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    Predefinito 8 settembre 1907 - 8 settembre 2007 - 100 anni della Pascendi Dominici Gregis

    Esattamente 100 anni fa il Santo Pontefice Pio X promulgava l'enciclica Pascendi Dominici Gregis sugli errori del modernismo. Un documento di straordinaria attualità ancora oggi.

    Aug.

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    Predefinito

    PIO X

    PASCENDI DOMINICI GREGIS

    LETTERA ENCICLICA
    AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI
    PRIMATI ARCIVESCOVI VESCOVI
    E AGLI ALTRI ORDINARI
    AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
    PACE E COMUNIONE.

    "Sugli errori del Modernismo"

    VENERABILI FRATELLI
    SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

    Introduzione


    L'officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome. La quale provvidenza del Supremo Pastore non vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica: stanteché per opera del nemico dell'uman genere, mai non mancarono "uomini di perverso parlare (Act. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13)". Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. Per la qual cosa non Ci è oggimai più lecito di tacere, seppur non vogliamo aver vista di mancare al dovere Nostro gravissimo, e che Ci sia apposta a trascuratezza di esso la benignità finora usata nella speranza di più sani consigli.

    Ed a rompere senza più gl'indugi Ci spinge anzitutto il fatto, che i fautori dell'errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. Alludiamo, o Venerabili Fratelli, a molti del laicato cattolico e, ciò ch'è più deplorevole, a non pochi dello stesso ceto sacerdotale, i quali, sotto finta di amore per la Chiesa, scevri d'ogni solido presidio di filosofico e teologico sapere, tutti anzi penetrati delle velenose dottrine dei nemici della Chiesa, si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima; e, fatta audacemente schiera, si gittano su quanto vi ha di più santo nell'opera di Cristo, non risparmiando la persona stessa del Redentore divino, che, con ardimento sacrilego, rimpiccioliscono fino alla condizione di un puro e semplice uomo.

    Pericolo delle dottrine moderniste

    Fanno le meraviglie costoro perché Noi li annoveriamo fra i nemici della Chiesa; ma non potrà stupirsene chiunque, poste da parte le intenzioni di cui Dio solo è giudice, si faccia ad esaminare le loro dottrine e la loro maniera di parlare e di operare. Per verità non si allontana dal vero chi li ritenga fra i nemici della Chiesa i più dannosi. Imperocché, come già abbiam detto, i lor consigli di distruzione non li agitano costoro al di fuori della Chiesa, ma dentro di essa; ond'è che il pericolo si appiatta quasi nelle vene stesse e nelle viscere di lei, con rovina tanto più certa, quanto essi la conoscono più addentro. Di più, non pongono già la scure ai rami od ai germogli; ma alla radice medesima, cioè alla fede ed alle fibre di lei più profonde. Intaccata poi questa radice della immortalità, continuano a far correre il veleno per tutto l'albero in guisa, che niuna parte risparmiano della cattolica verità, niuna che non cerchino di contaminare. Inoltre, nell'adoperare le loro mille arti per nuocere, niuno li supera di accortezza e di astuzia: giacché la fanno promiscuamente da razionalisti e da cattolici, e ciò con sì fina simulazione da trarre agevolmente in inganno ogni incauto; e poiché sono temerari quanto altri mai, non vi è conseguenza da cui rifuggano e che non ispaccino con animo franco ed imperterrito. Si aggiunga di più, e ciò è acconcissimo a confonderle menti, il menar che essi fanno una vita operosissima, un'assidua e forte applicazione ad ogni fatta di studi, e, il più sovente, la fama di una condotta austera. Finalmente, e questo spegne quasi ogni speranza di guarigione, dalle stesse loro dottrine sono formati al disprezzo di ogni autorità e di ogni freno; e, adagiatisi in una falsa coscienza, si persuadono che sia amore di verità ciò che è infatti superbia ed ostinazione. Sì, sperammo a dir vero di riuscire quando che fosse a richiamar costoro a più savi divisamenti; al qual fine li trattammo dapprima come figli con soavità, passammo poi ad un far severo, e finalmente, benché a malincuore, usammo pure i pubblici castighi. Ma voi sapete, o Venerabili Fratelli, come tutto riuscì indarno: sembrarono abbassai la fronte per un istante, mala rialzarono subito con maggiore alterigia. E potremmo forse tuttora dissimulare se non si trattasse che sol di loro: ma trattasi invece della sicurezza del nome cattolico. Fa dunque mestieri di uscir da un silenzio, che ormai sarebbe colpa, per far conoscere alla Chiesa tutta chi sieno infatti costoro che così mal si camuffano.

    E poiché è artificio astutissimo dei modernisti (ché con siffatto nome son chiamati costoro a ragione comunemente) presentare le loro dottrine non già coordinate e raccolte quasi in un tutto, ma sparse invece e disgiunte l'una dall'altra, allo scopo di passare essi per dubbiosi e come incerti, mentre di fatto sono fermi e determinati; gioverà innanzi tutto raccogliere qui le dottrine stesse in un sol quadro, per passar poi a ricercar le fonti di tanto traviamento ed a prescrivere le misure per impedirne i danni.

    I sette aspetti del modernista

    E alfin di procedere con ordine in una materia di troppo astrusa, è da notare anzi tutto che ogni modernista sostiene e quasi compendia in sé molteplici personaggi: quelli cioè di filosofo, di credente, di teologo, di storico, di critico, di apologista, di riformatore: e queste parti sono tutte bene da distinguersi una ad una, da chi voglia conoscere a dovere il lor sistema e penetrare i principî e le conseguenze delle loro dottrine.

    Prendendo adunque le mosse dal filosofo, tutto il fondamento della filosofia religiosa è riposto dai modernisti nella dottrina, che chiamano dell'agnosticismo. Secondo questa, la ragione umana è ristretta interamente entro il campo dei fenomeni, che è quanto dire di quel che apparisce e nel modo in che apparisce: non diritto, non facoltà naturale le concedono di passare più oltre. Per lo che non è dato a lei d'innalzarsi a Dio, né di conoscerne l'esistenza, sia pure per intromessa delle cose visibili. E da ciò si deduce che Dio, riguardo alla scienza, non può affatto esserne oggetto diretto; riguardo alla storia non deve mai riputarsi come soggetto istorico. Poste cotali premesse, ognuno scorge di leggieri quali sieno le sorti della teologia naturale, dei motivi di credibilità, dell'esterna rivelazione. Tutto questo i modernisti tolgon via di mezzo, e ne fanno assegno all'intellettualismo, ridicolo sistema, come essi affermano, e tramontato già da gran tempo. Né in ciò ispira loro alcun ritegno il sapere che si enormi errori furono già formalmente condannati dalla Chiesa. Giacché infatti il Concilio Vaticano così ebbe definito: "Se qualcuno dirà, che Dio uno e vero, Creatore e Signor nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza col lume naturale dell'umana ragione, sia anatema"(De Revel., can. I); e similmente: "Se alcuno dirà non essere possibile, o non convenire che, mediante divina rivelazione, sin l'uomo ammaestrato di Dio e del culto che Gli si deve, sia anatema" (Ibid., can. II); e finalmente: "Se alcuno dirà che la rivelazione divina non possa essere fatta credibile da esterni segni e che perciò gli uomini non debbano esser mossi alla fede se non da interna esperienza o privata ispirazione, sia anatema" (De Fide, can. III).Di qual guisa poi i modernisti dall'agnosticismo, che è puro stato d'ignoranza, passino all'ateismo scientifico e storico, che invece è stato di positiva negazione; e con qual diritto perciò di logica, dal non sapere se Iddio sia intervenuto o no nella storia dell'uman genere si trascorra a spiegar tutto nella storia medesima ponendo Dio interamente da parte come se in realtà non fosse intervenuto, lo assegni chi può. Ma tanto è; per costoro è fisso e determinato che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l'àmbito di esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio e quanto sa di divino. Dalla quale dottrina assurdissima vedrem bentosto che cosa siasi costretti di ammettere intorno alla persona augusta di Gesù Cristo, intorno ai misteri della Sua vita e della Sua morte, intorno alla Sua risurrezione ed ascensione al Cielo.

    Vero è che l'agnosticismo non costituisce nella dottrina dei modernisti se non la parte negativa; la positiva sta tutta nell'immanenza vitale. Dall'una all'altra ecco con qual discorso procedono. La Religione, sia essa naturale o sopra natura, alla guisa di ogni altro fatto qualsiasi, uopo è che ammetta una spiegazione. Or, tolta di mezzo la naturale teologia, chiuso il cammino alla rivelazione per il rifiuto dei motivi di credibilità, negata anzi qualsivoglia esterna rivelazione, chiaro è che siffatta spiegazione indarno si cerca fuori dell'uomo. Resta dunque che si cerchi nell'uomo stesso; e poiché la religione non è altro infatti che una forma della vita, la spiegazione di essa dovrà ritrovarsi appunto nella vita dell'uomo. Di qui il principio dell'immanenza religiosa. Di più, la prima mossa, per così dire, di ogni fenomeno vitale, quale si è detta essere altresì la religione, è sempre da ascrivere ad un qualche bisogno; i primordi poi, parlando più specialmente della vita, sono da assegnare ad un movimento del cuore, o vogliam dire ad un sentimento. Per queste ragioni, essendo Dio l'oggetto della religione, dobbiamo conchiudere che la fede, inizio e fondamento di ogni religione, deve riporsi in un sentimento che nasca dal bisogno della divinità. Il quale bisogno, non sentendosi dall'uomo se non indeterminate ed acconce circostanze, non può di per sé appartenere al campo della coscienza: ma giace da principio al di sotto della coscienza medesima o, come dicono con vocabolo tolto ad imprestito dalla moderna filosofia, nella subcoscienza, ove la sua radice rimane occulta ed incomprensibile. Che se si chieda in qual modo da questo bisogno della divinità, che l'uomo provi in se stesso, si faccia poi trapasso alla religione, i modernisti rispondono così. La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l'uno esterno, ed è il mondo visibile; l'altro interno, ed è la coscienza. Toccato che abbiano o l'uno o l'altro di questi termini, non hanno come passare più oltre; al di là si trovano essi a faccia dell'inconoscibile. Dinanzi a questo inconoscibile, o sia esso fuori dell'uomo oltre ogni cosa visibile, o si celi entro l'uomo nelle latebre della subcoscienza, il bisogno del divino, senza verun atto della mente, secondo che vuole il fideismo, fa scattare nell'animo già inclinato a religione un certo particolar sentimento; il quale, sia come oggetto sia come causa interna, ha implicata in sé la realtà del divino e congiunge in certa guisa l'uomo con Dio. A questo sentimento appunto si dà dai modernisti il nome di fede, e lo ritengono quale inizio di religione.

    Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d'un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l'apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l'oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell'assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina.

    Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d'occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell'inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall'inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s'impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v'introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall'agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona dl Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell'uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall'agnosticismo, dalla storia dl essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d'uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti.

    Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione, ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto l'influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell'anzidetto sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile si vide né mai si troverà. Nell'udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario solamente d'increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore, che alla natura umana concedeva quasi un diritto all'ordine soprannaturale. Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione nostra santissima, nell'uomo Cristo del pari che in noi, è frutto interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual sia mezzo più acconcio per sopprimere ogni ordine soprannaturale. Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: "Se alcuno dirà, non poter l'uomo essere elevato da Dio a una conoscenza e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso, con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero e di ogni bene, sia anatema" (De Revel., can. III).

    Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto luogo all'azione dell'intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti, ha essa ancora la sua parte nell'atto di fede. E giova osservare in che modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta bensì all'uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d'uopo che sopra quel sentimento si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito dell'intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per mezzo del quale l'uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni. Di qui il detto volgare dei modernisti, che l'uomo religioso deve pensare la sua fede. L'intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia. Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è l'operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare; indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano, lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma.

    Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di maggior rilievo, all'origine cioè e alla natura stessa del dogma. Imperocché l'origine del dogma la ripongon essi in quelle primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza. Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà, chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli, sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare al sentimento religioso in ordine all'uomo; come istrumenti, sono veicoli di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all'uomo in ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l'assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione!

    E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i modernisti l'affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all'uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l'eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: "spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità" (Gregorio XVI, Lett. Enc."Singulari Nos", 25 giugno 1834).

    E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo. Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente, vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non altrove l'incontra che nell'animo del credente, come oggetto di sentimento e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori di quel sentimento e di quell'affermazione, a lui punto non cale. Per contrario il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esiste di fatto in se stessa, né punto dipende da chi crede. Che se poi cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti rispondono: l'esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro si dilungano dai razionalisti, cadono nell'opinione dei protestante dei pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l'uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl'infonde una persuasione dell'esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell'uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, e negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l'abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all'ateismo. Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell'esperienza unitamente all'altra del simbolismo, ogni religione, sia pure quella degl'idolatri, deve ritenersi siccome vera. Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s'incontrino in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono. E con qual diritto modernisti negheranno la verità ad una esperienza affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere pei soli cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni son vere. E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formola poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento religioso ed al credente, checché ne sia della forza d'ingegno in costui. Tutt'al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana, perché risponde più pienamente alle origini del cristianesimo. Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che cattolici e sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità, si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorano già le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori che quelle professano apertamente e cercano a tutt'uomo propagare.

    Ma, oltre al detto, questa dottrina dell'esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli altri, mercè la predicazione, per mezzo della formola intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l'esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l'esperienza. Di questa guisa l'esperienza religiosa si viene a propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione, ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione dell'esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia per dare un concetto più elevato e più ampio della religione!

    Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza; con qual nome di scienza intendono essi ancor la storia. E in primo luogo si deve tenere che l'oggetto dell'una è affatto estraneo all'oggetto dell'altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente di cosa, che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza non vi può essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi. Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono negando. Perché quantunque tali cose sieno nel novero dei fenomeni, pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato, sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà storica; l'affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede.

    S'ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l'una dall'altra. Si, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto religioso, toltane la realtà divina e l'esperienza che di essa ha chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose, non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo voglia o no, alle leggi, all'osservazione, ai giudizi della scienza e della storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà divina, non già della idea di Dio. L'idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell'ordine logico, si solleva fino all'assoluto ed all'ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l'idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il ripetere che fanno i modernisti che l'evoluzione religiosa deve essere coordinata colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro maestri, deve essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che l'uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell'universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea alla scienza, essere a questa sottoposta. Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: "Essere dovere della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio, né scrutar l'altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente venerarla" (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857). I modernisti invertono del tutto le parti. Ond'è che ad essi può applicarsi ciò che l'altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: "Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l'intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza... Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all'ancella" (Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223).

    Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti, interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l'opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista. Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di Cristo; predicando invece nelle chiese, l'affermano con risolutezza. Di qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto. Di qui, distinguono l'esegesi teologica e pastorale dall'esegesi scientifica e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla. "Exsurge Domine", 15 maggio 1520: "Ci si è aperta la strada per isnervare l'autorità dei Concilî e contraddire liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare arditamente tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato da qualunque Concilio"), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del magistero ecclesiastico: e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà. Da ultimo, posto l'aforisma che la fede deve soggettarsi alla scienza, criticano di continuo e all'aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia: ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi.

    Parte II

    Con che, Venerabili Fratelli, Ci si dà finalmente il passo per osservare i modernisti sull'arena teologica. Difficile compito: ma con poco potremo trarCi d'impaccio. Il fine da ottenere è la conciliazione della fede colla scienza, restando però sempre incolume il primato della scienza sulla fede. In questo affare il teologo modernista si giova degli stessissimi principî che vedemmo usati dalla filosofia, adattandoli al credente; ciò sono i principî dell'immanenza e del simbolismo. Ed ecco con quanta speditezza compie egli il suo lavoro. Ha detto il filosofo: "Il principio della fede è immanente"; il credente ha soggiunto: "Questo principio è Dio";il teologo dunque conclude: "Dio è immanente nell'uomo". Di qui l'essere dell'immanenza teologica. Parimente: il filosofo ha ritenuto come certo che le "rappresentazioni dell'oggetto della fede sono semplicemente simboliche"; il credente ha affermato che "l'oggetto della fede è Dio in se stesso"; il teologo adunque pronunzia: "Le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche". Di qui il simbolismo teologico. Errori per verità enormi; i quali quanto sieno perniciosi, si vedrà luminosamente nell'osservarne le conseguenze.

    Infatti, per dir subito del simbolismo, i simboli essendo tali in relazione all'oggetto, ed in relazione al credente non essendo che istrumenti, fa mestieri innanzi tutto, così insegnano i modernisti, che il credente non si attacchi troppo alla formola, ma se ne giovi solo allo scopo di unirsi all'assoluta verità, di cui la formola rivela insieme e nasconde, si sforza cioè di esprimere ma senza mai riuscirvi. Vogliono in secondo luogo che il credente usi di tali formole tanto quanto gli sono utili, poiché sono date per giovamento e non per averne intralcio; salvo, s'intende, il rispetto che, per riguardi sociali, si deve alle formole giudicate acconce dal pubblico magistero ad esprimere la coscienza comune, finché però lo stesso magistero non stabilisca altrimenti. Quanto poi all'immanenza, non è agevole determinare ciò che per essa intendano i modernisti; giacché diverse sono fra essi le opinioni. Altri la pongono in ciò, che Dio operante sia intimamente presente nell'uomo, più che non sia l'uomo a sé stesso; il che, sanamente inteso, non può riprendersi. Altri pretendono che l'azione divina sia una coll'azione della natura, come di causa prima con quella di causa seconda; e ciò distruggerebbe l'ordine soprannaturale. Altri per ultimo la spiegano in modo da dar sospetto di un senso panteistico; il che, a dir vero, è più coerente col rimanente delle loro dottrine.

