero che già circonda la sua vampiresca esistenza di “non-morto”.

    [1] P. Baima Bollone, Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità, SEI, Torino 1992, p. 116.

    [2] M. Centini, Il vampiro della Padania. Le indagini e il processo a Vincenzo Verzeni, lo «strangolatore di donne», Bergamo 1870, Ananke, Torino 2009.

    [3] La sua storia risulta infatti riportata su numerosissimi testi sia specialistici che divulgativi, tra cui si ricordano almeno: R. De Luca, Donne assassinate, Newton Compton, Roma 2009, pp. 202-203; V. M. Mastronardi - R. De Luca, I serial killer, Newton Compton, Roma 2009, pp. 604-606; F. Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, Tunué, Latina 2007, p. 90; G. Lupi, Serial killer italiani: cento anni di casi agghiaccianti da Vincenzo Verzeni a Donato Bilancia, Editoriale Olimpia, Sesto Fiorentino (FI) 2005, pp. 45-50; P. Vronsky, Serial Killers: the method and madness of monsters, Berkley/Penguin, New York 2004, pp. 58-61; C. Lucarelli – M. Picozzi, Serial killer. Storie di ossessione omicida, Mondadori, Milano 2003 pp. 9-23; A. Accorsi – M. Centini, La sanguinosa storia dei serial killer. I casi più inquietanti che hanno terrorizzato l'Italia del XIX e XX secolo, Newton Compton, Roma 2003, pp. 30-33; U. Fornari - J. Birkhoff, Serial Killer. Tre “mostri” infelici del passato a confronto, Centro Scientifico Editore, Torino 1996, pp. 5-26. Si rinvia altresì ai seguenti articoli on line: A. Nespoli, Dossier Verzeni, su http://www.latelanera.com/serialkill...oVerzeni&pg=1; Redazione, Ombre nella storia. Vincenzo Verzeni su http://www.vampiri.net/ombre_20.html; S. Di Marzio, Vincenzo Verzeni, su http://www.occhirossi.it/biografie/VincenzoVerzeni.htm, Bgfeddy, Il vampiro di Bergamo, su http://ivoltidelcrimine.wordpress.co...ncenzo-verzeni.

    [4] R. von Krafft-Ebing, Psychopathia Sexualis, Manfredi, Milano 1966, p. 154 (ed. or., Psychopathia Sexualis, Ferdinand Enke, Stuttgart 1886).

    [5] C. Lombroso, L’uomo delinquente, 5a edizione [1896], cit., vol. II, p. 205.

    [6] Al caso di Vincenzo Verzeni – richiamato in tutta l’opera lombrosiana – sarà dedicato il saggio, C. Lombroso, Verzeni e Agnoletti, «Rivista di discipline carcerarie», 1873, 3, pp. 193-213, poi ripubblicato in Id., Raccolta dei casi attinenti alla medicina legale. Verzeni e Agnoletti in «Annali universali di medicina», Aprile-Maggio 1874, vol. 228, pp. 3-29 ed ora parzialmente riedito anche in Id., Delitto, genio, follia. Scritti scelti, a cura di D. Frigessi - F. Giacanelli - L. Mangoni, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 250-260.

    [7] C. Lombroso, L’uomo delinquente, 5a edizione [1896], cit., vol. II, p. 205.

    [8] C. Lombroso, Raccolta dei casi attinenti alla medicina legale, cit., pp. 15-16.

    [9] Ivi, p.11.

    [10] Ibidem.

    [11] Ivi, p.12.

    [12] Ivi, p.18.

    [13] E vi è chi, incredibilmente, riporta nei minimi dettagli anche il momento del ritrovamento del cadavere e i risultati di una presunta autopsia sul suo corpo effettuata da Lombroso in persona. Si veda, in tal senso, la romanzata ricostruzione di L. Guarnieri, L’atlante criminale. Vita scriteriata di Cesare Lombroso, BUR, Milano 2007 pp. 120-122, in parte ripresa anche in C. Lucarelli – M. Picozzi, Serial killer. Storie di ossessione omicida, cit. pp. 22-23. Seppur non faccia espresso riferimento alla data della morte, è invece di contrario avviso rispetto a questi ultimi, lo storico Renzo Villa, che in un recente saggio ricostruisce brevemente la vicenda giudiziaria di Verzeni da cui si evince la sua sopravvivenza all’episodio del tentato suicidio del 1874: «la Corte d’Appello di Brescia il 20 gennaio del 1890, muterà poi la condanna in trenta anni di reclusione, ulteriormente ridotta per amnistia nel 1896. Questi pochi elementi di un caso criminale seguito dalle cronache locali diverranno una sorta di mito» (R. Villa, Il «metodo sperimentale clinico»: Cesare Lombroso scienziato, in in S. Montaldo - P. Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, Utet, Torino 2009, p. 136).

