Da Pirandello e la Sicilia, di Leonardo Sciascia
IL CATANESE DOMENICO TEMPIO
Catania ha, nella parte alta del giardino Bellini, un viale degli uomini illustri: vescovi, canonici, umanisti e storiografi locali, deputati e senatori del regno, fiancheggiano in busti marmorei un vialetto forse eccessivamente illuminato per il gusto delle coppie; e forse eccessivamente alto per il fiato corto delle matrone, che preferiscono bivaccare nella grande rotonda dove suona in palco la banda municipale. E tra i busti, gelati dalla luce al fluoro, vi imbattete in Domenico Tempio: così esile e immalinconito da confermarvi nell’idea che la pornografia in fondo non sia che il prodotto di una sorta di etisia o di impotenza. Perché Domenico Tempio è proprio quel poeta pornografo che i siciliani, usciti dalla Sicilia attraverso bandi di arruolamento e concorsi ministeriali, recitano spesso ai loro colleghi d’altre regioni, a suggellare quei discorsi sulle donne di cui Vitaliano Brancati si è fatto impareggiabile cronista.
Contemporaneo del Meli, Domenico Tempio (nato a Catania nel 1750) rappresenta, appunto rispetto al Meli, il rovescio o, più esattamente, la controparte dell’erotismo arcadico, del barocco estremo grondante di amorini e di putti in cui si configura la poesia del palermitano: il quale è, a chi sappia vedere sotto la leggiadria delle invenzioni e l’evocazione di casti miti e di campestri incanti, a suo modo ossessionato da quel vago carosello di Nici e Clori; che son poi realissime donne dell’aristocrazia palermitana. Al Meli che musicalmente risolve le sue ossessioni, musica lieve di immagini con appena qualche venatura di arguta saggezza, risponde da Catania il “basso” delle grevi rappresentazioni fisiologiche; il furore, per così dire, anatomico; l’emblematica di “argomenti” e “serviziali” che è nei versi di Tempio. Se dalla Sicilia avessimo una cartina letteraria, così come ci sono le cartine gastronomiche, e precisamente una cartina che rappresentasse le zone di fioritura della narrativa, vedremo intorno a Catania I Malavoglia, Scurpiddu, I viceré (e metteremo anche, poiché i loro autori si sono formati nell’ambiente catanese, La storia di un brigante di Bavarese e i Mimi di Lanza); ma la zona intorno a Palermo resterebbe deserta. Né, attualmente, troveremmo da contrapporre a Brancati un narratore palermitano. E’ un fatto curioso, ma non inspiegabile. Non meno spiegabile, almeno, del fatto che Catania sia città di intenso commercio e Palermo una città al commercio decisamente negata; o del fatto che intorno a Palermo bande di fuorilegge possano prosperare per anni, mentre a Catania non riuscirebbero ad esser sicure che per qualche mese. Le aree depresse della narrativa corrispondono ad una carenza di senso comunitario, di umana confidenza e fiducia, di commercio, insomma. Ma forse Domenico Tempio non è pretesto sufficiente per avviare un simile discorso, anche se il suo realismo ci appare come un fatto sintomatico, in una zona destinata ad una rigoglioso fioritura del credo verista.
Anche a non prendere sul serio le sue dichiarazioni moralistiche (“Scrivu chi sunnu l’omini / E fazzu a la morali / Di li prisenti seculu / Processi criminali. / A quali signu arrivanu, / Mia Musa si proponi, / Dirvi li brutti vizi / E la corruzioni; / Chi di la Culpa laidi / Tanti l’aspetti sunu / Chi basta sulu pingirla / Per abburrirla ognunu”), bisogna riconoscere che gli effetti cui giunge il Tempio sono un po’ diversi, poniamo, di quelli del Batacchi. La rappresentazione di fatti fisiologici non può mai giungere ad effetti francamente comici, ove tale rappresentazione non sia, come nel Batacchi, causa o effetto di una commedia di raggiri, di equivoci, di stupidità e astuzia. Il Tempio non aveva questo gusto della commedia: avrebbe potuto metter in versi anche il rapporto Kinsey. Ma sotto il gratuito delle sue rappresentazioni sentiamo il fermento del disfacimento, quell’“olor da la muerte” che Hemingway ci rende in una virtuosissima pagina. Si tratta, senz’altro di pornografia: ma non priva di quel pirandelliano candore per cui Mostarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, si abbatte nella nausea cosmica da cui infine la solitudine lo salva
Uno scrittore di oggi che ha molti punti di contatto con Tempio è l’americano Henry Miller. Il minuzioso furore, l’ossessiva esaltazione del poeta catanese nella iperbolica descrizione degli organi sessuali e dei fatti fisiologici, trovano in Miller un sorprendente riscontro.
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…quel che qui ci importa è metter Domenico Tempio di fronte a Giovanni Meli: a segnare le due componenti della psicologia erotica dell’uomo siciliano, quella della “cristallizzazione” arcadica, del vagheggiamento patologicamente sfumato, e quella della furente disgregazione in cui la “cristallizzazione” si rovescia al tocco della realtà. Un ritmo che Brancati ha esemplato, sforzandolo fino alla conseguenza estrema dell’impotenza fisiologica, nel caso del Bell’Antonio.
1954
Catania - Villa Bellini - Viale degli uomini illustri - Domenico Tempio.