    A questo postulato dell'immanenza un altro poi se ne aggiunge, che si può intitolare dalla permanenza divina: e l'una dall'altra si fa differire quasi a quel modo stesso, che l'esperienza privata differisce dall'esperienza trasmessa per tradizione. Un esempio illustrerà il concetto: e sia l'esempio della Chiesa e dei Sacramenti. La Chiesa, dicono, e i Sacramenti non si devon credere come istituiti da Cristo stesso. Vieta ciò l'agnosticismo, che in Cristo non riconosce nulla più che un uomo, la cui coscienza religiosa, come quella di ogni altro uomo, si è formata a poco a poco; lo vieta la legge dell'immanenza, che non ammette, per dirlo con una loro parola, esterne applicazioni; lo vieta pure la legge dell'evoluzione, che per lo svolgersi dei germi richiede tempo ed una certa serie di circostanze; lo vieta finalmente la storia, che mostra tale di fatto essere stato il corso delle cose. Però è da tenersi che Chiesa e Sacramenti furono istituiti mediatamente da Cristo. Ma in qual modo? eccolo. Le coscienze tutte cristiane, essi dicono, furono virtualmente inchiuse nella coscienza di Gesù Cristo, come la pianta nel seme. Or poiché i germi vivono la vita del seme, così deve affermarsi che tutti i cristiani vivono la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo, secondo la fede, è divina; dunque anche quella dei cristiani. Se pertanto questa vita, nel corso dei secoli, diede origine alla Chiesa e ai Sacramenti, con ogni diritto si potrà dire che tale origine è da Cristo ed è divina. Nello stesso modo provano esser divine le Scritture e divini i dogmi. E con ciò la teologia moderna può dirsi compiuta. Esigua cosa a dir vero, ma più che abbondante per chi professa doversi sempre ed in tutto rispettare le conclusioni della scienza. L'applicazione poi di queste teorie agli altri punti che verremo esponendo potrà ognuno farla di per sé stesso.

    Abbiam parlato finora della origine e della natura della fede. Ma molti essendo i germi di questa, e principali fra essi la Chiesa, il dogma, il culto, i Libri sacri, di questi eziandio è da conoscere ciò che insegnano i modernisti. E per farci dal dogma, l'origine e la natura di esso quale sia, si è già indicato più sopra. Nasce il dogma dal bisogno che prova il credente di lavorare sul suo pensiero religioso, sì da rendere la sua e l'altrui coscienza sempre più chiara. Tale lavorio consiste tutto nell'indagare ed esporre la formola primitiva, non già in se stessa e razionalmente, ma rispetto alle circostanze o, come più astrusamente dicono, vitalmente. Di qui si ha che intorno alla medesima si vadano formando delle formole secondarie, che poi sintetizzate e riunite in un'unica costruzione dottrinale, quando questa sia suggellata dal pubblico magistero come rispondente alla coscienza comune, si chiamerà dogma. Dal dogma son da distinguersi accuratamente le speculazioni teologiche; le quali però, benché non vivano della vita del dogma, pur tuttavia non sono inutili sì per armonizzare la religione colla scienza e togliere fra loro ogni contrasto, sì per lumeggiare esternamente e difendere la religione stessa; e chi sa che forse non giovino altresì per preparar la materia di un dogma futuro. Del culto poi non vi sarebbe gran che da dire, se sotto questo nome non venissero eziandio i Sacramenti, intorno ai quali sono gravissimi gli errori dei modernisti. Il culto vogliono che risulti da un doppio bisogno; giacché, torniamo ad osservarlo, nel loro sistema tutto va attribuito ad intimi bisogni. L'uno è quello di dare alla religione alcunché di sensibile; l'altro è il bisogno di propagarla, il che non potrebbe avvenire senza una qualche forma sensibile e senza atti santificanti, che diconsi Sacramenti. Quanto poi ai Sacramenti, essi pei modernisti si riducono a meri simboli o segni, non però privi di efficacia; efficacia che essi cercano di spiegare coll'esempio di certe cotali parole che volgarmente diconsi aver fatto fortuna, per avere acquistata la forza di diffondere talune idee potenti e che colpiscono grandemente gli animi. Come quelle parole sono ordinate alle dette idee, così i Sacramenti al sentimento religioso: nulla di vantaggio. Parlerebbero certamente più chiaro ove affermassero che i Sacramenti sono istituiti unicamente per nutrir la fede. Ma ciò è condannato dal Concilio di Trento (Sess. VII, de Sacramentis in genere, can. 5): "Se alcuno dirà che questi Sacramenti sono istituiti solo per nutrir In fede, sia anatema".

    Della natura ancora e dell'origine dei Libri sacri già si è toccato. Secondo il pensare dei modernisti, si può ben definirli una raccolta di esperienze: non di quelle, che comunemente si hanno da ognuno, ma delle straordinarie e più insigni che siensi avute in una qualche religione. E così essi appunto insegnano a riguardo dei nostri libri del Vecchio e del Nuovo Testamento. A lor comodo però, notano assai scaltramente che, sebbene l'esperienza sia del presente, può tuttavolta prender materia dal passato ed eziandio dal futuro, in quanto che il credente o per la memoria rivive il passato a maniera del presente, o vive già per anticipazione l'avvenire. Ciò giova a dar modo di computare fra i Libri santi anche gli storici e gli apocalittici. Così adunque in questi libri parla bensì Iddio per mezzo del credente; ma, come vuole la teologia modernistica, solo per immanenza e permanenza vitale. Vorrà sapersi, in che consista dopo ciò l'ispirazione? Rispondono che non si distingue, se non forse per una certa maggiore veemenza, dal bisogno che sente il credente di manifestare a voce e per scritto la propria fede. È alcun che di simile a quello che si avvera nella ispirazione poetica; per cui un cotale diceva: È Dio in noi, da Lui agitati noi c'infiammiamo. È questo appunto il modo onde Dio deve dirsi origine della ispirazione dei Libri sacri. Affermano inoltre i modernisti che nulla vi è in questi libri che non sia ispirato. Nel che potrebbe taluno crederli più ortodossi di certi altri moderni che restringono alquanto la ispirazione, come, a mo' di esempio, nelle così dette citazioni tacite. Ma queste non sono che lustre e parole. Imperciocché se, secondo l'agnosticismo, riteniamo la Bibbia come un lavoro umano fatto da uomini per servigio di uomini, salvo pure al teologo di chiamarla divina per immanenza, come mai l'ispirazione potrebbe in essa restringersi? Sì, i modernisti affermano un'ispirazione totale: ma, nel senso cattolico, non ne ammettono in fatto veruna.

    Più larga materia ci offre ciò che la scuola dei modernisti fantastica a riguardo della Chiesa. È qui da presupporre che la Chiesa secondo essi è frutto di due bisogni: uno nel credente, specie se abbia avuta qualche esperienza originale e singolare, di comunicare ad altri la propria fede; l'altro nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti, di aggrupparsi in società e di conservare, accrescere e propagare il bene comune. Che cosa è dunque la Chiesa? un parto della coscienza collettiva, ossia collettività di coscienze individuali; le quali, in forza della permanenza vitale, pendono tutte da un primo credente, cioè pei cattolici da Cristo. Ora ogni società ha bisogno di un'autorità che la regga: il cui compito sia dirigere gli associati al fine comune, e conservare saggiamente gli elementi di coesione, i quali in una società religiosa sono la dottrina ed il culto. Perciò nella Chiesa cattolica una triplice autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. La natura poi di questa autorità dovrà desumersi dalla sua origine; e dalla natura si dovranno a loro volta dedurre i diritti e i doveri. Fu errore volgare dell'età passata che l'autorità sia venuta alla Chiesa dal di fuori, cioè immediatamente da Dio: e perciò era giustamente ritenuta autocratica. Ma queste sono teorie oggimai passate di moda. Come la Chiesa è emanata dalla collettività delle coscienze, cosi l'autorità emana vitalmente dalla stessa Chiesa. Pertanto l'autorità del pari che la Chiesa nasce dalla coscienza religiosa, e perciò alla medesima resta soggetta: e se venga meno a siffatta soggezione, si volge in tirannide. Nei tempi che corrono il sentimento di libertà è giunto al suo pieno sviluppo. Nello stato civile la pubblica coscienza ha voluto un regime popolare. Ma la coscienza dell'uomo, come la vita, è una sola. Se dunque l'autorità della Chiesa non vuol suscitare e mantenere una guerra intestina nelle coscienze umane, uopo è che si pieghi anch'essa a forme democratiche; tanto più che, a negarvisi, lo sfacelo sarebbe imminente. È da pazzo il credere che possa aversi un regresso nel sentimento di libertà quale domina al presente. Stretto e rinchiuso con violenza strariperà più potente, distruggendo insieme la religione e la Chiesa. Fin qui il ragionare dei modernisti: e la conseguenza è, che sono tutti intesi a trovar modi per conciliare l'autorità della Chiesa colla libertà dei credenti.

    Se non che non solamente fra le sue stesse pareti trova la Chiesa con chi doversi comporre amichevolmente, ma eziandio fuori. Non è sola essa ad occupare il mondo: l'occupano insieme altre società, colle quali non può aver uso e commercio. Convien dunque determinare quali sieno i diritti e i doveri della Chiesa verso le società civili; e ben s'intende che tale determinazione deve esser desunta dalla natura della Chiesa stessa, quale i modernisti l'hanno descritta. Le regole perciò da usarsi son quelle stesse che sopra si adoperarono per la scienza e la fede. Ivi parlavasi di oggetti, qui di fini. Come adunque, per ragione dell'oggetto, si dissero la fede e la scienza vicendevolmente estranee, così lo Stato e la Chiesa sono l'uno all'altra estranei pel fine a cui tendono, temporale per lo Stato, spirituale pella Chiesa. Fu d'altre età il sottomettere il temporale allo spirituale; il parlarsi di questioni miste, nelle quali la Chiesa interveniva quasi signora e regina, perché la Chiesa sl stimava istituita immediatamente da Dio, come autore dell'ordine soprannaturale. Ma la filosofia e la storia non più ammettono cotali credenze. Adunque lo Stato deve separarsi dalla Chiesa e per egual ragione il cattolico dal cittadino. Di qui è, che il cattolico, perché insieme cittadino, ha diritto e dovere, non curandosi dell'autorità della Chiesa, dei suoi desiderî, consigli e comandi, sprezzate altresì le sue riprensioni, di far quello che giudicherà espediente al bene della patria. Voler imporre al cittadino una linea di condotta sotto qualsiasi pretesto è un vero abuso di potere ecclesiastico da respingersi con ogni sforzo. Le teorie, o Venerabili Fratelli, onde promanano tutti questi errori, son quelle appunto che il Nostro Predecessore Pio VI già condannò solennemente nella Costituzione Apostolica "Auctorem Fidei" (Prop. 2). "La proposizione che stabilisce che la potestà è stata da Dio data alla Chiesa, perché fosse comunicata ai Pastori, che sono ministri di lei per la salute delle anime; così intesa, che la potestà del ministero e regime ecclesiastico si derivi nei Pastori dalla Comunità dei fedeli: eretica". Prop. 3. "Inoltre quella che stabilisce il Romano Pontefice esser capo ministeriale; così spiegata che il Romano Pontefice, non da Cristo nella persona del Beato Pietro, ma dalla Chiesa abbia avuta la potestà del ministero, di cui come successore di Pietro, vero Vicario di Cristo e capo di tutta la Chiesa, gode nella Chiesa universa: eretica").

    Ma non basta alla scuola dei modernisti che lo Stato sia separato dalla Chiesa. Come la fede, quanto agli elementi fenomenici, deve sottostare alla scienza, così nelle cose temporali la Chiesa ha da soggettarsi allo Stato. Questo forse non l'asseriscono essi peranco apertamente; ma per forza di raziocinio sono costretti ad ammetterlo. Imperocché, concesso che lo Stato abbia assoluta padronanza in tutto ciò che è temporale, se avvenga che il credente, non pago della religione dello spirito, esca in atti esteriori, quali per mo' di esempio, l'amministrarsi o il ricevere dei Sacramenti, bisognerà che questi cadano sotto il dominio dello Stato. E che sarà dopo ciò dell'autorità ecclesiastica? Siccome questa non si spiegasse non per atti esterni, sarà in tutto e per tutto assoggettata al potere civile. È questa ineluttabile conseguenza che trascina molti fra i protestanti liberali a sbarazzarsi di ogni culto esterno, anzi d'ogni esterna società religiosa, i quali invece si adoprano di porre in voga una religione che chiamano individuale. Che se i modernisti, a luce di sole, non si spingono ancora tant'oltre, insistono intanto perché la Chiesa si pieghi spontaneamente ove essi la voglion trarre e si acconci alle forme civili. Tutto ciò per l'autorità disciplinare. Più gravi assai e perniciose sono le loro affermazioni a riguardo dell'autorità dottrinale e dogmatica. Circa il magistero ecclesiastico così essi la pensano: la società religiosa non può veramente essere una senza unità di coscienza nei suoi membri e senza unita di formola. Ma questa duplice unità richiede, per così dire, una mente comune, a cui spetti trovare e determinare la formola, che meglio risponda alla coscienza comune: alla qual mente fa d'uopo inoltre attribuire un'autorità bastevole, perché possa imporre alla comunanza la formola stabilita. Or nell'unione è quasi fusione della mente designatrice della formola e dell'autorità che la impone, ritrovano i modernisti il concetto del magistero ecclesiastico. Poiché dunque in fin dei conti il magistero non nasce che dalle coscienze individuali ed a bene delle stesse coscienze ha imposto un pubblico ufficio; ne consegue di necessità che debba dipendere dalle medesime coscienze e debba quindi avviarsi a forme democratiche. Il proibire pertanto alle coscienze degli individui che facciano pubblicamente sentire i loro bisogni; non soffrire chela critica spinga il dogma verso necessarie evoluzioni, non è già uso di potestà, data per pubblico bene, ma abuso. Similmentene l'uso stesso della potestà fa di mestieri serbare modo e misura. Sa di tirannide condannare un libro all'insaputa dell'autore, senza ammettere spiegazioni di sorta né discussione. Adunque qui pure è da ricercarsi una via di mezzo che salvi insieme i diritti dell'autorità e della libertà. Nel frattempo il cattolico si regolerà in guisa che non lasci pubblicamente di protestarsi rispettosissimo dell'autorità, continuando però sempre ad operare a suo talento. In generale vogliono ammonita la Chiesa che, poiché il fine della potestà ecclesiastica è tutto spirituale, disdice ogni esterno apparato di magnificenza con che essa si circonda agli occhi delle moltitudini. Nel che non riflettono che se la religione è essenzialmente spirituale non c tuttavia ristretta al solo spirito; e che l'onore tributato all'autorità ridonda su Gesù Cristo che ne fu istitutore.

    Per compiere tutta questa materia della fede e dei diversi suoi germi, rimane da ultimo, Venerabili Fratelli, che ascoltiamo le teorie dei modernisti circa lo sviluppo dei medesimi. È lor principio generale che in una religione vivente tutto debba essere mutevole e mutarsi di fatto. Di qui fanno passo a quella che è delle principali fra le loro dottrine, vogliam dire all'evoluzione. Dogma dunque, Chiesa, culto, Libri sacri, anzi la fede stessa, se non devon esser cose morte, fa mestieri che sottostiano alle leggi dell'evoluzione. Siffatto principio non si udrà con istupore da chi rammenti quanto i modernisti son venuti affermando intorno a ciascuno di questi oggetti. Posta pertanto la legge dell'evoluzione, i modernisti stessi ci descrivono in qual maniera l'evoluzione si effettui. E cominciamo dalla fede. La forma primitiva, essi dicono, della fede fu rudimentaria e comune indistintamente a tutti gli uomini; giacché nasceva dalla natura e dalla vita umana. Il progresso si ebbe per sviluppo vitale; che è quanto dire non per aggiunta di nuove forme apportate dal di fuori, ma per una crescente penetrazione nella coscienza del sentimento religioso. Doppio indi fu il modo di progredire nella fede: prima negativamente, col depurarsi da ogni elemento estraneo, come ad esempio dal sentimento di famiglia o di nazionalità; quindi positivamente, mercè il perfezionarsi intellettuale e morale dell'uomo, per cui l'idea divina sl ampliò ed illustrò e il sentimento religioso divenne più squisito. Del progresso della fede non altre cause assegnar si possono che quelle stesse onde già si spiegò la sua origine. Alle quali però fa d'uopo aggiungere quei genii religiosi, che noi chiamiamo profeti e dei quali Cristo fu il sommo; sì perché nella vita o nelle parole ebbero un certo che di misterioso, che la fede attribuiva alla divinità, e sì perché toccaron loro esperienze nuove ed originali in piena armonia coi bisogni del loro tempo. Il progresso del dogma nasce principalmente dal bisogno di superare gli ostacoli della fede, di vincere gli avversari, di ribattere le difficoltà, senza dire dello sforzo continuo di viemeglio penetrare gli arcani della fede. Così, per tacer di altri esempi, è avvenuto di Cristo; in cui, quel più o meno divino, che la fede in esso ammetteva, si venne gradatamente amplificando in modo, che finalmente fu ritenuto per Dio. Lo stimolo precipuo di evoluzione del culto sarà il bisogno di adattarsi agli usi ed alle tradizioni dei popoli; come altresì di usufruire della virtù che certi atti hanno ricevuto dall'usanza. La Chiesa finalmente trova la sua ragione di evolversi nel bisogno di accomodarsi alle condizioni storiche e di accordarsi colle forme di civil governo pubblicamente adottate. Così i modernisti di ciascun capo in particolare. E qui, innanzi di farCi oltre, bramiamo che ben si avverta di nuovo a questa loro dottrina dei bisogni; giacché essa, oltreché di quanto finora abbiam visto, è quasi base e fondamento di quel vantato metodo che chiamano storico.

    Or, restando tuttavia nella teoria della evoluzione, vuole di più osservarsi che quantunque i bisogni servano di stimolo per la evoluzione, essa nondimeno, regolata unicamente da siffatti stimoli, valicherebbe facilmente i termini della tradizione, e strappata così dal primitivo principio vitale, meglio che a progresso menerebbe a rovina. Quindi studiando più a fondo il pensiero dei modernisti, deve dirsi che l'evoluzione è come il risultato di due forze che si combattono, delle quali una è progressiva, l'altra conservatrice. La forza conservatrice sta nella Chiesa e consiste nella tradizione. L'esercizio di lei è proprio dell'autorità religiosa; e ciò, sia per diritto, giacché sta nella natura di qualsiasi autorità il tenersi fermo il più possibile alla tradizione; sia per fatto, perché sollevata al disopra delle contingenze della vita, poco o nulla sente gli stimoli che spingono a progresso. Per contrario la forza che, rispondendo ai bisogni, trascina a progredire, cova e lavora nelle coscienze individuali, in quelle soprattutto che sono, come dicono, più a contatto della vita. Osservate qui di passaggio, o Venerabili Fratelli, lo spuntar fuori di quella dottrina rovinosissima che introduce il laicato nella Chiesa come fattore di progresso. Da una specie di compromesso fra le due forze di conservazione e di progressione, fra l'autorità cioè e le coscienze individuali, nascono le trasformazioni e i progressi. Le coscienze individuali, o talune di esse, fan pressione sulla coscienza collettiva; e questa a sua volta sull'autorità, e la costringe a capitolare ed a restare ai patti. Ciò ammesso, ben si comprendono le meraviglie che fanno i modernisti, se avvenga che siano biasimati o puniti. Ciò che loro sia scrive a colpa, essi l'hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l'autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l'autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl'indugi, giacché le leggi dell'evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un'incredibile audacia col velo di un'apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l'autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si dànno interpreti della medesima.