    [14] Tale scoperta è stata fatta da due produttori televisivi, Mirko Cocco e Michele Pinna durante le riprese relative ad un servizio sul caso Verzeni per una televisione locale. La “nuova” data risulterebbe proprio dal certificato di morte e sarebbe ulteriormente confermato da un articolo de L’Eco di Bergamo del 3-4 dicembre 1902 (periodo molto successivo a quello del suo supposto suicidio), in cui è possibile leggere testualmente: «Per l'uscita di Verzeni dall'ergastolo. - Da Bergamo si scrivono le seguenti notizie ad un giornale di Milano, notizie che da assunte informazioni ci risultano vere: La popolazione di Bottanuco è terrorizzata al pensiero che Vincenzo Verzeni, lo squartatore di donne, ha quasi ormai finita l'espiazione della pena, che dall'ergastolo, fu convertita in 30 anni di reclusione. Il lugubre ricordo delle gesta sanguinose del Verzeni è ancora vivo in Bottanuco e nei paesi circostanti», Cfr. E. Roncalli, Da «Twilight» alla Bergamasca. La storia del vampiro di Bottanuco, «L’Eco di Bergamo», 25 giugno 2010 e M. Cocco – M. Pinna – Gabrielle, Vincenzo Verzeni. L’uomo che visse due volte, su http://www.vampiri.net/ombre_20a.html.