    Per detto adunque e per fatto dei modernisti nulla, o Venerabili Fratelli, vi deve essere di stabile, nulla di immutabile nella Chiesa. Nella qual sentenza non mancarono ad essi dei precursori, quelli cioè dei quali il Nostro Predecessore Pio IX già scriveva: "Questi nemici della divina rivelazione, che estollono con altissime lodi l'umano progresso, vorrebbero, con temerario e sacrilego ardimento, introdurlo nella cattolica religione, quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato" (Enc. "Qui pluribus", 9 nov. 1846). Circa la rivelazione specialmente e circa il dogma, la dottrina dei modernisti non ha filo di novità; ma è quella stessa che nel Sillabo di Pio IX ritroviamo condannata, così espressa: "La divina rivelazione è imperfetta e perciò soggetta a continuo ed indefinito progresso, che risponda a quello dell'umana ragione" (Sillabo, Prop. V); più solennemente poi la troviamo riprovata dal Concilio Vaticano in questi termini: "Né la dottrina della fede, che Dio rivelò, è proposta agli umani ingegni da perfezionare come un ritrovato filosofico, ma come un deposito consegnato alla Sposa di Cristo, da custodirsi fedelmente e da dichiararsi infallibilmente. Quindi dei sacri dogmi altresì deve sempre ritenersi quel senso che una volta dichiarò la Santa Madre Chiesa, né mai deve allontanarsi da quel senso sotto pretesto e nome di più alta intelligenza" (Const. Dei Filius, cap. IV). Col che senza dubbio l'esplicazione nelle nostre cognizioni, anche circa la fede, tanto è lungi che venga impedita, che anzi ne è aiutata e promossa. Laonde lo stesso Concilio prosegue dicendo: "Cresca dunque e molto e con slancio progredisca l'intelligenza, la scienza, la sapienza così dei singoli come di tutti, così di un sol uomo come di tutta la Chiesa coll'avanzare delle età e dei secoli; ma solo nel suo genere, cioè nello stesso dogma, nello stesso senso e nella stessa sentenza" (Loc. cit.).

    Ma ormai, dopo aver osservato nei seguaci del modernismo il filosofo, il credente, il teologo, resta che osserviamo parimente lo storico, il critico, l'apologista.

    Taluni dei modernisti, che si dànno a scrivere storia, paiono oltremodo solleciti di non passar per filosofi; che anzi professano di essere affatto ignari di filosofia. È ciò un tratto di finissima astuzia: affinché nessuno creda che essi sieno infetti di pregiudizi filosofici e non sieno perciò, come dicono, affatto obbiettivi. Ma il vero è, che la loro storia o critica non parla che con la lingua della filosofia; e le conseguenze che traggono, vengono di giusto raziocinio dai loro principî filosofici. Il che, a chi bene riflette, si fa subito manifesto. I primi tre canoni di questi tali storici o critici sono quegli stessi principî, che sopra riportammo dai filosofi: cioè l'agnosticismo, il teorema della trasfigurazione delle cose per la fede, e l'altro che Ci parve poter chiamare dello sfiguramento. Osserviamo le conseguenze che da ciascuno di questi si traggono. Dall'agnosticismo si ha che la storia, non meno che la scienza, si occupa solo dei fenomeni. Dunque, tanto Dio quanto un intervento qualsiasi divino nelle cose umane deve rimandarsi alla fede come di esclusiva sua pertinenza. Per lo che se trattasi di cosa in cui s'incontri un duplice elemento, divino ed umano come Cristo, la Chiesa, i Sacramenti e simili, dovrà dividersi e sceverarsi in modo che ciò che è umano si dia alla storia, ciò che è divino alla fede. Quindi quella distinzione comune fra i modernisti, fra un Cristo storico ed un Cristo della fede, una Chiesa della storia ed una Chiesa della fede, fra Sacramenti della storia e Sacramenti della fede e via dicendo. Dipoi questo stesso elemento umano, che vediamolo storico prendersi per sé quale essa si porge nei monumenti, deve ritenersi sollevato dalla fede per trasfigurazione al di là delle condizioni storiche. Conviene perciò separarne di nuovo tutte le aggiunte fattevi: cosi, trattandosi di Gesù Cristo, tutto quello che passa la condizione dell'uomo sia naturale, quale si dà dalla psicologia, sia risultante dal luogo e dal tempo in che visse. Di più, per terzo principio filosofico, pur quelle cose che non escono dalla cerchia della storia, le vagliano quasi e ne escludono, rimandandolo parimenti alla fede, tutto ciò che, secondo quanto dicono, non entra nella logica dei fatti o non era adatto alle persone. Di tal modo, vogliono che Cristo non abbia dette le cose che non sembrano essere alla portata del volgo. Quindi dalla storia reale di Lui cancellano e rimettono alla fede tutte le allegorie che incontransi nei suoi discorsi. Si vuol forse sapere con quali regole si compia questa cernita? Con quella del carattere dell'uomo, della condizione che ebbe nella società, della educazione, delle circostanze di ciascun fatto: a dir breve con una norma, se bene intendiamo, che si risolve per ultimo in mero soggettivismo. Si studiano cioé di prendere essi e quasi rivestire la persona di Gesù Cristo; ed a Lui ascrivono senza più quanto in simili circostanze avrebbero fatto essi stessi. Così dunque, per conchiudere, a priori, come suol dirsi, e coi principî di una filosofia, che essi ammettono ma ci asseriscono d'ignorare, nella storia che chiamano reale affermano Cristo non essere Dio né aver fatto nulla di divino; come uomo poi aver Lui fatto e detto quel tanto, che essi, riferendosi al tempo in cui Egli visse, Gli consentono di aver operato e parlato.

    Come poi la storia riceve dalla filosofia le sue conclusioni, così la critica le ha a sua volta dalla storia. Essendoché il critico seguendo gli indizi dati dallo storico, di tutti i documenti ne fa due parti. Tutto ciò che rimane, dopo il triplice taglio or ora descritto, lo assegna alla storia reale; il restante lo confina alla storia della fede, ossia alla storia interna. Giacché queste due storie distinguono diligentemente i modernisti; e, ciò che e ben da notarsi, alla storia della fede contrappongono la storia reale in quanto è reale. Perciò, come già si è detto, un doppio Cristo; l'uno reale, l'altro che veramente non mai esisté ma appartiene alla fede; l'uno che visse in determinato luogo e tempo, l'altro che solo s'incontra nelle pie meditazioni della fede; tale, per mo' d'esempio, è il Cristo descrittoci nell'Evangelio giovanneo, il qual Vangelo, affermano, non è che una meditazione.

    Ma qui non si arresta il dominio della filosofia nella storia. Fatta, come dicemmo, la divisione dei documenti in due parti, si presenta di nuovo il filosofo col suo principio dell'immanenza vitale, e prescrive che tutto quanto è nella storia della Chiesa debba spiegarsi per vitale emanazione. E poiché la causa o condizione di qualsiasi emanazione vitale deve ripetersi da un bisogno, si avrà che ogni avvenimento si dovrà concepire dopo il bisogno, e dovrà istoricamente ritenersi posteriore a questo. Che fa allora lo storico? Datosi a studiar di nuovo i documenti, tanto nei Libri sacri quanto ricevuti altronde, va tessendo un catalogo dei singoli bisogni che man mano si presentarono nella Chiesa sia per riguardo al dogma, sia per riguardo al culto od altre materie: e quel catalogo trasmette poscia al critico. E questi mette indi mano ai documenti destinati alla storia della fede e li distribuisce in guisa di età in età, che rispondano al datogli elenco; rammentando sempre il precetto che il fatto è preceduto dal bisogno e la narrazione dal fatto. Potrà ben darsi talora che talune parti della Sacra Scrittura, come le Epistole, sieno esse stesse il fatto creato dal bisogno. Checché sia però, deve aversi per regola che l'età di un documento qualsiasi non può determinarsi se non dall'età in cui ciascun bisogno si è manifestato nella Chiesa.

    Di più è da distinguere fra l'inizio di un fatto e la sua esplicazione; poiché ciò che può nascere in un giorno, non cresce se non col tempo. E questa è la ragione perché il critico debba novamente spartire in due i documenti già disposti per età, sceverando quelli che riguardano le origini di un fatto da quelli che appartengono al suo svolgimento, e questi eziandio ordini secondo il succedersi dei tempi.

    Ciò fatto, entra di nuovo in iscena il filosofo, ed impone allo storico di compiere i suoi studi a seconda dei precetti e delle leggi dell'evoluzione. E lo storico torna a scrutare i documenti, ricerca sottilmente le circostanze e condizioni nelle quali, col succedersi dei tempi, la Chiesa si è trovata, i bisogni così interni che esterni che l'hanno spinta a progresso, gli ostacoli che incontrò: a dir breve, tutto ciò che giovi a determinare il modo onde furono mantenute le leggi della evoluzione. Compiuto un tal lavoro, egli finalmente tesse nelle sue linee principali la storia dello sviluppo dei fatti. Segue il critico, che a questo tema storico adatta il restante dei documenti. Si dà mano a stendere la narrazione: la storia è compiuta. Or qui chiediamo, a chi dovrà attribuirsi una simile storia? allo storico forse od al critico? Per fermo né all'uno all'altro, sì bene al filosofo. Tutto il lavoro di essa è un lavoro di apriorismo, e di apriorismo riboccante di eresie. Fanno certamente pietà questi uomini, dei quali l'Apostolo ripeterebbe: "Svanirono nei pensamenti... imperocché vantandosi di essere sapienti, son divenuti stolti" (Rom., I, 21, 22); ma muovono in pari tempo a sdegno, quando poi accusano la Chiesa di manipolare i documenti in guisa da farli servire ai propri vantaggi. Addebitano cioè alla Chiesa ciò che dalla propria coscienza sentono apertamente rimproverarsi.

    Dall'avere così disgregati i documenti e seminatili lungo le età, segue naturalmente che i Libri sacri non possano di fatto attribuirsi agli autori, dei quali portano il nome. E questo è il motivo perché i modernisti non esitano punto nell'affermare che quei libri, e specialmente il Pentateuco ed i tre primi Vangeli, da una breve narrazione primitiva, son venuti man mano crescendo per aggiunte o interpolazioni, sia a maniera di interpretazioni o teologiche o allegoriche, sia a modo di transizioni che unissero fra sé le parti. A dir più breve e più chiaro vogliono che debba ammettersi la evoluzione vitale dei Libri sacri, nata dalla evoluzione della fede e ad essa corrispondente. Aggiungono di più, che le tracce di cotale evoluzione sono tanto manifeste, da potersene quasi scrivere una storia. La scrivono anzi questa storia, e con tanta sicurezza che si sarebbe tentati a creder aver essi visto coi propri occhi i singoli scrittori che di secolo in secolo stesero la mano all'ampliazione delle sante Scritture. A conferma di che, chiamano in aiuto la critica che dicono testuale; e si adoprano di persuadere che questo o quel fatto, questo o quel discorso non si trovi al suo posto e recano altre ragioni del medesimo stampo. Direbbesi per verità che si sieno prestabiliti certi quasi-tipi di narrazioni o parlate, che servano di criterio certissimo per giudicare ciò che stia al suo posto e ciò che sia fuor di luogo. Con siffatto metodo stimi chi può come costoro debbano essere capaci di giudicare. Eppure, chi li ascolti ad oracolare dei loro studi sulle Scritture, pei quali han potuto scoprirvi si gran numero di incongruenze, è spinto a credere che niun uomo prima di loro abbia sfogliato quei libri, né che li abbia ricercati per ogni verso una quasi infinita schiera di Dottori, per ingegno, per scienza, per santità di vita più di loro. I quali Dottori sapientissimi, tanto fu lungi che trovasser nulla da riprendere nei Libri santi, che anzi quanto più ringraziavano Iddio, che si fosse così degnato di parlare cogli uomini. Ma purtroppo i Dottori nostri non attesero allo studio delle Scritture con quei mezzi, onde son forniti i modernisti! Cioè non ebbero a maestra e condottiera una filosofia che trae principio dalla negazione di Dio, né fecero a se stessi norma di giudicare. Crediamo adunque che sia ormai posto in luce il metodo storico dei modernisti. Precede il filosofo; segue lo storico; tengon dietro per ordine la critica interna e la testuale. E poiché la prima causa questo ha di proprio che comunica la sua virtù alle seconde, è evidente che siffatta critica non è una critica qualsiasi, ma una critica agnostica, immanentista, evoluzionista; e perciò chi la professa o ne fa uso, professa gli errori in essa racchiusi e si pone in contraddizione colla dottrina cattolica. Per la quale cosa non può finirsi di stupire come una critica di tal genere possa oggidì aver tanta voga presso cattolici. Di ciò può assegnarsi una doppia causa: la prima è l'alleanza onde gli storici ed i critici di questa specie sono legati fra loro senza riguardi a diversità di nazioni o di credenze; la seconda è l'audacia indicibile, con cui ogni stranezza che uno di loro proferisca, dagli altri è levata al cielo e decantata qual progresso della scienza; con cui, se taluno voglia da se stesso verificare il nuovo ritrovato, serratisi insieme lo assalgono, se talun lo neghi lo trattano da ignorante, se lo accolga e lo difenda lo ricoprono di encomî. Così non pochi restano ingannati che forse, se meglio vedessero le cose, ne sarebbero inorriditi. Da questo prepotente imporsi dei fuorviati, da questo incauto assentimento di animi leggeri nasce poi un quasi corrompimento di atmosfera che tutto penetra e diffonde per tutto il contagio. Ma passiamo all'apologista.

    Costui, nei modernisti, dipende ancor esso doppiamente dal filosofo. Prima indirettamente, pigliando per sua materia la storia scritta, come vedemmo, dietro le norme del filosofo: poi direttamente accettando dal filosofo i principî e i giudizî. Quindi quel comune precetto della scuola del modernismo che la nuova apologia debba dirimere le controversie religiose per via di ricerche storiche e psicologiche. Ond'è che gli apologisti dan capo al loro lavoro coll'ammonire i razionalisti che essi difendono la religione non coi Libri sacri né colle storie volgarmente usate nella Chiesa e scritte alla vecchia moda; ma colla storia reale composta a seconda dei moderni precetti e con metodo moderno. E ciò dicono, non quasi argomentando ad hominem, ma perché difatti credono che solo in tale storia si trovi la verità. Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono o se ne fanno scudo contro le riprensioni della Chiesa. Ma vediamo in pratica come uno di costoro compia la sua apologia. Il fine che si propone è di condurre l'uomo che ancora non crede a provare in sé quella esperienza della cattolica religione che, secondo i modernisti, è base della fede. Due vie perciò gli si aprono, l'una oggettiva, l'altra soggettiva. La prima muove dall'agnosticismo; e tende a dimostrare come nella religione e specialmente nella cattolica vi sia tale virtù vitale, da costringere ogni savio psicologo e storico ad ammettere che nella storia di essa si nasconda alcun che di incognito. A tale scopo fa d'uopo provare che la religione cattolica qual è al presente, è la stessissima che Gesù Cristo fondò, ossia il progressivo sviluppo del germe recato da Gesù Cristo. Pertanto dovrà dapprima determinarsi quale esso sia questo germe. Pretendono di esprimerlo colla seguente formola: Cristo annunciò la venuta del regno di Dio, il quale regno dovrebbe aver fra breve il suo compimento, ed Egli ne sarebbe il Messia, cioè l'esecutore stabilito da Dio e l'ordinatore. Dopo ciò converrà dimostrare come questo germe, sempre immanente nella religione cattolica, di mano in mano e di pari passo con la storia, siasi sviluppato e sia venuto adattandosi alle successive circostanze, da queste vitalmente assimilandosi quanto gli si affacesse di forme dottrinali, culturali, ecclesiastiche; superando nel tempo stesso gli ostacoli, sbaragliando i nemici, e sopravvivendo ad ogni sorta di contraddizioni o dl lotte. Dopo che tutto questo, cioè gl'impedimenti, i nemici, le persecuzioni, i combattimenti, come pure la vitalità e fecondità della Chiesa, siansi mostrati tali che, quantunque nella storia della stessa Chiesa si scorgano serbate le leggi della evoluzione, pure queste non bastano a pienamente spiegarla: l'incognito sarà dl fronte e si presenterà da sé stesso. Fin qui i modernisti. I quali, però, in tutto questo discorrere, non pongon mente a una cosa; e cioè, che quella determinazione del germe primitivo è tutto frutto dell'apriorismo del filosofo agnostico ed evoluzionista, e che il germe stesso è così gratuitamente da loro definito pel buon giuoco della loro causa.

    Mentre però i nuovi apologisti, cogli argomenti arrecati, si studiano di affermare e persuadere la religione cattolica, non han riguardo a concedere che in essa molte cose sono che spiacciono. Che anzi, con una mal velata voluttà, van ripetendo pubblicamente che anche in materia dogmatica ritrovano errori e contraddizioni; benché soggiungano, che tali errori e contraddizioni non solo meritano scusa, ma, ciò che è più strano, sono da legittimarsi e giustificarsi. Così pure, secondo essi, nelle sacre Scritture corrono moltissimi sbagli in materia scientifica e storica. Ma, dicono, non sono quelli, libri di scienza o di storia, sì bene di religione e di morale, ove la scienza e la storia sono involucri con cui si coprono le esperienze religiose e morali per meglio propagarsi nel pubblico; il quale pubblico non intendendo altrimenti, una scienza od una storia più perfetta sarebbegli stata non di vantaggio ma di nocumento. Del resto, aggiungono, i Libri sacri, perché di lor natura religiosi, sono essenzialmente viventi: or la vita ha pur essa la sua verità e la sua logica; diversa certamente dalla verità e logica razionale, anzi di tutt'altro ordine, verità cioè di comparazione e proporzione sia coll'ambiente in cui si vive, sia col fine per cui si vive. Finalmente a tanto estremo essi giungono ad affermare, senza attenuazione di sorta, che tutto ciò che si spiega con la vita è vero e legittimo. Noi, Venerabili Fratelli, pei quali la verità è una ed unica, e che riteniamo i sacri Libri come quelli che "scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno per autore Iddio" (Conc. Vat., De Rev. c. 2), affermiamo ciò essere il medesimo che attribuire a Dio la menzogna di utilità o officiosa; e colle parole di Sant'Agostino protestiamo che: "Ammessa una volta in così altissima autorità qualche bugia officiosa, nessuna particella di quei libri resterà che, sembrando ad alcuno ardua per costume o incredibile per la fede, con la stessa perniciosissima regola, non si riferisca a consiglio o vantaggio dell'autore menzognero" (Epist. 28). Dal che seguirà quel che lo stesso santo Dottore aggiunge: "In esse - cioè nelle Scritture - ciascuno crederà quel che vuole, quel che non vuole non crederà". Ma i modernisti apologeti non si dàn pensiero di tanto. Concedono di più trovarsi talora nei Libri santi dei ragionamenti, per sostenere una qualche dottrina, che non si appoggiano a verun ragionevole fondamento, come son quelli che si basano sulle profezie. Vero è che anche questi menan per buoni come artifizî di predicazione legittimati dalla vita. Che più? Concedono, anzi sostengono, che Gesù Cristo stesso errò manifestamente nell'assegnare il tempo della venuta del regno di Dio: ma ciò, secondo essi, non può fare meraviglia, perché Egli ancora era sottoposto alle leggi della vita! Che sarà dopo ciò dei dogmi della Chiesa? Riboccano pur questi di aperte contraddizioni; ma, oltreché sono ammesse dalla logica della vita, non si oppongono alla verità simbolica; giacché si tratta in essi dell'infinito, che ha infiniti rispetti. A far breve, talmente approvano e difendono siffatte teorie, che non si peritano di dichiarare non potersi rendere all'infinito omaggio più nobile, come affermando di esso cose contraddittorie! Ed ammessa così la contraddizione, quale assurdo non si ammetterà?