    * * *

    4. Il mostro che è in noi.

    Casi come quello del “vampiro della bergamasca”, in cui sembra quasi non esistere più quel sottile «confine fra il delitto e la pazzia»[1], e in cui la mostruosità dei gesti criminali sembra ben celata dall’assenza di evidenti anomalie fisiche o psichiche, farà interrogare Lombroso su come sia possibile “identificare” tale categoria di soggetti e, soprattutto, se essi vadano ritenuti responsabili o meno per le proprie terribili azioni. Ma l’indagine lombrosiana, a ben vedere, non rimane isolata, inserendosi in un ampio e vivace dibattito sviluppatosi in Italia e il Francia (e in seguito in tutta Europa), nella seconda metà dell’Ottocento sulla follia morale, una controversa e sfuggente categoria nosografica, definita come “paralisi del senso morale” o “lucida follia” o ancora nei modi più disparati dai più illustri psichiatri dell’epoca (per Esquirol si trattava di una “monomania ragionante” per Pinel di una “mania senza delirio”). Tale dibattito infiammò nel 1877 le pagine dell’allora nascente Rivista di Freniatria e medicina legale coinvolgendo non solo il suo fondatore, Carlo Livi, ma risultando il luogo privilegiato del confronto polemico tra studiosi del calibro di Clodomiro Bonfigli, Arrigo Tamassia, Ugo Palmerini, fino a Enrico Ferri e lo stesso Cesare Lombroso[2]. Al di là delle divergenze dei vari approcci, si ritenevano folli morali coloro che, pur non essendo privi di intelligenza e delle altre facoltà intellettuali, difettavano di sentimenti morali, essendo dei soggetti egoisti, antisociali ed insensibili al dolore altrui. La follia morale così interveniva a spiegare l’inspiegabile, tanto da convincere Lombroso, ad un certo punto della sua riflessione, a far coincidere i delinquenti nati con i folli morali: «così si completa e si corregge la teoria dell’atavismo del crimine, coll’aggiunta della mala nutrizione cerebrale, della cattiva conduzione nervosa; s’aggiunge, insomma, il morbo della mostruosità»[3]. Ciò che in tale epoca gli psichiatri e i giuristi cercheranno strenuamente di scongiurare è, in altri termini, il realizzarsi di quanto affermato da molti romanzieri e filosofi da tempo: l’idea che il male e la doppiezza della mostruosità non siano altro che manifestazioni eccezionali di un ordine naturale a cui neanche l’uomo normale sembra poter sfuggire. Se il mostro non si distingue dall’individuo normale, essendo nient’altro che una delle possibili combinazioni degli stessi elementi esistenti in natura, di conseguenza, afferma Diderot, «l’uomo non è che un effetto comune; il mostro un effetto raro; tutt’e due ugualmente naturali, ugualmente necessari»[4]. Nella letteratura ciò risulterà ancora più evidente. Basti pensare al Doppio osceno, il sé nascosto che abita in ciascuno, esemplarmente rappresentato da Edgar Allan Poe in William Wilson (1840), da Fëdor Dostoevskij ne Il sosia (1851) e da Oscar Wilde ne Il ritratto di Dorian Gray (1890). Ma ancora più significative risultano le opprimenti pagine del celebre romanzo di Robert L. Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hyde (1886), esempio di doppiezza mostruosa in cui bene e male sono inscindibilmente mescolati, vittima e carnefice indissolubilmente legati in un unico corpo[5], poiché se Hyde è la personificazione del Male, d’altro canto Jekyll non è del tutto “buono”, poiché è la cattiveria repressa del secondo che trova finalmente sfogo nel primo: «gli esseri umani sono una mescolanza di bene e di male; mentre Edward Hyde, unico nei ranghi dell’umanità, era male assoluto»[6]. Al di là della sua peculiarità il romanzo di Stevenson va ad inserirsi in un più vasto e variegato panorama letterario, che va dal romanzo gotico inglese settecentesco al romanticismo del primo Ottocento che, nei più svariati modi, mette in luce come la scaturigine della mostruosità sia la norma stessa. È una “letteratura satanica” che mette in crisi l’idea che esista un soggetto sano e probo incapace di macchiarsi delle più atroci nefandezze, padrone delle proprie azioni e del proprio destino, e lo pone dinanzi agli «abissi sconosciuti del suo io, al rovescio opaco della sua ratio»[7] e riportarlo alla consapevolezza del suo connaturato essere Doppio (Döppelganger)[8]: da quel momento «il mostro di Frankestein ha smesso di aggirarsi nelle brughiere per abitare nel tepore paludoso dell’inconscio»[9].

    Proprio contro lo “scandalo” della doppiezza, della mescolanza tra bene e male, della continuità tra normale e patologico, cercheranno strenuamente di lottare gli alienisti, prima Pinel, Esquirol, Georget e poi Lombroso e i suoi allievi. Nonostante gli sforzi di quest’ultimi, i personaggi che popoleranno i tribunali ottocenteschi sembreranno ancora troppo pericolosamente prossimi ai “sani di mente”, evocando gli spettri di una normalità nebulosa ed inafferrabile. Del resto, «i mostri, come in fondo ogni atto di devianza, incarnano la caduta dei confini, sono l’epifania di un’ibridazione intollerabile»[10], tanto da insinuare sempre più il dubbio che nel profondo del nostro animo si annidi, in maniera larvata ed equivoca, lo sfuggente fantasma di un mostro[11].

    [1] C. Lombroso, Raccolta dei casi attinenti alla medicina legale, cit., pp. 15-16.

    [2] Su tale dibattito v. amplius D. Frigessi, Cesare Lombroso, Einaudi, Torino 2003, pp. 178-188.

    [3] C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, giurisprudenza ed alle discipline carcerarie. Delinquente nato e pazzo morale, 3a ed. completamente rifatta, Bocca, Torino 1884, p. 587.

    [4] D. Diderot, Il sogno d’Alembert (1769), in Id., Dialoghi filosofici, a cura di M. Brini Savorelli, Le Lettere, Firenze 1990, p. 38.

    [5] Cfr. B. Lanati, Desiderio e lontananza. Un punto di vista contemporaneo sulla letteratura anglo-americana, Donzelli, Roma 2010, p. 148.

    [6]R. L. Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde, Giunti, Firenze-Milano 2004, p. 115 (ed. or., The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, Longmans, London 1886).