    Oltre agli argomenti oggettivi, il non credente può essere disposto alla fede anche con soggettivi. In questo caso gli apologeti modernisti si rifanno sulla dottrina della immanenza. Si adoprano cioè a convincer l'uomo, che in lui stesso e negli intimi recessi della sua natura e della sua vita si cela il desiderio e il bisogno di una religione, né di una religione qualsiasi, ma tale quale è appunto la cattolica; giacché questa, dicono, è postulata onninamente dal perfetto sviluppo della vita. E qui di bel nuovo siam costretti a lamentarCi gravemente che non mancano cattolici i quali, benché rigettino la dottrina dell'immanenza come dottrina, pure se ne giovano per l'apologetica; e ciò fanno con sì poca cautela, da sembrare ammettere nella natura umana non pure una capacità od una convenienza per l'ordine soprannaturale, ciò che gli apologisti cattolici, colle debite restrizioni, dimostraron sempre, ma una stretta e vera esigenza. A dir più giusto però, questa esigenza della religione cattolica è sostenuta dai modernisti più moderati. Quelli fra costoro che potremmo chiamare integralisti, pretendono che si debba indicare all'uomo, che ancor non crede, latente in lui lo stesso germe che fu nella coscienza di Cristo e da Cristo trasmesso agli uomini. Ed eccovi, o Venerabili Fratelli, descritto per sommi capi il metodo apologetico dei modernisti, in tutto conforme alle loro dottrine: metodo e dottrine infarciti di errori, atti non ad edificare, ma a distruggere; non a far dei cattolici, ma a trascinare i cattolici nella eresia, anzi alla distruzione totale d'ogni religione!

    Restano per ultimo a dir poche cose del modernista in quanto la pretende a riformatore. Già le cose esposte finora ci provano abbondantemente da quale smania di innovazione siano rôsi cotesti uomini. E tale smania ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo. Vogliono riformata la filosofia specialmente nei Seminarî: sì che relegata la filosofia scolastica alla storia della filosofia in combutta cogli altri sistemi passati di uso, si insegni ai giovani la filosofia moderna, unica, vera e rispondente ai nostri tempi. A riformare la teologia, vogliono che quella, che diciamo teologia razionale, abbia per fondamento la moderna filosofia. Chiedono inoltre che la teologia positiva si basi principalmente sulla storia dei dogmi. Anche la storia chiedono che si scriva e si insegni con metodi loro e precetti nuovi. Dicono che i dogmi e la loro evoluzione debbano accordarsi colla scienza e la storia. Pel catechismo esigono che nei libri catechistici si inseriscano solo quei dogmi, che sieno stati riformati e che sieno a portata dell'intelligenza del volgo. Circa il culto, gridano che si debbano diminuire le devozioni esterne e proibire che si aumentino. Benché a dir vero, altri più favorevoli al simbolismo, si mostrino in questa parte più indulgenti. Strepitano a gran voce perché il regime ecclesiastico debba essere rinnovato per ogni verso, ma specialmente pel disciplinare e il dogmatico. Perciò pretendono che dentro e fuori si debba accordare colla coscienza moderna, che tutta è volta a democrazia; perché dicono doversi nel governo dar la sua parte al clero inferiore e perfino al laicato, e decentrare, Ci si passi la parola, l'autorità troppo riunita e ristretta nel centro. Le Congregazioni romane si devono svecchiare: e, in capo a tutte, quella del Santo Officio e dell'Indice. Deve cambiarsi l'atteggiamento dell'autorità ecclesiastica nelle questioni politiche e sociali, talché si tenga essa estranea dai civili ordinamenti, ma pur vi si acconci per penetrarli del suo spirito. In fatto di morale, danno voga al principio degli americanisti, che le virtù attive debbano anteporsi alle passive, e di quelle promuovere l'esercizio, con prevalenza su queste. Chiedono che il clero ritorni all'antica umiltà e povertà; ma lo vogliono di mente e di opere consenziente coi precetti del modernismo. Finalmente non mancano coloro che, obbedendo volentierissimo ai cenni dei loro maestri protestanti, desiderano soppresso nel sacerdozio lo stesso sacro celibato. Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa, che non si debba da costoro e secondo i lor principî riformare?

    In tutta questa esposizione della dottrina dei modernisti vi saremo sembrati, o Venerabili Fratelli, prolissi forse oltre il dovere. Ma è stato ciò necessario, sì per non sentirCi accusare, come suole, di ignorare le loro cose, e sì perché si veda che, quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto r modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti.

    E per fermo, rifacciamoci alquanto, o Venerabili Fratelli, a quella esizialissima dottrina dell'agnosticismo. Con essa, dalla parte dell'intelletto, è chiusa all'uomo ogni via per arrivare a Dio, mentre si pretende di aprirla più acconcia per parte di un certo sentimento e dell'azione. Ma chi non iscorge quanto vanamente ciò si affermi? Il sentimento risponde sempre all'azione di un oggetto, che sia proposto dall'intelletto o dal senso. Togliete di mezzo l'intelletto; l'uomo, già portato a seguire il senso, lo seguirà con più impeto. Di più, le fantasie, quali che esse siano, di un sentimento religioso non possono vincere il senso comune: ora questo insegna che ogni perturbazione od occupazione dell'animo non è di aiuto ma d'impedimento alla ricerca del vero; del vero, diciamo, quale è in se; giacché quell'altro vero soggettivo, frutto del sentimento interno e dell'azione, se è acconcio per giocare di parole, poco interessa l'uomo a cui soprattutto importa di conoscere se siavi o no fuori di lui un Dio, nelle cui mani una volta dovrà cadere. Ricorrono, a vero dire, i modernisti per aiuto all'esperienza. Ma che può aggiungere questa al sentimento? Nulla: solo potrà renderlo più intenso: dalla quale intensità sia proporzionatamente resa più ferma la persuasione della verità dell'oggetto. Ma queste due cose non faranno si che il sentimento lasci di essere sentimento, né ne cangiano la natura sempre soggetta ad inganno, se l'intelletto non lo scorga; anzi la confermano e la rinforzano, giacché il sentimento quanto è più intenso tanto a miglior diritto è sentimento. Trattandosi poi qui di sentimento religioso e di esperienza in esso contenuta, sapete bene, o Venerabili Fratelli, di quanta prudenza sia mestieri in siffatta materia e di quanta scienza che regoli la stessa prudenza. Lo sapete dalla pratica delle anime, di talune, in ispecialità, in cui domina il sentimento: lo sapete dalla consuetudine dei trattati di ascetica; i quali, quantunque disprezzati da costoro, contengono più solidità di dottrina e più sagacia di osservazione che non ne vantino i modernisti. A Noi per fermo sembra cosa da stolto o almeno da persona al sommo imprudente, ritener per vere, senza esame di sorta, queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano. Perché allora, lo diciamo qui di passata, perché, se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l'avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato? Sola questa esperienza sarebbe falsa e ingannevole? La massima parte degli uomini ritiene fermamente e sempre riterrà che col solo sentimento e colla sola esperienza senza guida e lume dell'intelletto, mai non si potrà giungere alla conoscenza di Dio. Dunque resta di nuovo o l'ateismo o l'irreligione assoluta. Né i modernisti hanno nulla a sperar di meglio dalla loro dottrina del simbolismo. Imperciocché se tutti gli elementi che dicono intellettuali non sono che puri simboli di Dio, perché non sarà un simbolo il nome stesso di Dio o di personalità divina? E se è cosi, si potrà bene dubitare della stessa divina personalità, ed avremo aperta la via al panteismo. E qua similmente, cioè al puro panteismo, mena l'altra dottrina dell'immanenza divina. Giacché domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Iddio dall'uomo? Se lo distingue, in che differisce adunque cotal dottrina dalla cattolica? o perché mai rigetta quella della esterna rivelazione? Se poi non lo distingue, eccoci di bel nuovo col panteismo. Ma difatto l'immanenza dei modernisti vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall'uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza inferiamo che Dio e l'uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo. Finalmente pari è la conseguenza che si trae dalla loro decantata distinzione fra la scienza e la fede. L'oggetto della scienza lo pongono essi nella realtà del conoscibile; quel lo della fede nella realtà dell'inconoscibile. Orbene l'inconoscibile è tale per la totale mancanza di proporzione fra l'oggetto e la mente. Ma questa mancanza di proporzione, secondo gli stessi modernisti, non potrà mai esser tolta. Dunque l'inconoscibile resterà sempre inconoscibile tanto pel credente quanto pel filosofo. Dunque se si avrà una religione, questa sarà della realtà dell'inconoscibile. La quale realtà perché poi non possa essere l'anima uni versale del mondo, come l'ammettono taluni razionalisti, noi nol vediamo. Ma basti sin qui per conoscere per quante vie la dottrina del modernismo conduca all'ateismo e alla distruzione di ogni religione. L'errore dei protestanti dié il primo passo in questo sentiero; il secondo è del modernismo: a breve distanza dovrà seguire l'ateismo.

    A più intimamente conoscere il modernismo e a trovare più acconci rimedi a sì grave malore, gioverà ora, o Venerabili Fratelli, ricercare alquanto le cause, onde esso è nato ed è venuto crescendo. Non ha dubbio che la prima causa ed immediata sta nell'aberrazione dell'intelletto. Quali cause remote due Noi ne riconosciamo: la curiosità e la superbia. La curiosità, se non saggiamente frenata, basta di per sé sola a spiegare ogni fatta di errori. Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell'umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l'avviso dell'Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova". Ma ad accecare l'animo e trascinarlo nell'errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audace mente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini"; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l'autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia. Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentichi il precetto della vita cristiana che c'impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradichi dal suo cuore la mala pianta della superbia; sì costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo! Per lo che, o Venerabili Fratelli, sia questo il primo vostro dovere di resistenza a questi uomini superbi, occuparli negli uffici più umili ed oscuri, affinché sieno tanto più depressi quanto più essi s'inalberano, e, posti in basso, abbiano minor campo di nuocere. Inoltre, sia da voi stessi, sia per mezzo dei rettori dei Seminari, cercate con somma diligenza di conoscere i giovani che aspirano ad entrare nel clero; e se alcuno ne troviate di carattere superbo, con ogni risolutezza respingetelo dal sacerdozio. Si fosse cosi operato sempre, colla vigilanza e fortezza che faceva di mestieri!

    Che se dalle cause morali veniamo a quelle che spettano all'intelletto, la prima da notarsi è l'ignoranza. I modernisti, quanti essi sono, che vogliono apparire e farla da dottori nella Chiesa, esaltando a grandi voci la filosofia moderna e schernendo la scolastica, se hanno abbracciata la prima ingannati dai suoi orpelli, ne devono saper grado alla totale ignoranza in che erano della seconda, e dal mancare perciò di mezzo per riconoscere la confusione delle idee e ribattere i sofismi. Dal connubio poi della falsa filosofia colla fede è sorto il loro sistema, riboccante di tanti e si enormi errori.

    Alla propagazione del quale portassero almeno un minor zelo ed ardore di quel che fanno! Tanta invece è la loro alacrità, cosi indefesso il lavoro, che da strazio il vedere consumate tante forze a danno della Chiesa, le quali, rettamente usate, le sarebbero di vantaggio grandissimo. A trarre poi in inganno gli animi una doppia tattica essi usano: prima si sbarazzano degli ostacoli, poi cercano con somma cura i mezzi che loro giovino, ed instancabili e pazientissimi li mettono in opera. Degli ostacoli, tre sono i principali che più sentono opposti ai loro conati: il metodo scolastico di ragionare, l'autorità dei Padri con la tradizione, il magistero ecclesiastico. Contro tutto questo la loro lotta è accanita. Deridono perciò continuamente e disprezzano la filosofia e la teologia scolastica. Sia che ciò facciano per ignoranza, sia che il facciano per timore o meglio per l'una cosa insieme e per l'altra; certo si è che la smania di novità va sempre in essi congiunta coll'odio della Scolastica; né vi ha indizio più manifesto che taluno cominci a volgere al modernismo, che quando incominci ad aborrire la Scolastica. Ricordino i modernisti e quanti li favoriscono la condanna che Pio IX inflisse alla proposizione che diceva (Sillabo, Prop. 12): "Il metodo ed i principî, con cui gli antichi Dottori scolastici trattarono la teologia, più non si confanno ai bisogni dei nostri tempi ed ai progressi della scienza". Sono poi astutissimi nello stravolgere la natura e l'efficacia della Tradizione, alfin di privarla di ogni peso e di ogni autorità. Ma starà sempre per i cattolici l'autorità del secondo Sinodo Niceno, il quale condannò "coloro che osano... secondo gli scellerati eretici, disprezzare le ecclesiastiche tradizioni ed escogitare qualsiasi novità o architettare con malizia ed astuzia di abbattere checché sia delle legittime tradizioni della Chiesa cattolica". Starà sempre la professione del quarto Sinodo Costantinopolitano: "Noi dunque professiamo di serbare e custodire le regole, che tanto dai santi famosissimi Apostoli, quanto dagli uni versali e locali Concili degli ortodossi o anche da qualunque deiloquo Padre e Maestro della Chiesa, furono date alla santa cattolica ed apostolica Chiesa". Per lo che i Romani Pontefici Pio IV e Pio IX nella professione di fede vollero aggiunto anche questo: "Io ammetto fermissimamente ed abbraccio le apostoliche ed ecclesiastiche tradizioni, e tutte le altre osservanze e costituzioni del la medesima Chiesa". Né altrimenti che della Tradizione giudicano i modernisti dei santissimi Padri della Chiesa. Con estrema temerità li spacciano, come degnissimi bensì di ogni venerazione, ma ignorantissimi di critica e di storia, scusabili solo pei tempi in che vissero. Si studiano infine e si sforzano di attenuare e svilire l'autorità dello stesso Magistero ecclesiastico, sia pervertendo ne sacrilegamente l'origine, la natura, i diritti, sia ricantando liberamente contro di essa le calunnie dei nemici. Del gregge dei modernisti sembra detto ciò che con tanto dolore scriveva il Predecessore Nostro (Motu proprio "Ut mysticam", 14 marzo 1891): "Per rendere spregiata ed odiosa la mistica Sposa di Cristo, che è la luce vera, i figli delle tenebre furon soliti di opprimerla pubblicamente di una pazza calunnia, e, stravolto il significato e la forza delle cose e delle parole, chiamarla amica di oscurità, mentitrice d'ignoranza, nemica della luce e del progresso delle scienze". Dopo ciò, Venerabili Fratelli, qual meraviglia se i cattolici, strenui difensori della Chiesa, son fatti segno dai modernisti di somma malevolenza e di livore? Non vi è specie d'ingiurie con cui non li la cerino: l'accusa più usuale è quella di chiamarli ignoranti ed ostinati. Che se la dottrina e l'efficacia di chi li confuta dà loro timore, ne incidono i nervi colla congiura del silenzio. E questa maniera di fare a riguardo dei cattolici è tanto più odiosa perché nel medesimo tempo e senza modo né misura, con continue lodi esaltano chi sta dalla loro; i libri di costoro riboccanti di novità accolgono ed ammirano con grandi applausi; quanto più alcuno si mostra audace nel distruggere l'antico, nel rigettare la tradizione e il magistero ecclesiastico, tanto più gli dàn vanto di sapiente; e per ultimo, ciò che fa inorridire ogni anima retta, se qualcuno sia condannato dalla Chiesa non solo pubblicamente e profusamente lo encomiano, ma quasi lo venerano come martire della verità.

    Parte III

    [...] Da tutto questo strepito di lodi e d'improperi colpiti e turbati gli animi giovanili, da una parte per non passare per ignoranti, dall'altra per parere sapienti spinti internamente dalla curiosità e dalla superbia, si dànno per vinti e passano al modernismo.

    Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici. Uno stesso e solo scrittore fa uso talora di molti nomi, perché gli incauti sieno tratti in inganno dalla simulata moltitudine degli autori. Insomma coll'azione, colla parola, colla stampa tutto tentano, da sembrar quasi colti da frenesia. E tutto ciò con qual esito? Piangiamo pur troppo gran numero di giovani di speranze egregie e che ottimi servigi renderebbero alla Chiesa, usci ti fuori dal retto cammino. Piangiamo moltissimi, che, sebbene non giunti tant'oltre, pure, respirata un'aria corrotta, sogliono pensare, parlare, scrivere più liberamente che non si convenga a cattolici. Si contano costoro fra i laici, si contano fra i sacerdoti; e chi lo crederebbe? si contano altresì nelle stesse famiglie dei Religiosi. Trattano la Scrittura secondo le leggi dei modernisti. Scrivono storia e sotto specie di dir tutta la verità, tutto ciò che sembri gettare ombra sulla Chiesa lo pongono diligentissimamente in luce con voluttà mal repressa. Le pie tradizioni popolari, seguendo un certo apriorismo, cercano a tutta possa di cancellare. Ostentano disprezzo per sacre Reliquie raccomandate dalla loro vetustà. Insomma li punge la vana bramosia che il mondo parli di loro; il che si persuadono che non sarà, se dicono soltanto quello che sempre e da tutti fu detto. Intanto si dànno forse a credere di prestare ossequio a Dio ed alla Chiesa; ma in realtà gravissimamente li offendono, non tanto per quel che fanno, quanto per l'intenzione con cui operano e per l'aiuto che prestano utilissimo agli ardimenti dei modernisti.

    A questo torrente di gravissimi errori, che di celato e alla scoperta va guadagnando, si adoperò con detti e con fatti di opporsi fortemente Leone XIII Predecessore Nostro di felice ricordanza, specialmente a riguardo delle sante Scritture. Ma i modernisti, lo vedemmo, non si lasciano spaventare facilmente: affettando il maggior rispetto ed una somma umiltà, stravolsero a loro senso le parole del Pontefice, e gli atti di Lui li fecero passare come diretti ad altri. Cosi il male è venuto pigliando forza ogni giorno più. Abbiam dunque deciso, o Venerabili Fratelli, di non tergiversare più oltre e di por mano a misure più energiche. Preghiamo perciò e scongiuriamo voi che, in negozio di tanto rilievo, non Ci lasciate minimamente desiderare la vostra vigilanza e diligenza e fortezza. E quel che chiediamo ed aspettiamo da voi, lo chiediamo altresì e lo aspettiamo dagli altri pastori delle anime, dagli educatori e maestri del giovine clero, e specialmente dai Superiori generali degli Ordini religiosi.

    I.

    La prima cosa adunque, per ciò che spetta agli studi, vogliamo e decisamente ordiniamo che a fondamento degli studi sacri si ponga la filosofia scolastica. Bene inteso che, "se dai Dottori scolastici furono agitate questioni troppo sottili o fu alcun che trattato con poca considerazione; se fu detta cosa che mal si affaccia con dottrine accertate dei secoli seguenti, ovvero in qualsivoglia modo non ammissibile; non è nostra intenzione che tutto ciò debba servir d'esempio da imitare anche ai di nostri" (Leone XIII, Enc. "Æterni Patris".

    Ciò che conta anzi tutto è che la filosofia scolastica, che Noi ordiniamo di seguire, si debba precipuamente intendere quella di San Tommaso di Aquino: intorno alla quale tutto ciò che il Nostro Predecessore stabilì, intendiamo che rimanga in pieno vigore, e se è bisogno, lo rinnoviamo e confermiamo e severamente ordiniamo che sia da tutti osservato. Se nei Seminari si sia ciò trascurato, toccherà ai Vescovi insistere ed esigere che in avvenire si osservi. Lo stesso comandiamo ai Superiori degli Ordini religiosi. Ammoniamo poi quelli che insegnano, di ben persuadersi, che il discostarsi dall'Aquinate, specialmente in cose metafisiche, non avviene senza grave danno.

    Posto così il fondamento della filosofia, si innalzi con somma diligenza l'edificio teologico. Venerabili Fratelli, promovete con ogni industria possibile lo studio della teologia, talché i chierici, uscendo dai Seminari, ne portino seco un'alta stima ed un grande amore e l'abbiano sempre carissimo. Imperocché "nella grande e molteplice copia di discipline che si porgono alla mente cupida di verità, a tutti è noto che alla sacra Teologia appartiene talmente il primo luogo, che fu antico detto dei sapienti essere dovere delle altre scienze ed arti di servirla e prestarle mano siccome ancelle" (Leone XIII, Lett. Ap. "In magna", 10 dicembre 1889). Aggiungiamo qui, sembrarCi altresì degni di lode coloro, che, salvo il rispetto alla Tradizione, ai Padri, al Magistero ecclesiastico, con saggio criterio e con norme cattoliche (ciò che non sempre da tutti si osserva) cercano di illustrare la teologia positiva, attingendo lume dalla storia di vero nome. Certamente che alla teologia positiva deve ora darsi più larga parte che pel passato: ciò nondimeno deve farsi in guisa, che nulla ne venga a perdere la teologia scolastica, e si disapprovino quali fautori del modernismo coloro che tanto innalzino la teologia positiva da sembrar quasi spregiare la Scolastica.

    In quanto alle discipline profane basti richiamare quel che il Nostro Predecessore disse con molta sapienza (Allocuz. 7 marzo 1580): "Adoperatevi strenuamente nello studio delle cose naturali: nel qual genere gl'ingegnosi ritrovati e gli utili ardimenti dei nostri tempi, come di ragione sono ammirati dai presenti, cosi dai posteri avranno perpetua lode ed encomio". Questo però senza danno degli studi sacri: il che ammoniva lo stesso Nostro Predecessore con queste altre gravissime parole (Loc. cit.): "La causa di siffatti errori, chi la ricerchi diligentemente, sta principalmente in ciò che di questi nostri tempi, quanto più fervono gli studi delle scienze naturali, tanto più son venute meno le discipline più severe e più alte: alcune di queste infatti sono quasi poste in dimenticanza; alcune sono trattate stancamente e con leggerezza, e, ciò che è indegno, perduto lo splendore della primitiva dignità, sono deturpate da prave sentenze e da enormi errori". Con questa legge ordiniamo che si regolino nei Seminari gli studi delle scienze naturali.

    II.

    A questi ordinamenti tanto Nostri che del Nostro Antecessore fa mestieri volgere l'attenzione ognora che si tratti di scegliere i moderatori e maestri così dei Seminari come delle Università cattoliche. Chiunque in alcun modo sia infetto di modernismo, senza riguardi di sorta si tenga lontano dall'ufficio cosi di reggere e cosi d'insegnare: se già si trovi con tale incarico, ne sia rimosso. Parimente si faccia con chiunque o in segreto o apertamente favorisce il modernismo, sia lodando modernisti, sia attenuando la loro colpa, sia criticando la Scolastica, i Padri, il Magistero ecclesiastico, sia ricusando obbedienza alla potestà ecclesiastica, da qualunque persona essa si eserciti; e similmente con chi in materia storica, archeologica e biblica si mostri amante di novità; e finalmente, con quelli altresì che non si curano degli studi sacri o paiono a questi anteporre i profani. In questa parte, o Venerabili Fratelli, e specialmente nella scelta dei maestri, non sarà mai eccessiva la vostra attenzione e fermezza; essendoché sull'esempio dei maestri si formano per lo più i discepoli. Poggiati adunque sul dovere di coscienza, procedete in questa materia con prudenza sì ma con fortezza.

    Con non minore vigilanza e severità dovrete esaminare e scegliere chi debba essere ammesso al sacerdozio. Lungi, lungi dal clero l'amore di novità: Dio non vede di buon occhio gli animi superbi e contumaci! A niuno in avvenire si conceda la laurea dì teologia o di diritto canonico, che non abbia prima compito per intero il corso stabilito di filosofia scolastica. Se tale laurea ciò non ostante venisse concessa, sia nulla. Le ordinazioni che la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò nell'anno 1896 pei chierici d'Italia dell'uno e dell'altro clero circa il frequentare le Università, stabiliamo che d'ora innanzi rimangano estese a tutte le nazioni. I chierici e sacerdoti iscritti ad un Istituto o ad una Università cattolica non potranno seguire nelle Università civili quei corsi, di cui vi siano cattedre negli Istituti cattolici ai quali essi appartengono. Se in alcun luogo si è ciò permesso per il passato, ordiniamo che più non si conceda nell'avvenire. I Vescovi che formano il Consiglio direttivo di siffatti cattolici Istituti o cattoliche Università veglino con ogni cura perché questi Nostri comandi vi si osservino costantemente.

    III.

    È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano. Né altrimenti si dovrà giudicare degli scritti di taluni cattolici, uomini del resto di non malvagie intenzioni, ma che digiuni di studi teologici e imbevuti di filosofia moderna, cercano di accordare questa con la fede e di farla servire, come essi dicono, ai vantaggi della fede stessa. Il nome e la buona fama degli autori fa si che tali libri sieno letti senza verun timore e sono quindi più pericolosi per trarre a poco a poco al modernismo.

    Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne. Benché questa Sede Apostolica ponga ogni opera nel togliere di mezzo siffatti scritti, tanto oggimai ne è cresciuto il numero, che a condannarli tutti non bastano le forze. Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica "Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s'impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l'uno o l'altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l'autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l'Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l'autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. Aggiungasi che, come non ogni cibo si confà a tutti egual mente, cosi un libro che in un luogo sarà indifferente, in un altro, per le circostanze, può tornare nocivo. Se pertanto il Vescovo, udito il parere di persone prudenti, stimerà di dover condannare nella sua diocesi anche qualcuno di siffatti libri, gliene diamo ampia facoltà, anzi glielo rechiamo a dovere. Intendiamo bensì che si serbino in tal fatto i riguardi convenienti, bastando forse che la proibizione si restringa talora soltanto al clero; ma eziandio in tal caso sarà obbligo dei librai cattolici di non porre in vendita i libri condannati dal Vescovo. E poiché Ci cade il discorso, vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; similmente e con più ragione, se avranno quello di vescovili; che se avessero titolo di pontifici, si deferiscano alla Sede Apostolica. A tutti finalmente ricordiamo l'articolo XXVI della mentovata Costituzione Apostolica "Officiorum": "Tutti coloro che abbiano ottenuta facoltà apostolica di leggere e ritenere libri proibiti, non sono perciò autorizzati a leggere libri o giornali proscritti dagli Ordinari locali, se pure nell'indulto apostolico non sia data espressa facoltà di leggere e ritenere libri condannati da chicchessia".

    IV.

    Ma non basta impedire la lettura o la vendita dei libri cattivi; fa d'uopo impedirne altresì la stampa. Quindi i Vescovi non concedano la facoltà di stampa se non con la massima severità. E poiché è grande il numero delle pubblicazioni, che, a seconda della Costituzione "Officiorum", esigono l'autorizzazione dell'Ordinario, in talune diocesi si sogliono determinare in numero conveniente censori di officio per l'esame degli scritti. Somma lode noi diamo a siffatta istituzione di censura; e non solo esortiamo, ma ordiniamo che si estenda a tutte le diocesi. In tutte adunque le Curie episcopali si stabiliscano Censori per la revisione degli scritti da pubblicarsi; si scelgano questi dall'uno e dall'altro clero, uomini di età, di scienza e di prudenza e che nel giudicare sappiano tenere il giusto mezzo. Spetterà ad essi l'esame di tutto quello che, secondo gli articoli XLI e XLII della detta Costituzione, ha bisogno di permesso per essere pubblicato. Il Censore darà per iscritto la sua sentenza. Se sarà favorevole, il Vescovo concederà la facoltà di stampa colla parola Imprimatur, la quale però sarà preceduta dal Nihil obstat e dal nome del Censore. Anche nella Curia romana non altrimenti che nelle altre, si stabiliranno censori di ufficio. L'elezione dei medesimi, dopo interpellato il Cardinale Vicario e coll'annuenza ed approvazione dello stesso Sommo Pontefice, spetterà al Maestro del sacro Palazzo Apostolico. A questo pure toccherà determinare per ogni singolo scritto il Censore che lo esamini. La facoltà di stampa sarà concessa dallo stesso Maestro ed insieme dal Cardinale Vicario o dal suo Vicegerente, premesso però, come sopra si disse, il Nulla osta col nome del Censore. Solo in circo stanze straordinarie e rarissimamente si potrà, a prudente arbitrio del Vescovo, omettere la menzione del Censore. Agli autori non si farà mai conoscere il nome del Censore, prima che questi abbia dato giudizio favorevole: affinché il Censore stesso non abbia a patir molestia o mentre esamina lo scritto o in caso che ne disapprovi la stampa. Mai non si sceglieranno Censori dagli Ordini religiosi, senza prima averne secretamente il parere del Superiore provinciale, o, se si tratta di Roma, del Generale: questi poi dovranno secondo coscienza attestare dei costumi, della scienza e della integrità della dottrina dell'eligendo. Ammoniamo i Superiori religiosi del gravissimo dovere che essi hanno di mai non permettere che alcun che si pubblici dai loro sudditi senza la previa facoltà loro e dell'Ordinario diocesano. Per ultimo affermiamo e dichiariamo che il titolo di Censore, di cui taluno sia insignito, non ha verun valore né mai si potrà arrecare come argomento per dar credito alle private opinioni del medesimo.

    Detto ciò generalmente, nominatamente ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice. I giornali e periodici pubblicati dai cattolici abbiano, per quanto sia possibile, un Censore determinato. Sara obbligo di questo leggere opportunamente i singoli fogli o fascicoli, dopo già pubblicati: se cosa alcuna troverà di pericoloso, ordinerà che sia corretto quanto prima. Lo stesso diritto avrà il Vescovo, anche in caso che il Censore non abbia reclamato.

    V.

    Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo. A tali convegni, che dovranno solo permettersi volta per volta e per iscritto o in tempo opportuno, non potrà intervenire sacerdote alcuno di altra diocesi, se non porti commendatizie del proprio Vescovo. A tutti i sacerdoti poi non passi mai di mente ciò che Leone XIII raccomandava con parole gravissime (Lett. Enc. "Nobilissima Gallorum", 10 febbraio 1884): "Sia intangibile presso i sacerdoti l'autorità dei propri Vescovi; si persuadano che il ministero sacerdotale, se non si eserciti sotto la direzione del Vescovo, non sarà né santo, né molto utile, né rispettabile".

    VI.

    Ma che gioveranno, o Venerabili Fratelli, i Nostri comandi e le Nostre prescrizioni, se non si osservino a dovere e con fermezza? Perché questo si ottenga, Ci è parso espediente estendere a tutte le diocesi ciò che i Vescovi dell'Umbria (Atti del Congr. dei Vescovi dell'Umbria, nov. 1849, tit. II, art. 6), molti anni or sono, con savissimo consiglio stabilirono per le loro: "Ad estirpare - così essi - gli errori già diffusi e ad impedire che più oltre si diffondano o che esistano tuttavia maestri di empietà, pei quali si perpetuino i perniciosi effetti originati da tale diffusione, il sacro Congresso, seguendo gli esempi di San Carlo Borromeo, stabilisce che in ogni diocesi si istituisca un Consiglio di uomini commendevoli dei due cleri, a cui spetti il vigilare se e con quali arti i nuovi errori si dilatino o si propaghino, e farne avvertito il Vescovo perché di concorde avviso prenda rimedi con cui il male si estingua fin dal principio e non si spanda di vantaggio a rovina delle anime, e, ciò che è peggio, si afforzi e cresca". Stabiliamo adunque che un siffatto Consiglio, che si chiamerà di vigilanza, si istituisca quanto prima in tutte le diocesi. I membri di esso si sceglieranno colle stesse norme già prescritte pei Censori dei libri. Ogni due mesi, in un giorno determinato, si raccoglierà in presenza del Vescovo: le cose trattate o stabilite saranno sottoposte a legge di secreto. I doveri degli appartenenti al Consiglio saranno i seguenti: Scrutino con attenzione gl'indizi di modernismo tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d'uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell'anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana". Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre. Non trascurino i libri nei quali si tratti o delle pie tradizioni di ciascun luogo o delle sacre Reliquie. Non per mettano che tali questioni si agitino nei giornali o in periodici destinati a fomentare la pietà, né con espressioni che sappiano di ludibrio o di disprezzo né con affermazioni risolute specialmente, come il più delle volte accade, quando ciò che si afferma o non passa i termini della probabilità o si basa su pregiudicate opinioni. Circa le sacre Reliquie si abbiano queste norme. Se i Ve scovi i quali sono soli giudici in questa materia, conoscano con certezza che una reliquia sia falsa, la toglieranno senz'altro dal culto dei fedeli... Se le autentiche di una Reliquia qualsiasi, o pei civili rivolgimenti o in altra guisa siensi smarrite, non si esponga alla pubblica venerazione, se prima il Vescovo non ne abbia fatta ricognizione. L'argomento di prescrizione o di fondata presunzione allora solo avrà valore quando il culto sia commendevole per antichità: il che risponde al decreto emanato nel 1896 dalla Congregazione delle Indulgenze e sacre Reliquie, in questi termini: "Le Reliquie antiche sono da conservarsi nella venerazione che finora ebbero, se pure in casi particolari non si abbiano argomenti certi che sono false o supposte". Nel portar poi giudizio delle pie tradizioni si tenga sempre presente, che la Chiesa in questa materia fa uso di tanta prudenza, da non permettere che tali tradizioni si raccontino nei libri, se non con grandi cautele e premessa la dichiarazione prescritta da Urbano VIII: il che pure adempiuto, non perciò ammette la verità del fatto, ma solo non proibisce che si creda, ove a farlo non manchino argomenti umani. Così appunto la sacra Congregazione dei Riti dichiarava fin da trent'anni addietro (Decreto 2 maggio 1877): "Siffatte apparizioni o rivelazioni non furono né approvate né condannate dalla Sede Apostolica, ma solo passate come da piamente credersi con sola fede umana, conforme alla tradizione di cui godono, confermata pure da idonei testimoni e documenti". Niun timore può ammettere chi a questa regola si tenga. Imperocché il culto di qualsivoglia apparizione, in quanto riguarda il fatto stesso e dicesi relativo, ha sempre implicita la condizione della verità del fatto: in quanto poi è assoluto, si fonda sempre nella verità, giacché si dirige alle persone stesse dei santi che si onorano. Lo stesso vale delle Reliquie. Commettiamo infine al Consiglio di vigilanza, di tener d'occhio assiduamente e diligentemente gl'istituti sociali come pure gli scritti di questioni sociali affinché nulla vi si celi di modernismo, ma ottemperino alle prescrizioni dei Romani Pontefici.

    VII.

    Le cose fin qui stabilite affinché non vadano in dimenticanza, vogliamo ed ordiniamo che i Vescovi di ciascuna diocesi, trascorso un anno dalla pubblicazione delle presenti Lettere, e poscia ogni triennio, con diligente e giurata esposizione riferiscano alla Sede Apostolica intorno a quanto si prescrive in esse, e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero e soprattutto nei Seminari ed altri istituti cattolici, non eccettuati quelli che pur sono esenti dall'autorità dell'Ordinario. Lo stesso imponiamo ai Superiori generali degli Ordini religiosi a riguardo dei loro dipendenti.

    Queste cose, o Venerabili Fratelli, abbiam creduto di scrivervi per salute di ogni credente. I nemici della Chiesa certamente ne abuseranno per ribadire la vecchia accusa, per cui siamo fatti passare come avversi alla scienza ed al progresso della civiltà. A tali accuse, che trovano smentita in ogni pagina della storia della Chiesa, alfine di opporre alcun che di nuovo, è Nostro consiglio di accordare ogni favore e protezione ad un nuovo Istituto, da cui, coll'aiuto di quanti fra i cattolici sono più insigni per fama di sapienza, ogni fatta di scienza e di erudizione, sotto la guida ed il magistero della cattolica verità, sia promossa. Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s'infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll'intercessione e coll'aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie.

    E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l'Apostolica Benedizione.

    Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 Settembre 1907, nell'anno V del Nostro Pontificato.