    [7] M. Galzigna, Gli infortuni della libertà, in é.-J. Georget, Il crimine e la colpa. Discussione medico legale sulla follia, Mimesis, Milano 20082, p. XXXVI (ed. or., Discussion médico-légale sur la folie ou aliénation mentale, suivie de l’examen du procès criminel d’Henriette Cornier, et de plusieurs autres procès dans lesquels cette malòadie a été alléguée comme moyen de défense, Chez Migheret, Paris 1826).

    [8] Su tale tema nella letteratura v. amplius, M. Bartolucci, Döppelganger. Le scissioni narrative dell’io tra Otto e Novecento, Edizioni Nuova Cultura, Roma 1997; A. Altamira, Miti romantici. Simboli e inconscio dell’era industriale, Vita e Pensiero, Milano 2005 e G.D. Bonino, Introduzione in AA.VV., Essere Due. Sei romanzi sul Doppio, Einaudi, Torino 2006.

    [9] F. Galluzzi, Costruire la bella o la bestia? La bellezza combinatoria tra Elena di Troia e Frankenstein, in U. Fadini, A. Negri, C.T. Wolfe (a cura di), Desiderio del mostro, cit., p. 226.

    [10] R. Beneduce, La necessità dell’ombra. Note per un’antropologia della devianza, in S. Montaldo - P. Tappero (a cura di), Cesare Lombroso cento anni dopo, cit., p. 66.

    [11] M. Galzigna, Gli infortuni della libertà, cit., p. XXXVII.

    http://www.lunarionuovo.it/old/?q=node/184

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    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 14-09-16 alle 16:08
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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    Citazione Originariamente Scritto da Tomás de Torquemada Visualizza Messaggio


    Fotogramma del film Freaks (1932)
    Un film bellissimo, ma terribile e spietato che non lascia spazio a interpretazioni edificanti. Un film dove i veri mostri sono i "normali", ma dove i freaks non sono affatto presentati come anime innocenti, tanto che alla fine riusciranno a superare in perfidia le persone "normali", quelle socialmente accettate, facendo loro subire una sorta di crudelissimo contrappasso.


    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 13-09-16 alle 23:04

  8. #8
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    Predefinito Rif: Antropologia del "mostruoso"

    Il Lorgg


    Malles Venosta
    Immagine dal sito http://it.wikipedia.org/

    Il Lorgg di Malles Venosta è un omone nero; scende spesso nel paese e si intrattiene preferibilmente in una stradina che ancor oggi si chiama "Vicolo del Lorgg". Di lui si racconta che una notte, nel prato "Runkwiese", scorse un contadino e la moglie che falciavano l'erba al chiarore della luna. Il Lorgg passò loro accanto, li fissò e, senza dir parola, s'inoltrò nel bosco. Un'altra volta, il Lorgg si azzuffava con un gigante in un frutteto. Un Saltner, in giro per le vie dell'abitato per dare, secondo la consuetudine, l'ora degli spiriti (mezzanotte) si fermò a guardare i due litiganti. L'imprudenza gli costò cara: da quel momento non potè più muoversi, nonostante si facesse più volte il segno della croce e pregasse Gesù, Giuseppe e Maria che lo aiutassero. Con l'alabarda in resta dovette rimaner lì pietrificato fino all'alba. Al suono dell'Ave Maria, potè finalmente tornarsene a casa.
    Il Lorgg era temuto dai giovani nottambuli di Valles Venosta: li prendeva per un braccio e con un'occhiataccia li costringeva a rincasare. Attendeva il passaggio di qualche uomo alticcio in località Mulibödele, gli saltava sulle spalle, si faceva portare fino al bivio della croce, quindi si allontanava lasciando il malcapitato a terra più morto che vivo.
    Il Lorgg di Stelvio era uno dei rari essere misteriosi che trasformavano in giganti. Aveva un occhio solo, come il Ciclope Polifemo. Nella notte di Natale girava per le vie del paese, e, se incontrava un bambino, lo rapiva. A Stelvio c'è ancor oggi una viuzza chiamata "Vicolo del Lorgg".
    Leggende sul Lorgg se ne raccontano anche a Resia, dove i Lorggen sono tre: uno abita sul Piz Lat, uno sul Piz Clopair e un terzo nei pascoli alle sorgenti dell'Adige.
    Quest'ultimo era particolarmente cattivo e dispettoso. Lo chiamavano "Calzettaverde", perché indossava sempre calzini color dell'erba. Rapiva bambini, si faceva portare dai viandanti e li abbandonava esausti; sulle salite si attaccava ai carri, costringendo i cavalli a uno sforzo più grave; e se toccava un animale al pascolo, la povera bestia si ammalava e moriva. Solo un pastore delle capre aveva il potere di comandare al Lorgg; bastava che suonasse il corno, e il mostro tremava come una foglia e si faceva mansueto. Tuttavia era temuto da tutti per le sue intemperanze.
    Una notte il mugnaio di Bovile, con un sacco di farina sulle spalle, ritornava a casa dal molino. Immerso nei suoi pensieri, nell'oscurità del bosco fu preso dalla paura, rievocando tra sé e sé alcune storie del Lorgg, quando questo all'improvviso gli si parò davanti. Lo vide grande come un gatto e se lo sentì saltare sul sacco della farina. "Povero me, sono tanto stanco" egli disse!
    Il Lorgg lo guidò per un bel tratto lungo sentieri insoliti. Improvvisamente se n'andò, ma dopo pochi minuti riapparve grande come un capriolo e si fece portare ancora. Dopo un po' scomparve nuovamente, ma ritornò subito grande come un toro. Il malcapitato mugnaio finse di non vederlo, sgattaiolò tra gli alberi e giunse a casa stanco e sfinito dallo spavento e dalla fatica.