    PIO PP. X

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    Predefinito Un interessante saggio per i 100 anni della Pascendi

    La "Pascendi" di San Pio X. L'enciclica che condannò il Modernismo

    di don Ugo Carandino


    "L'antico parroco di campagna, nella sua imperizia facile preda dei raggiri gesuitici, ha manifestato fin da principio la volontà risoluta di calpestare ogni prete reo di volere il progresso della spiritualità del cattolicesimo". 1

    "...Ha aperto l'era delle discordie atroci fra noi e ha lasciato che tutti i lanzichenecchi della pretesa ortodossia, come cani in una partita di caccia, si mettessero sulle orme del cosiddetto modernismo e gettassero i latrati dei loro insulti volgari e dei loro colpi velenosi contro quanti cercano di compiere nella Chiesa opera di illuminazione e di rinnovamento". 2

    "...Questo modesto patriarca della laguna, balzato, come in un brutto sogno estivo, sulla sede che occuparono un dì Gregorio VII e Innocenzo III". 3

    "...Tutta la grettezza d'animo degli infimi strati sociali (...) tutta la ignoranza della più vecchia generazione clericale, cresciuta e alimentata fra gli anatemi al movimento di modernità; tutto l'astio degli incolti contro gli uomini della scienza; tutto il disprezzo incolto di chi non sa, per lo sviluppo e la ricchezza dell'intelligenza; dominano nell'animo di questo buon parroco di campagna, strappato da un singolare colpo di fortuna alle occupazioni piccine e alle conversazioni, innaffiate di un buon vino e di facili barzellette, della solitaria canonica, e portato a reggere il governo della più grande organizzazione religiosa".4

    "...Dicono che Pio X abbia un cuore d'oro, e che alle deficienze insanabili del suo intelletto, supplisca la tenerezza del sentimento ... posso dire che questa è una pietosa menzogna...Anche l'uomo più egoista può a volte, elargire briciole cadute dal banchetto del suo benessere, senza per questo dar prova di una bontà iniziale di animo". 5

    "L'ex-patriarca di Venezia, salito al pontificato, lanciò il motto di un grandioso programma: Instaurare omnia in Christo. Ma, poverissimo di idee, tardo nei propositi, fiacco e incoerente nell'azione, la sua magna instauratio si è ridotta a ordinare quella visita apostolica che ha gettato lo scompiglio nelle diocesi italiane, e quelle riforme amministrative delle congregazioni romane, a beneficio del bilancio economico del Vaticano". 6

    "...Se tu sapessi qual solco di disgusto, di malessere, di risentimento hanno scavato nell'animo del giovane clero e del giovane laicato cattolico le condanne di Pio X". 7

    Queste frasi così calunniose nei confronti di San Pio X, scritte da Enrico Buonaiuti, uno dei capifila del Modernismo italiano, rispecchiano lo stato d'animo dei modernisti nei confronti del Pontefice. Per comprendere questo odio dobbiamo fare un passo in dietro, tratteggiando, seppur brevemente, le origini del Modernismo e il ruolo assunto da San Pio X per combatterne la propagazione nella Chiesa.

    LE ORIGINI DEL MODERNISMO

    Di fronte alle spinte rivoluzionarie del "cattolicesimo liberale", che pretendeva riformare la Chiesa a partire da una sintesi tra la dottrina cattolica e il pensiero moderno, Leone XIII il 4 agosto 1879 pubblicò l'enciclica Aeternis Patris, 8 esortando "a rimettere in uso la sacra dottrina di San Tommaso", che avrebbe dovuto ritornare a essere la base di ogni insegnamento filosofico, per evitare quei sistemi filosofici "che in alcuni paesi hanno contaminato la mente degli stessi filosofi cattolici". Leone XIII infatti aveva individuato nel tomismo il freno alle tendenze più pericolose: sulla scia del documento (che provocò critiche accese soprattutto in Germania e in Francia) si formò il cosiddetto "neotomismo".

    Malgrado l'enciclica, la critica protestante e razionalista, il pensiero fenomenologico e kantiano, continuarono a diffondersi tra i ranghi cattolici, attraverso il clero liberale che aveva un concetto distorto di quello che avrebbe dovuto rappresentare il neotomismo; divennero così focolai di insegnamento distorto le facoltà teologiche di Strasburgo, Monaco, Tubinga, l'Università di Lovanio con monsignor Mercier (che si prefiggeva "di ripensare i problemi e le soluzioni tomiste alla luce delle preoccupazioni moderne") 9, l'Istituto Cattolico di Parigi, dove insegnavano Duschesne e Loisy sotto la direzione di D'Hulst ("sostenitore, al pari di Mercier, di un tomismo decisamente progressista, che doveva armonizzarsi con le scienze sperimentali e porsi in costante confronto con la filosofia moderna" ). 10

    Furono evidentemente le Università e i Seminari romani le roccaforti dell'ortodossia, attraverso della grandi figure come il gesuita Louis Billot (1846-1931), professore all'Università Gregoriana, creato poi cardinale da S. Pio X per i suoi meriti contro il Modernismo; il padre Pio de Mandato, tenace avversario del protestantesimo quando questi dilagò a Roma in seguito all'occupazione del 1870; il cardinale Camillo Mazzella (1833-1900), dapprima professore alla Gregoriana e poi prefetto della Congregazione degli Studi. Quest'ultimo di distinse per la dura critica a Mercier e all'impostazione filosofica da lui data all'Università di Lovanio.

    L'adesione sempre più incondizionata alla filosofia moderna, col parallelo disprezzo della teologia tradizionale, da parte di intellettuali cattolici liberali, portarono alla nascita del Modernismo. Scriveva Arnaldo Cervasato, nell'introduzione al libro del modernista irlandese George Tyrrell (1861-1909), Il Papa e il modernismo: "modernismo significa insistenza sulla modernità come principio, vale a dire il riconoscimento, da parte della religione, dei diritti del pensiero moderno, del bisogno di una sintesi non indistintamente tra il vecchio e il nuovo, ma fra quello che mediante l'analisi critica è giudicato buono nel vecchio [pressoché nulla, n.d.r.] e nel nuovo [pressoché tutto, n.d.r.]". 11

    Evidentemente la Chiesa non poteva rimanere indifferente davanti a queste persone che pretendevano "ristudiare" i dogmi, la gerarchia e il culto con lo stesso metodo con cui un fisico analizza il mondo delle scienze naturali!

    Leone XIII aveva già condannato, con la lettera Testem benevolentiae del gennaio 1899, l'Americanismo del padre Isacco Hecker (morto nel 1888) che metteva in discussione l'immutabilità del dogma. Il Tyrrell tesseva l'elogio a questi precursori d'oltre oceano, affermando che "educati ai principi democratici (...) tenessero a invertire la piramide gerarchica (...) per riportarla nuovamente sulla sua larga base, come cosa che poggi su fondamenta terrestri e non sembri caduta a capofitto dagli spazi aerei". 12

    Il pensiero dell'eresiarca irlandese riassume il Modernismo: ridurre la religione rivelata, la cui ortodossia è stata affidata alla Gerarchia della Chiesa, a un immanentismo religioso, la cui continua evoluzione è osservata da una struttura ecclesiale democratica.

    Il pensiero modernista, oltre che con le opere di Tyrrell, si diffuse in tutta Europa con gli scritti dei francesi Loisy, Houtin, Laberthonnière, Sabatier, Le Roy, del tedescho Schell, dell'austriaco von Hügel.

    In Italia il movimento modernista conoscerà tra i suoi esponenti più rappresentativi Enrico Buonaiuti, Romolo Murri, Antonio Fogazzaro. Un pò ovunque sorsero delle riviste d'indirizzo modernistico, che circolavano discretamente ma efficacemente tra il clero giovane italiano, come Il Rinnovamento, Battaglie d'oggi, Nova et vetera, La cultura moderna, Coenobium (quest'ultime due con la redazione in Ticino, ma ben conosciute nelle diocesi italiane).

    La figura di Romolo Murri (1860-1944) è legata alla "democrazia cristiana", applicazione politica del Modernismo, soggetto troppo complesso per essere trattato nel presente articolo. Basti comunque ricordare che il partito democristiano dell'epoca, la "Lega Democratica Nazionale", di cui Murri fu uno dei principali esponenti, fu decisamente sconfessata da San Pio X, il quale colpì con la sospensione a divinis gli ecclesiastici che ne avessero fatto parte, per porre "un argine efficace a questo fuorviare di idee e a questo dilatarsi di spirito d'indipendenza". 13 Sul problema dell'indipendenza del laicato cattolico dalla Gerarchia, condannando la "democarzia cristiana" del movimento francese del Sillon, S. Pio X scriverà che "è bene che la milizia sacerdotale si conservi superiore alle associazioni laiche, seppure le più utili e animate dal migliore spirito". 14

    L'AZIONE DI SAN PIO X

    San Pio X, fin dal primo anno del suo pontificato, svolse un'azione energica per debellare il Modernismo, mettendone all'Indice i libri, colpendo con sanzioni disciplinari i rappresentanti più pericolosi, favorendo la stampa antimodernista dei cosiddetti "cattolici integristi", che troveranno di lì a poco nell'azione di monsignor Benigni la massima collaborazione tra la Santa Sede e questa pubblicistica integrista.

    Un mese dopo l'elezione, nell'enciclica E supremi apostolatus, Papa Sarto metteva in guardia i vescovi affinchè "i membri del clero non siano tratti dalle insidie di una certa nuova scienza e fallace che si adorna con la maschera della verità e si studia, con l'ausilio di ragionamenti ingannatori e perfidi, di aprire un varco alle vedute del razionalismo e del semirazionalismo". 15

    Tra il 1903 e il 1907 la Congregazione dell'Indice condanna 32 libri, in particolare le opere dei francesi Loisy, Houtin, Laberthonnière e Le Roy. Nell'aprile del 1906 è la volta di Antonio Fogazzaro (1842-1911) col suo romanzo Il Santo, espessione della sua adesione al Modernismo (nel 1902 scriveva all'amico mons. Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, esponente di spicco dei cattolici liberali in Italia, che le "letture di Loisy, di Houdin, di Tyrrell (...) mi hanno scosso, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l'anima; turbata di quel turbamento (...) che non è che una febbre di sviluppo". 16

    Enrico Buonaiuti (1881-1946), che si aggiungerà presto all'elenco, nell'ottobre del 1906 viene destituito dall'insegnamento, mentre nello stesso periodo Loisy viene sospeso a divinis. Nell'aprile del 1907 è il turno di Romolo Murri.

    Di fronte all'azione di San Pio X gli esponenti più importanti del Modernismo italiano decidono di organizzare un convegno segreto, scegliendo la località di Molveno, nel Trentino. All'assise modernista prende parte il fior fiore dell'etedorossia italiana: Fogazzaro, Fracassini, Buonaiuti, Mari, Murri, Piastrelli, Gallari Scotti, Casati; si dibatte per stabilire un coordinamento capace di far fronte all'azione sempre più incisiva della Santa Sede. Ma ormai era troppo tardi.

    Infatti, poche settimane dopo il convegno, il 17 luglio 1907 veniva pubblicato sull'Osservatore Romano, con la data del 3 luglio 1907, il decreto Lamentabili sane exitu della Sacra Romana e Universale Congregazione, con un elenco di 65 proposizioni moderniste da considerare "reprobatae et proscriptae" riguardanti l'autorità del Magistero della Chiesa, l'ispirazione e il valore delle S. Scritture, le nozioni di Rivelazione, dogma e fede, l'origine e lo sviluppo della dottrina, la costituzione della Chiesa. Il documento non citava nessun autore delle tesi incriminate, ma lo stesso Loisy rivendicò la paternità di 53 proposizioni, contenute principalmente nelle due opere L'Évangile et l'Église e Autour d'un petit livre. 17

    Alla fine dell'estate, il 16 settembre (data ufficiale l'8 settembre) giungeva l'enciclica Pascendi:

    "precisa e spietata analisi delle dottrine moderniste. Se il decreto era stato soltanto un elenco di proposizioni, l'enciclica si presentava come un vero trattato sistematico, una sintesi meticolosa di tutte le posizioni che erano state espresse negli ultimi anni". 18

    Tra i collaboratori di San Pio X per la stesura dell'enciclica figurarono, per la parte dottrinale, il padre Giuseppe Lemius (1860-1923), procuratore generale degli Oblati di Maria Immacolata a Roma e consultore di diverse Congregazioni (e forse anche il p. L. Billot, futuro cardinale), mentre per la parte morale il cardinal José Vives y Tuto (1854-1913), cappuccino spagnolo, creato cardinale nel 1899 e prefetto della Congregazione dei religiosi nel 1908, uno tra i cardinali più acerrimi oppositori al Modernismo insieme al card. Gaetano de Lai (1853-1928), prefetto della Congregazione Concistoriale.

    LA PASCENDI, CAPOLAVORO TEOLOGICO

    Veniamo al contenuto dell'enciclica, ispirandoci in massima parte alla eccellente sintesi fatta dal padre Francesco Maria Bauducco, nel Dizionario Ecclesiastico dell'UTET. 19

    Il documento, dopo aver ricordato l'ufficio del Sommo Pontefice di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede, offre l'esposizione degli errori, delle cause e dei rimedi del Modernismo.

    I) Gli errori.

    La prima parte, più diffusa, ci presenta il modernista sotto sei aspetti: di filosofo, credente, teologo, storico-critico, apologeta, riformatore.

    a) Il modernista filosofo professa due dottrine: una "negativa", l'agnosticismo, per cui la ragione umana attinge solo il fenomeno; l'altra "positiva", l'immanenza, la quale vorrebbe spiegare la cognizione e ogni fenomeno vitale con una ragione determinante intrinseca all'uomo, come il "bisogno"; così si spiegano la fede, la religione, la rivelazione. Il dogma, mentre di fronte alla fede è "simbolo" - cioè espressione inadeguata, immagine di verità - per il credente è "strumento", veicolo di verità; esso è mutabile (evoluzione dei dogmi).

    b) Il modernista credente è costituito dall'esperienza del sentimento religioso; dal che deriva che ogni religione è vera. Comunicare agli altri tale esperienza è la "tradizione". Tra scienza e fede è separazione quanto all'oggetto, fenomeno per la prima, realtà divina per la seconda; però la fede è soggetta alla scienza.

    c) Il modernista teologo ammette, dipendentemente dalla filosofia modernista: il simbolismo (= le rappresentazioni della realtà divina sono semplicemente simboli), l'immanenza (= esperienza privata), la permanenza del divino (= esperienza trasmessa per tradizione). Secondo lui: la dottrina dei "bisogni" spiega l'origine non solo della fede, ma del dogma, culto, Sacramenti, S. Scrittura (= raccolta delle esperienze straordinarie avute in ogni religione), la Chiesa (=frutto di due bisogni: uno, nel credente, di comunicare ad altri la propria fede; l'altro, di associarsi, nella collettività, dopo che la fede si è fatta comune a molti. La Chiesa è parte della "coscienza collettiva" da cui scaturiscono e dipendono le 3 autorità: disciplinare, dogmatica, culturale. Essa è separata per il fine dallo Stato, da cui però dipende nelle cose temporali).

    L'evoluzione invece di tutte queste cose risulta dal conflitto di due forze: una progressiva, che sta nelle coscienze individuali, ed è costituita dai bisogni; l'altra conservatrice, che sta nelle Chiesa, consiste nella tradizione ed è esercitata dall'autorità religiosa.

    d) Per il modernista storico-critico, sempre dipendente dal filosofo:

    - L'agnosticismo bandisce Dio e ogni fatto divino dalla storia, e - solo contento dei fenomeni - attribuisce alla fede la "trasfigurazione" e lo "sfiguramento" dei fatti, opponendo così il Cristo, la Chiesa, i Sacramenti "della storia" nel loro elemento umano, al Cristo, alla Chiesa e ai Sacramenti "della fede" nel loro elemento divino;

    - L'immanentismo vuole spiegare le origini e dividere i documenti secondo i "bisogni", che esso suppone immanenti nella Chiesa; l'evoluzionismo presume chiarirne i rivolgimenti e le vicende: storia e critica aprioristiche.

    e) Il modernista apologeta, volendo ingenerare nell'incredulo l'esperienza del Cattolicesimo apre due strade: una oggettiva, con l'applicazione dell'agnosticismo, per cui sotto i fenomeni di vitalità della Chiesa vuol provare l'esistenza di qualcosa d'incognito, inconoscibile o divino; l'altra soggettiva con l'applicazione dell'immanenza, per cui pretende dimostrare immanente in noi l'esigenza del soprannaturale, del cattolicesimo stesso.

    f) Il modernista riformatore vuol modificare l'insegnamento e la dottrina, il culto, il governo, la morale, lasciando nulla d'intatto. L'enciclica definisce quindi il modernismo "sintesi di tutte le eresie" e lo confuta nei punti essenziali.

    II. Le cause

    La seconda parte espone le cause "morali" (curiosità e superbia) e quelle "intellettuali" (ignoranza e nominatamente difetto di filosofia scolastica); denunzia la tattica di opposizione contro il metodo scolastico, la Tradizione e i Padri, il magistero ecclesiastico, i Cattolici difensori della Chiesa; svela la propaganda attraverso svariati artifizi.

    III. I rimedi

    La terza parte assegna i rimedi: formazione filosofico-teologica secondo il metodo scolastico, congiunta in saggia misura alla teologia positiva e agli studi profani; scelta dei rettori e docenti nei seminari e istituti cattolici; provvedimenti contro la lettura, vendita, stampa di libri infetti di Modernismo; precauzioni circa i congressi di sacerdoti; consiglio di vigilanza in ogni diocesi; relazione triennale imposta ai vescovi e superiori generali degli Ordini religiosi.

    L'enciclica si chiude con l'assicurazione che la Chiesa non è nemica della scienza e del progresso e invocando l'aiuto di Gesù Cristo e della Vergine.

    Circa il valore dogmatico, l'enciclica deve ammettersi almeno come un documento dottrinale, strettamente obbligatorio, del magistero ordinario pontificio.

    LA REAZIONE ALL'ENCICLICA

    Tra i ranghi degli innovatori, che accecati dall'orgoglio si consideravano intoccabili, l'enciclica seminò al contempo sgomento e rabbia. Scrive il prof. Guasco, in un libro edito dalle Paoline due anni fà: "Il tono usato era incredibilmente duro, potremmo dire offensivo; e coloro che si sentivano colpiti, non potevano non reagire alle accuse di doppiezza, ipocrisia, orgoglio" . 20

    Buonaiuti scrive la sera stessa della pubblicazione dell'enciclica all'amico Piastrelli: "Questa sera esce l'enciclica ed è terribile. Non ne ho potuto vedere tutto il testo, ma a quanto ne ho saputo basta per capire che è la condanna definitiva di quel che noi riteniamo con maggior fermezza nel campo filosofico e critico". 21 E a Gallarati Scotti scriveva: "Per mio conto, vi trovo la riproduzione delle mie convinzioni scientifiche e filosofiche più irremovibili". 22

    In Inghilterra Tyrrell (già sospeso a divinis) reagì con ogni mezzo a sua disposizione, sia attraverso le colonne di alcuni quotidiani come il Time e il Giornale d'Italia (dove "ritornò più volte a ribadire l'incalcolabile danno che la Pascendi aveva arrecato al movimento di ripresa della spiritualità cattolica nel mondo") 23, sia pubblicando il pamphlet Mediovalismo. Risposta al card. Mercier, "nel quale ribadiva le critiche formulate dai riformatori alle dottrine della Chiesa". 24

    Buonaiuti, nella sua veste ufficiale di direttore della Rivista storico-critica delle scienze teologiche dichiarava di attenersi alle disposizioni dell'enciclica, scegliendo poi l'anonimato per criticare duramente l'enciclica. Infatti fu l'autore principale del libello anonimo Programma dei modernisti. Risposta all'enciclica di Pio X "Pascendi dominici gregis", datato 8 dicembre 1907. Dopo aver ricordato come i modernisti si erano "immersi con amore sull'anima moderna per studiarne le aspirazioni, condividendo con caloroso entusiasmo il suo ideale di fratellanza universale, scoprendo nei suoi sussulti i sintomi d'una magnifica rinascita religiosa" 25, sentenziava che "la Chiesa non può e non deve pretendere che la Somma di San Tommaso risponda alle esigenze del pensiero religioso del XX secolo" 26. Quindi pretendeva confutare punto per punto la Pascendi col principio usato da tutti gli autori modernisti: la S. Sede non aveva capito la complessità e la ricchezza del Modernismo, dimostrando i limiti intellettuali del pontificato di S. Pio X. Poco dopo la sua diffusione, il S.Uffizio colpì con la scomunica gli autori "anonimi" del libello. Il tormentato Buonaiuti non tardò a pubblicare un'altra opera di apologia del modernismo (sempre nascondendosi dietro l'anonimato), Lettere di un prete modernista, "il documento più radicale, il più lontano dalla ortodossia cattolica che abbia prodotto il modernismo italiano". 27

    Il Murri pubblicò un libello, La filosofia nuova e l'enciclica contro il modernismo, nel quale affermava di non considerarsi coinvolto dall'enciclica, anche se la criticava "per i sospetti e le diffidenze che aveva gettato in tutto un movimento di pensiero e di ricerche vastissimo" . 28

    Anche in Francia Loisy e gli altri seguaci del Modernismo diffusero alcuni scritti. In seguito alla pubblicazione di uno di questi, nel gennaio del 1908 la Santa Sede intimò al Loisy una dichiarazione di sottomissione. L'eresiarca rispose con la pubblicazione di altre opere in cui ribadiva le sue posizioni moderniste: fu allora scomunicato il 7 marzo 1908, festa di S.Tommaso d'Aquino, simbolica rivalsa dell'ortodossia scolastica. Dopo la condanna continuò a percorrere la strada dell'eresia, giungendo a considerare "la Società delle Nazioni come possibile surrogato dell'amministrazione carismatica ed ecclesiale nella vita associata degli uomini", anticipando così l'attuale posizione di ossequio e di collaborazione della Chiesa conciliare nei confronti del Mondialismo promotore della società multirazziale e multireligiosa. 29

    Nel settembre 1910 San Pio X, dopo soli tre anni dalla Pascendi, col Motu proprio Sacrorum antistitum ribadiva la condanna al Modernismo, sollecitando nuovamente l'episcopato a mettere in pratica le norme di vigilanza indicate nell'enciclica del 1907; per rendere più sicura la difesa della Chiesa dall'infiltrazione modernista disponeva poi che tutto il clero si sottoponesse a un giuramento antimodernista.

    La fermezza di San Pio X portò a decimare le file dei maestri del Modernismo, dopo la già menzionata condanna di Loisy. Romolo Murri venne sospeso a divinis nel 1907; dopo essersi candidato alle elezioni politiche del 1909 con l'appoggio dei socialisti e dei democristiani della "Lega nazionale", fu colpito dalla scomunica maggiore nel marzo 1909. Salvatore Minocchi (1869-1943), sospeso a divinis nel gennaio 1908, si spretò pochi mesi dopo. Anche Buonaiuti morì scomunicato: colpito da una prima scomunica nel 1921 si era apparentemente sottomesso, ma col persistere a sostenere le dottrine eterodosse, fu scomunicato una seconda volta nel '24, alla quale non seguì più una riconciliazione con la Chiesa. Tyrrell, espulso dalla Compagnia di Gesù nel 1906 e sospeso a divinis nello stesso anno, fu scomunicato nell'ottobre 1907.

    L'ATTUALITÀ DELLA PASCENDI

    Gli eventi che seguirono la morte di San Pio X dimostrano che la Provvidenza volle ispirare al santo pontefice la Pascendi non per fermare definitivamente il Modernismo, ma per denunciarlo, esaminandolo scientificamente.

    Infatti Benedetto XV, salito al trono pontificio dopo la morte di San Pio X, non seppe continuare la linea di fermezza intrapresa dal suo predecessore, sia per le tragiche vicende della prima guerra mondiale, sia per la moderazione sciagurata dell'ala liberale dell'episcopato. La storia dovrà poi fare luce sul ruolo del card. Gasparri, segretario di Stato di Benedetto XV e di Pio XI, e in particolare sui suoi legami con gli ambienti massonici.

    Il card. Gasparri preparò la soppressione del Sodalitium Pianun diretto da monsignor Benigni, una sorta di servizio segreto candeggiato da San Pio X per contrastare efficacemente l'infiltrazione dei modernisti nella Chiesa. La condanna al Modernismo, seppur ribadita da Benedetto XV con l'enciclica Ad beatissimi Apostolorum Principis del 1° novembre 1914, era così destinata a diventare puramente teorica, perdendo lo strumento concreto del Sodalizio di Benigni (difeso con ogni mezzo dal card. de Lai dopo la morte di San Pio X).

    Quindi, malgrado le condanne dei padri storici del Modernismo, gli anni venti videro la riorganizzazione delle fila moderniste che portò alla scalata del potere culminata col Concilio Vaticano II, quando la setta riuscì a far spacciare per magistero cattolico l'ideologia modernista.

    La Pascendi rimane allora un vero e proprio manifesto di ortodossia del cattolicesimo romano voluto dalla Provvidenza per armare dottrinalmente le coscienze cattoliche poste a scegliere tra l'adesione agli errori di oggi o alla verità di sempre. In questo senso la Pascendi, e l'intero magistero di San Pio X, diventano un preziosissimo e insostituibile strumento di discernimento, capace di non limitare l'opposizione al neomodernismo ad un semplice aspetto emotivo, bensì di imporla, alla luce dell'insegnamento di Pietro, come l'unica posizione per chi vuole rimanere veramente cattolico.

    Con lo studio della Pascendi cresce così l'amore per la Chiesa e in particolare per il Primato del Romano Pontefice (esercitato dai legittimi successori di San Pietro sino a Pio XII), primato messo in discussione da posizioni apparentemente divergenti ma sostanzialmente identiche quanto al fondamento dottrinale (collegialità vaticanosecondista, episcopalismo gallicano, democratismo carismatico, ecc.).

    Non ci resta che invocare San Pio X per perseverare nell’autentica Fede cattolica, ricordando le parole dello stesso Papa: “… i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti”. 30

    Note

    1) "Anonimo" (E.Buonaiuti), Lettere di Prete Modernista, Libreria Editrice Romana, Roma 1908, pag. 80

    2) "Anonimo", op. cit., pag. 80

    3) "Anonimo", op. cit., pag. 81

    4) "Anonimo", op. cit., pag. 82

    5) "Anonimo", op. cit., pag. 84

    6) "Anonimo", op. cit., pag. 85

    7) "Anonimo", op. cit., pag. 86

    8) Aeternis patris, in Lettres Apostoliques de S. S. Leon XIII, Maison de la Bonne Presse, Paris, t. I, pp. 42 ss.

    9) D.Saresella, Modernismo, Editrice Bibliografica, Milano 1995, pag. 8.

    10) D.Saresella, op. cit., pag.8.

    11) A. Cervasato, introduzione a G.Tyrrell, Il Papa e il modernismo, Edizioni Enrico, 1912, pag. IX-X

    12) G. Tyrrell, Da Dio agli uomini, 1907, pag. 90.

    13) M. Guasco, op. cit., pag. 145.

    14) Condamnation du "Sillon", in Actes de S. S.Pie X, Maison de la Bonne Presse, Paris, t.V, pag. 140.

    15) Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, dall'Oglio editore, Milano, pag. 526.

    16) A. Fogazzaro, Lettere scelte, a cura di T. Gallarati Scotti, Mondadori, Milano 1940, pag. 498.

    17) A. Loisy, Simple réflexion sur le Décret du Saint Office "Lamentabili sane exitu" et sur l'Encyclique "Pascendi dominici gregis", Ceffonds, Paris 1908.

    18) M.Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pag. 157.

    19) Dizionario Ecclesiastico, UTET, Torino 1958, voce Pascendi, pag. 90.

    20) M. Guasco, op. cit., pag. 163.

    21) P.Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il Mulino, Bologna 1961, pag. 245.

    22) A. Zambarieri, Il cattolicesimo tra crisi e rinnovamento, pag. 399.

    23) D. Saresella, op. cit., pag. 77.

    24) D.Saresella, op. cit., pag. 77.

    25) (E.Buonaiuti), Le programme des modernistes. Réplique à l'encyclique de Pie X: "Pascendi Dominici Gregis", Paris 1908, Librairie Critique, pag. 8.

    26) (E.Buonaiuti), op. cit. pag.10.

    27) M. Guasco, op. cit., pag. 169

    28) D. Saresella, op. cit., pag. 76.

    29) D. Saresella, op. cit., pag. 79.

    30) “Notre charge apostolique”, lettera di San Pio X all’episcopato francese, del 25 agosto 1910.

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  6. #6
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    Predefinito Nota di lettura

    Il saggio, benché sia di un sacerdote dell'I.M.B.C., si segnala tuttavia per la sua obiettività e rigore scientifico - sebbene talune conclusioni non siano del tutto condivisibili.

  7. #7
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    Predefinito

    CHIESA: Don Orione e il modernismo a 100 anni dall’Enciclica Pascendi Dominici Gregis

    L'8 settembre 1907, con l'enciclica Pascendi Dominici Gregis, papa Pio X condannava il movimento modernista che da alcuni anni stava tentando di conciliare filosofia moderna e fede. Il termine "modernismo" era stata coniato, sul finire dell'Ottocento, dai settori piu' tradizionalisti della Chiesa per attaccare quegli intellettuali cattolici che stavano propugnando un'apertura nei confronti del mondo moderno. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, infatti, nei paesi europei piu' socialmente ed economicamente avanzati, una fetta di cattolici aveva cominciato a impegnarsi per applicare il metodo storico-critico, allora in voga, alle scienze teologiche. Le nuove scoperte scientifiche, del resto, stavano fornendo dati contrastanti con quanto affermato dalle Scritture e quindi si penso' di studiare i testi sacri in maniera "moderna". La scolastica, filosofia ufficiale della Chiesa, non bastava piu' e si comincio' a sostenere l'autonomia della filosofia dalla teologia. Secondo questi studiosi cattolici, non si poteva fare piu' a meno delle scienze sperimentali e della filosofia moderna le quali andavano conciliate con i postulati cristiani. I modernisti, insomma, volevano indagare liberamente e nel rivendicare autonomia scientifica e politica finirono per mettere in discussione la tradizione ecclesiastica. In Italia gli studiosi cattolici modernisti propugnarono il rinnovamento culturale della Chiesa anche per porre un freno al dilagante laicismo post risorgimentale. I nomi piu' importanti furono quelli di padre Giovanni Semeria, Umberto Fracassini e di Salvatore Minocchi, che fondo' la rivista fiorentina Studi religiosi con la quale fece conoscere in Italia i cattolici francesi e tedeschi prima di essere costretta a chiudere nel 1907 per la dura controffensiva vaticana. Nel 1905, a Roma, sorse Rivista storico-critica delle scienze teologiche che fu diretta da Ernesto Buonaiuti prima di essere condannata dalla Chiesa e quindi soppressa nel 1910.
    In tale contesto Don Orione ebbe relazioni con importanti personalità ecclesiastiche e laiche coinvolte nei problemi del modernismo: figure “istituzionali” come San Pio X , il cardinale segretario di Stato Merry del Val, mons. Francesco Faberi, accanto a noti e meno noti esponenti del movimento modernista, o comunque ad esso vicini, quali Romolo Murri, Tommaso Gallarati Scotti, padre Alessandro Ghignoni, padre Giovanni Genocchi, Antonio Aiace Alfieri, Antonio Fogazzaro, padre Mattia Federici, padre Giovanni Minozzi, don Carlo Testone.
    Per comprendere meglio la grande opera di mediazione del santo tortonese suggeriamo di leggere il libro di Michele Busi, Roberto De Mattei, Antonio Lanza e Flavio Peloso, “Don Orione negli anni del modernismo”, Ed. Jaca Book, Milano 2002, p.376.

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  8. #8
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    Predefinito A riprova che la modernità è contraria alla fede

    LE RADICI PAGANE DELLA MODERNITA'

    di Luciano Pellicani


    Pubblichiamo, come anticipazione, l’ultimo capitolo del libro di prossima pubblicazione di Luciano Pellicani, Le radici pagane dell'Europa, Rubbettino.

    Se ogni religione agisse liberamente, finirebbe con asservire completamente lo Stato e la cultura, ossia ridurrebbe entrambi a mere roccaforti esterne di sé e rifonderebbe da sé l’intera società. Quando poi la fede fosse divenuta tradizione e si fosse pietrificata, allora non gioverebbe più alla cultura voler continuare ad essere progresso e mutarsi poiché ne resterebbe imprigionata. Un pericolo simile è particolarmente grande negli Stati fondati sul diritto sacro (Jacob Burckhardt)

    Gente che si crede ispirata da Dio è sempre stata molto pericolosa qualunque cosa Dio possa significare per loro: una Fede, un’Ideologia, un Uomo, una Nazione, un Profeta, un Libro, che magari non hanno neanche letto (Karl R. Popper)