    Nota
    "Ucci, ucci, sento odor di cristianucci" dice l'orco di Pollicino.
    Personaggio tra i più famosi delle leggende l'Orco o Lorgg, come viene detto nelle valli tirolesi, è un gigante antropofago che ha la capacità di percepire con l'olfatto la presenza di uomini vivi. Infatti come l'uomo morto è maleodorante per i vivi, così lo è il vivo per i morti.
    L'Orco è lo spauracchio dell'altro regno.
    La sua bocca e il suo appetito formidabile sono paragonabili all'aspetto divorante e distruttivo della morte. Il suo unico occhio "divora" le sue vittime.
    Nelle valli ladine e trentine l'orco è una figura enorme, il cui carattere principale è la stupidità e l'intermperanza. La sua condizione di "selvatico" lo tiene lontano dalla comunità alla quale però vorrebbe partecipare.

    Da Il sogno della ragione di Brunamaria Dal Lago, Mondadori (Milano 1991)
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 14-09-16 alle 16:16
    "Tante aurore devono ancora splendere" (Ṛgveda)

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    Predefinito Re: Rif: Antropologia del "mostruoso"

    Freaks. Antropologia dell'anomalia

    di Duccio Canestrini


    Antonio del Pollaiolo, Ercole e l'Idra (1475 circa)
    Immagine dal sito http://upload.wikimedia.org/


    Fa errori la natura? O gioca? O è il bisogno d'ordine del grosso cervello di Homo sapiens a generare mostri? Ogni epoca storica ha prodotto scienziati che hanno cercato di dare risposte a queste domande. Ma perché le difformità su di noi abbiano tanto fascino, un fascino viscerale, nessuno può razionalmente spiegarlo. Seguiremo qui due fili rossi che si intrecciano.

    CONTINUA A LEGGERE
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 14-09-16 alle 16:20
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  10. #10
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    Predefinito Re: Antropologia del "mostruoso"

    Le mostruosità sono spesso cariche di significato: le forme abnormi indicano l'infrazione di un ordine precostituito, aprono crepe nelle strutture del sapere e svelano all'uomo l'immensa potenzialità della natura. A partire dal XVI secolo, il termine monstrum assume un significato sostanzialmente legato alla deformità: nei mostri si vuole leggere ora la dimostrazione dell'insondabilità dell'arbitrio di Dio (o il segno della sua ira), ora la maestria metamorfica del demonio, ora la vendetta della natura contro la trasgressione delle regole. Dunque un avvertimento quasi escatologico, o un'effettiva punizione divina nei confronti di chi ha infranto le regole dell'etica religiosa o, più semplicemente, alcuni tabù "igienico-sociali", quali ad esempio il divieto, ancora diffuso nel XVII secolo, di fare l'amore durante la notte, poiché avrebbe comportato la nascita di bambini ciechi. Tra i rischi erano compresi gli amori illeciti e l'eccessiva frequenza dei rapporti sessuali: "una punizione nei confronti dello sfrenato soddisfacimento degli istinti sessuali o di qualche altra disobbedienza ai sacri comandamenti" (L. Fortunati, I mostri nell'immaginario – F. Angeli editore, 1995). Nel "De conceptu et generatione hominis" (1554), Jacob Rueff avverte che "l'eccessiva ricerca del piacere fa sì che il seme umano divenga troppo debole e imperfetto, e ne derivi quindi, necessariamente, una creatura anch'essa debole e imperfetta".

    Per tutto il '600, benché permanga la totale confusione tra reale e favoloso, lo studio dei mostri suscita grande interesse soprattutto tra gli anatomisti. Quando a Trento, nel 1620, nasce una bambina con due teste, uno stampatore realizza subito una xilografia e ne distribuisce decine di copie come fogli volanti. In strada, un ragazzino li vende a poco prezzo, strillando ai passanti: "La fiola de dona Margarita e Giobatta sonador de basso nata con doe teste!".



    Francesca, la bambina dicefala
    Foglio volante, Archivio Consolare 3377, Biblioteca Comunale di Trento


    E viene poi il '700 e, con il secolo dei lumi, il tentativo disperato di spiegare ogni vicenda umana, ogni manifestazione della natura in modo razionale. Ma, almeno per quanto riguarda i parti mostruosi, non si riesce ad arrivare a una soddisfacente spiegazione scientifica: tra le cause delle malformazioni vengono posti i matrimoni tra consanguinei, ma anche motivazioni lontanissime dalla razionalità, come per esempio i rapporti sessuali illegittimi. E Sebastiano Melli, nel trattato La comare levatrice (1738) stabilisce che "le cagioni di queste mostruosità sono:
    1) la maggior gloria del Signor Iddio;
    2) a sempre vieppiù ammirare il potere dello stesso Signore e Creatore;
    3) perché si manifesti il castigo delle scelleraggini umane;
    4) la forza ed efficacia dell'immaginazione;
    5) l'abbondanza o vizio nell'uova umane;
    6) l'ereditarie impressioni o malattie o castighi;
    7) le cadute precipitose e le percosse in particolare sul ventre della gravida".


    Ciò che invece risulta ancora oggi difficile inquadrare sono alcune anomalie morfologiche come quella che fece scrivere al dottor Gottlieb Friderici un intero volume sulla nascita di un essere dalle molteplici difformità, oggi conosciuto come uomo-pollo.

    Corre l'anno del Signore 1735 quando la ventottenne Johanna Sophia Schmied di Taucha, un villaggio vicino a Lipsia, rimane incinta per la quarta volta e dà alla luce una creatura orribile, nata morta. Al momento della nascita, Frau Schmied è sposata a un gobbo. E' "di statura piccola e massiccia e di temperamento collerico e melanconico". Ma questo non può certo spiegare la nascita di un mostro simile, soprattutto se si considera il fatto che i figli più grandi sono assolutamente sani. Il dottor Friderici esegue l'autopsia: la testa è sproporzionata e sormontata da una grande escrescenza carnosa in cui si trova la materia cerebrale. Gravi anomalie sono riscontrate nei polmoni e nel cuore, che non ha un pericardio ma si trova all'interno di una particolare membrana sottile. La struttura ossea si discosta notevolmente da quella di un normale essere umano: né la parte inferiore delle braccia, né quella delle gambe hanno due ossa distinte. Le "mani" e i "piedi" mostrano solo quattro "dita" terminanti con una specie di uncino. Gli occhi sono enormi, i padiglioni auricolari del tutto assenti.

    Tuttora il Monstrum humanum rarissimum è conservato in una teca di vetro, sotto formalina, al Museo di Storia Naturale di Waldenburg, in Sassonia. Muta testimonianza che non tutte le leggende sono tali.





    Ultima modifica di Silvia; 29-12-13 alle 22:16

 

 
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