    Contrariamente a quello che pensava Talcott Parsons, il passaggio, per tappe successive, dalla Città sacra alla Città secolare non è stato “uno sviluppo autenticamente cristiano”[1], bensì un progressivo distacco dal Grande Canone che, a partire dal IV secolo, aveva regolato l’esistenza storica della civiltà occidentale. Tale distacco è stato consumato in nome della ragione e dei diritti dell’homo naturalis, primo fra tutti quello che Popper ha chiamato il “diritto d’errore”[2]. Ora, se si tiene presente che proprio il “diritto d’errore” fu stigmatizzato dal “dottore dei dottori” – Agostino di Ippona – come la “peste dell’anima” e la “libertà di perdizione”, non può destare sorpresa alcuna che la storia del cristianesimo sia stata la storia della lotta, condotta con tutti i mezzi e in tutti i modi, contro l’eresia sulla base del seguente atto di fede: “C’è una verità, rivelata da Dio agli uomini, scritta nell’Evangelio, garantita dai miracoli e che, essendo perfetta perché divina, è immutabile: se variasse, non sarebbe più la verità. L’ufficio della Chiesa è di esserne la custode […] e l’individuo deve conformarsi a questa verità unica e immutabile, perché se ognuno si avvisasse di possedere la propria verità, si cadrebbe nel caos, nell’assurdo, giacché è evidente che su uno stesso soggetto non possono esserci milioni di verità, o mille, o cento, o dieci, o due, ma una sola”[3]. Conseguenza: “Eretico – le parole sono di Bossuet – è colui che ha un’opinione: come indica la parola stessa. E che significa avere un’opinione? Significa seguire il proprio pensiero e il proprio sentimento particolare. Ma il cattolico è cattolico, ossia, è universale; e senza avere un pensiero particolare, segue quello della Chiesa”[4].Difficile immaginare un’opposizione più radicale di quella fra l’Europa pre-illuministica, plasmata dal cristianesimo, e l’Europa moderna, formatasi a seguito del processo di secolarizzazione che ha drasticamente ridotto il regno del sacro[5]. Ciò che per la prima era la “figlia di Satana” – l’eresia –, per la seconda è il valore dei valori. Senza l’istituzionalizzazione del diritto all’errore, la Modernità – la civiltà dei diritti e delle libertà[6] – non avrebbe mai e poi mai potuto affermarsi[7]. E tale istituzionalizzazione non è stata – come tanti studiosi, suggestionati da una infelice ipotesi di Weber, continuano a pensare[7] – la conseguenza oggettiva della metamorfosi endogena del cristianesimo. Il passaggio, per slittamenti progressivi, da Gerusalemme ad Atene non è neanche immaginabile. Sono, il “mondo della fede” e il “mondo della ragione”, due universi simbolici retti da principi e valori antinomici; e lo sono a tal punto da indurre Kant a confessare di aver “dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede”[8]. Del resto, non è certo un caso che la Chiesa cattolica ha opposto un’accanita resistenza al processo di secolarizzazione, nel quale ha visto la rivincita del paganesimo o, addirittura, un progetto satanico, teso ad estirpare la fede dal cuore degli uomini e a spingere l’Europa tutta verso l’empietà. Donde la condanna – continuamente rinnovata per generazioni e generazioni – di tutti i principi costitutivi della civiltà moderna. Nel 1791, Pio VI, con Quod aliquantum, respinse “la detestabile filosofia dei diritti umani” – quindi “tutte le forme di un sapere critico, tutte le istituzioni nate per garantire le moderne libertà”[10]. Quarant’anni dopo Gregorio XVI, nella enciclica Mirari vos, non solo condannò ufficialmente le tesi del promotore del liberalismo cattolico F. R. de Lamennais, ma si spinse sino a definire “delirio” l’idea che si dovesse “sostenere e garantire a tutti la libertà di coscienza”. La ripulsa di tutto ciò che era connesso al processo di secolarizzazione fu ribadita nel 1864 con la pubblicazione del Syllabus errororum, nel quale Pio IX giudicò inaccettabile la richiesta che il Papa potesse e dovesse “riconciliarsi e transigere con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna”. La dichiarazione di guerra contro la Modernità contenuta nel Sillabo – anche nella interpretazione attenuata della “Civiltà Cattolica”, basata sulla distinzione fra la tesi e l’ipotesi[11] – non poteva che accelerare quella che Küng ha chiamato la “marcia della Chiesa cattolica verso un ghetto culturale”[12].Tanto più che Pio X, pubblicando nel 1907 l’enciclica Pascendi – in cui il modernismo veniva stigmatizzato quale “sintesi di tutte le eresie” –, legittimò la posizione dei “cattolici integrali”, per i quali “il mondo contemporaneo mostrava con i fenomeni di scristianizzazione, secolarizzazione e laicismo di essere totalmente in preda al Demonio, sicché, anziché cercare una apertura verso di esso, occorreva approfondire la separazione della Chiesa dalla storia, dal momento che, fuori di essa, non vi poteva essere vera civiltà, autentica cultura, valori morali e anche semplice onestà umana. Perciò non solo la Chiesa doveva essere autosufficiente – in particolare rafforzando la sua gerarchizzazione interna e l’autorità del clero sul laicato –; ma il tentativo di settori cattolici di adeguarla ai tempi moderni rivelava semplicemente il loro tradimento, la loro acquisizione, più o meno consapevole, alla congiura diabolica in atto nella storia, che era diretta a privarla del suo potere sul mondo”[13].Solo negli ultimi decenni la Chiesa ha attenuato la sua vocazione integralista sino a dichiarare che essa “si impegna per la tolleranza”[14]. Del resto, per evitare di diventare un fossile storico, non aveva altro rimedio che quello di uscire dal ridotto nel quale si era chiusa e aprirsi alle esigenze fatte valere dai modernisti e dai cattolici liberali, i quali sinceramente aspiravano a conciliare la tradizione cristiana con il mondo moderno. Un mondo sempre più caratterizzato dalla potenza espansiva della secolarizzazione che ha alimentato una individualizzazione senza precedenti della vita e, conseguentemente, una riduzione della presa, sulle coscienze, delle istituzioni ierocratiche. Nell’Europa cristiana, saturata di sacro, “l’uomo si sentiva sostenuto e confortato, dall’infanzia alla vecchiaia, dalle strutture fondate in maniera religiosa: a partire da quelle della vita familiare e della residenza fino a quelle della politica, dello Stato e della Chiesa, passano attraverso quelle del lavoro e delle feste. E proprio le chiese, con i loro modelli interpretativi e forme di vita, plasmavano la vita quotidiana dell’uomo”[15]. In un tale contesto, grande e determinante era il ruolo della religione e delle istituzioni ierocratiche. La situazione storica è radicalmente cambiata con l’avanzata della secolarizzazione, che ha portato all’“eclissi del sacro”[16]: una situazione caratterizzata dal fatto che “coloro stessi che credono di essere sinceramente religiosi non hanno, per lo più, della religione, che un’idea assai indebolita; essa non ha nessuna influenza effettiva sul loro pensiero né sul loro modo di agire; è come separata da tutto il resto della loro esistenza”[17]. E’ accaduto che – a partire dal momento in cui quello che Dietrich Bonhoeffer chiamava il principio medievale della “eteronomia in forma di clericalismo”[18] è stato progressivamente sostituito dal “principio dell’autonomia” – l’azione elettiva – valore centrale della civiltà moderna[19] – ha preso a scalzare l’azione prescrittiva e ciò ha determinato il passaggio dal “religioso per tradizione” al “religioso per scelta”[20] che ha fatto emergere l’inedita figura del “credente autonomo”[21]. E questo perché la Modernità “è un gigantesco spostamento dal destino alla scelta nella condizione umana”[22], talché l’uomo della Città disincantata è divenuto – giusta la bella immagine di Ortega y Gasset – il “romanziere di se stesso”[23]. Liberato dal paralizzante controllo delle istituzioni ierocratiche, egli rivendica il diritto di elaborare il suo personale progetto di vita: una situazione diametralmente opposta a quella della Cristianità medievale, nella quale la realtà era immediatamente “sentita e pensata come religiosa”[24] a tal punto che, a rigore, “non vi poteva essere nulla di profano”[25]; sicché il sacro dominava, incontrastato, su tutto e tutti e, precisamente per questo, l’individuo era completamente assoggettato ai comandi divini così come erano fissati dalla Chiesa, dai quali non poteva deviare senza incorrere in una severa sanzione. La vittoria di Atene su Gerusalemme – una vittoria scaturita da quella che Rudolf Bultmann ha descritto come “la lotta moderna per la libertà che fu anzitutto una lotta per la libertà dall’autorità ecclesiastica”[26] – ha portato ad un restringimento della sfera del sacro di tali proporzioni da indurre alcuni studiosi a parlare di fine della Cristianità[27] o, addirittura, di fine del cristianesimo[28]. Pochi dati sono sufficienti per evidenziare le dimensioni dell’impressionante declino della fede in Europa. Negli ultimi trent’anni, il numero dei consacrati – sacerdoti, monaci, monache – si è dimezzato e la loro età media si aggira intorno ai sessant’anni. L’Azione cattolica ha perso un milione di soci e i trecentomila membri attuali sono in prevalenza ragazzini o bambini iscritti dai genitori. Ad Amsterdam, dove il paradigma della crisi è più evidente, molte sono le chiese diventate magazzini o cinema porno. Nella provincia francese è ormai impossibile andare a messa senza ricorrere all’automobile, poiché sul posto si trovano solo parrocchie sbarrate o abbandonate. La domenica, a Parigi, se il tempo è bello, coloro che si recano in chiesa per la santa messa non superano il 3% della popolazione[29]. Secondo un sondaggio Csa del marzo 1997, il 51% dei giovani francesi non crede in Dio e il 67% ritiene che il cattolicesimo non è adatto al mondo moderno; in aggiunta, solo il 12% prega e appena il 2% si confessa![30]. Di fronte a questi dati, si capisce perché Joseph Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, abbia definito l’Europa una “terra di missione”, vale a dire un Continente da ri-convertire. E si capisce, altresì, perché i redattori di Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul “New Age” si siano così espressi: “Visto che né la fede nella creazione, né la fede nella resurrezione di Cristo sono presenti nella maggioranza dei Francesi, è d’uopo concludere che non hanno più idea di ciò che è e potrebbe essere la fede in un Dio trascendente. In altri termini, la maggioranza dei Francesi si trova ormai al di fuori della tradizione ebraico-cristiana, del monoteismo. Non c’è nessuna via di mezzo: se non procedono più dal monoteismo, significa che procedono da una forma di paganesimo”[31].In effetti, pagana è l’idea della pluralità delle “lingue di Dio”, pagana l’idea della piena sovranità della ragione e pagana l’idea che non ci sia altra realtà che questo mondo[32]. E tali idee, oggi, dominano la scena a tal punto che, “nel seno delle società cristiane occidentali, si è operata come una cesura nella trasmissione da una generazione all’altra di tutto un insieme di nozioni, di idee e di valori”; il che ha prodotto “una brutale cancellazione della cultura religiosa”[33], cui ha fatto seguito una silenziosa rivoluzione culturale sotto il segno di quei valori che il cristianesimo ha sempre stigmatizzato come pagani[34]. Di qui il fenomeno della “progressiva perdita di rilievo pubblico della religione: le grandi decisioni in campo politico, sociale, economico, culturale sono sempre più prese senza tenere conto della religione”[35]. Nulla, pertanto, è più lontano dalla realtà dell’idea che sia alle viste il “ritorno del religioso” o, addirittura, la “rivincita di Dio”[36]. Ciò che si registra sulla scena europea[37] è il tentativo di rinvenire nel cristianesimo una sorta di “supplemento morale”[38] per contrastare efficacemente la dichiarazione di guerra contro la civiltà occidentale lanciata dal fondamentalismo islamico[39]. Un’operazione schiettamente politica, di fronte alla quale gli stessi credenti hanno reagito negativamente, scorgendo in essa il rischio di trasformare il cristianesimo in un instrumentum regni. In effetti, sono facilmente immaginabili i pericoli, per la fede, che possono emergere dalla trasformazione del cristianesimo in una religione civile. “Se – ha osservato a questo proposito Giovanni Ferretti – per un verso la fede, e più in concretamente la comunità dei credenti, può e deve offrire un effettivo e gratuito servizio alla comunità degli uomini, per altro verso ciò può portare il cristianesimo storico ad appiattirsi nella sua funzione di supporto alla società civile, così che questa si autocomprende di fatto alla luce dei valori cui si ispira, perdendo così la sua caratteristica propria di essere testimonianza escatologica di un modo diverso da quello attuale e quindi costante riserva cristiana nei confronti dello status quo mondano”[40].Non meno gravi sono i pericoli, per i valori assiali della Città secolare, connessi alla proposta – avanzata da Marcello Pera – di riportare al centro della scena pubblica il cristianesimo con l’argomento che “le nostre libertà e il nostro stesso liberalismo dipendono – sono derivati, legati, connessi – dal cristianesimo”[41]: un argomento frontalmente e massicciamente contraddetto da tutta la storia della civiltà moderna, la quale è stata la storia della progressiva emancipazione della società dalla dittatura spirituale del cristianesimo e delle sue istituzioni. Giustamente, perciò, Vincenzo Ferrone ha energicamente polemizzato contro la “fantomatica […] idea di una primogenitura del cristianesimo rispetto ai diritti dell’uomo, al principio democratico e all’idea stessa di libertà in Occidente”[42]. Tale primogenitura – esplicitamente rivendicata da Ratzinger[43] – costituisce una distorsione ideologica della realtà le cui motivazioni sono assai chiare: dopo aver accanitamente combattuto la “libertà dei moderni”, percepita come la source della miscredenza, la Chiesa – non potendo più arrestare il dilagare dell’individualismo – ne rivendica la maternità[44] ; e avalla altresì l’idea che la laicità non sia nata fuori, o contro, ma dentro il mondo cristiano: una tesi completamente arbitraria, poiché, se c’è stata una cosa che la Chiesa ha sempre avversato, è stata proprio la libertà di credere e la conseguente separazione fra lo Stato e la religione[45]; e lo ha fatto in coerenza con uno dei principi fondamentali del cristianesimo, secondo il quale “tutto ciò che non è di Dio è di Satana”; un principio da cui S. Agostino estrasse il corollario che la repressione dei diversamente pensanti era un sacro-santo dovere della Chiesa così argomentando: “Qualunque cosa faccia una madre vera e legittima, anche se quello che fa sa di aspro e di amaro, essa non rende mai male per male ; espellendo il male dell’iniquità, essa offre la dottrina salutare, non mossa mai da odioso desiderio di nuocere, ma dal benigno desiderio di sanare”[46]. La civiltà dei diritti e delle libertà – non lo si ripeterà mai abbastanza – si è formata, attraverso una infinita teoria di conflitti di interessi e di valori, rivalutando tutto ciò – l’homo naturalis, l’eros, la felicità terrena, la ragione critica, la tolleranza, il pluralismo religioso, la libertà individuale, ecc. – che il cristianesimo – in particolare il cattolicesimo – ha sempre negato e combattuto. Fondamentale, nel processo di istituzionalizzazione della libertà di coscienza e della tolleranza, è stata la privatizzazione della religione e, di conseguenza, la sua estromissione dalla sfera statale: esattamente ciò che, ancora oggi, la Chiesa non intende accettare, se è vero, come è vero, che Benedetto XVI, dopo aver riconosciuto che, con la Modernità, “la fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene rigettata: la storia non si misura più in base a un’idea di Dio ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene ormai inteso in termini puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul volere dei cittadini”[47], ha soggiunto che “la tolleranza che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e la nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia”[48]. Certo, il cattolicesimo riformulato dal Concilio Vaticano II non è il cattolicesimo del Sillabo[49]: è un cristianesimo che dichiara che intende “ritrovare una libertà di movimento che l’armatura dottrinale, istituzionale, disciplinare, giuridica ereditata dal passato toglie o limita grandemente”[50]; un cristianesimo che, depurato del suo spirito esclusivista, può dare il suo contributo alla costruzione della “giusta società” grazie soprattutto alla pratica della caritas, che è la cosa più preziosa che esso ha iniettato nella civiltà occidentale e sulla quale, a giusto titolo, ha molto insistito il vescovo Vincenzo Paglia[51]. Ma, alla luce della teoria della tesi e dell’ipotesi – una teoria mai ufficialmente abbandonata dalla Chiesa –, è più che legittimo chiedersi se la “chiamata di soccorso” rivolta al cristianesimo per rafforzare le difese morali dell’Occidente di fronte alla minaccia islamista non apra la strada a una ripresa dell’integralismo della Chiesa[52]. Dopo tutto, non è passato neanche un secolo da quando Pio XI fece questa solenne dichiarazione, la cui franchezza rende superfluo ogni commento: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa”[53].Che, al fondo, la Chiesa cattolica non ha rinunciato alla pretesa di avere il monopolio della direzione intellettuale e morale dell’Europa è confermato dall’omelia Pro eligendo romano pontefice pronunciata il 18 aprile 2005 da Joseph Ratzinger, nella quale si legge: “La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde – gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo al vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo, e così via […]. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da ogni vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Parole illuminanti, quelle di colui che si apprestava a salire sulla “Cattedra di Pietro”[54]: il relativismo ridotto alla “dittatura delle voglie del singolo”, laddove esso è la base assiologica della civiltà dei diritti e delle libertà! La quale non ha assolutamente bisogno di un fondamento religioso; meno che mai di un fondamento teologico che si ispiri al Dio biblico, esclusivista e intollerante, che condanna come “figli di Satana” tutti coloro che non si sottomettono alla sua dispotica volontà[55]. Non si può non essere d’accordo con Giovanni Reale, quando afferma che “sotto la proclamazione del pari valore di tutte le culture si cela un azzeramento dei valori”[56], vale a dire il nichilismo assiologico; ma ciò non legittima la sua tesi, secondo la quale, “tolto il concetto del Dio cristiano, si toglie eo ipso il concetto stesso di persona, preso nel suo pieno spessore ontologico”[57]. Non si vede proprio perché mai il concetto di uomo come fine abbia bisogno di una base teologica su cui appoggiarsi. La dignità umana deve necessariamente essere fondata in un altro da sé? Non è stata forse proclamata, su basi rigorosamente laiche, sin dalla pubblicazione della splendida Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola?[58]. E non è forse vero che i bisogni e i desideri dell’homo carnalis – quei bisogni e quei desideri che la civiltà moderna considera “naturali” e, precisamente per questo, pienamente legittimi – sono stati, per secoli e secoli, sistematicamente demonizzati e repressi da quella che Michel Onfray ha chiamato la “litania delle proibizioni”[59]? Per rafforzare la sua tesi, Reale arriva a sottoscrivere il terroristico ammonimento di T. S. Eliot, secondo il quale “molti secoli di barbarie” ci attenderebbero se morisse il cristianesimo, poiché il cristianesimo è “tutta la nostra cultura”![60]. Non di questo avviso era Bonhoeffer, il quale non si è limitato ad affermare che “non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi Deus non daretur”[61]; ha anche così descritto l’Europa divenuta “adulta” grazie alla rivoluzione culturale attuata dall’Illuminismo: “L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro: Dio. Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte, l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza Dio, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano Dio viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”[62].I credenti hanno certamente il diritto che si riconosca il grande contributo che il cristianesimo ha dato alla costruzione della civiltà occidentale, non ultimo “la fatica disciplinata e incessante dei monaci che arrestò la marcia della barbarie nell’Europa occidentale e che rese di nuovo alla cultura terre che erano state abbandonate e spopolate al tempo delle invasioni”[63]. E hanno anche il diritto che si riconosca che la morale cristiana, centrata sull’imperativo che “dobbiamo fare del bene al nostro prossimo per amore di Dio”, ha un ruolo altamente positivo in una società, come quella in cui viviamo, centrata sul mercato e dunque propensa a tutto sacrificare sull’altare di Mammona[64]. Infine, hanno il diritto di sottolineare con forza che la speranza cristiana svolge una insostituibile funzione: quella di soddisfare il “bisogno di senso”, che urge, sia pure con diversa intensità, in tutti gli uomini. Ma, se vogliono essere onesti, devono riconoscere: 1) che, senza la battaglia condotta dagli illuministi contro il fanatismo e l’odio teologico, “si sarebbe continuato a bruciare eretici e torturare persone”[65]; 2) che negli ultimi secoli i più importanti prodotti della cultura filosofica e scientifica poco o nulla devono alla tradizione cristiana[66]; 3) che Bayle aveva ragione quando scriveva che “una società di atei si comporterebbe in maniera civile e morale proprio come qualsiasi altra società, purché facesse punire i delitti e annettesse onore o infamia a certe azioni”[67]; 4) che è grazie alle istituzioni e ai valori della Città secolare che la micidiale carica di intolleranza contenuta nel Kerygma è stata disattivata; 5) che il cristianesimo non ha il monopolio della morale, dal momento che esiste una morale laica: la morale della ragione, della tolleranza e dei diritti inalienabili dell’uomo; infine, 6) che l’unico cristianesimo in armonia con lo spirito della Modernità è il cristianesimo liberale – il cristianesimo di Lord Acton e Maritain, di don Sturzo e De Gasperi –, che non fa il volto dell’arme ai valori dell’Illuminismo e vede nella laicità “una garanzia per la religione”[68]. Ma è proprio la Modernità che certi cristiani contestano frontalmente. Particolarmente istruttiva è la recente pubblicazione – firmata da quattro scienziati cattolici e un gesuita – nella quale si legge questo singolare apprezzamento della civiltà nata dalla emancipazione della società civile dalla tirannia spirituale del cristianesimo: “La Modernità, interamente fondata sull’emergenza storica della scienza, non vive che al livello del mito della scienza. Non è la razionalità né l’autonomia della coscienza individuale che pertanto la fonda, è l’esaltazione reattiva di una soggettività minacciata dalla omogeneizzazione della vita sociale. La Modernità non è la trasmutazione di tutti i valori, è la distruzione di tutti i valori antichi senza il loro superamento. Non c’è più né bene né male, ma non siamo per questo al di là del bene e del male. La Modernità non è la rivoluzione, anche se essa si articola su delle rivoluzioni (industriale, politica, rivoluzione dell’informazione, rivoluzione del benessere, ecc.). Essa è l’ombra della rivoluzione mancata, la sua parodia”[69]. E’ appena il caso di sottolineare che il corollario logico di una tale grottesca lettura della civiltà dei diritti e delle libertà è che questa, essendosi sviluppata su basi rigorosamente laiche, è costitutivamente priva di una morale quale che sia. Non diversa la tesi avanzata, a metà degli anni Sessanta, dal costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo la quale “lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire”[70]. Si tratta di una tesi estremamente insidiosa, in quanto – suggerendo che “soltanto la religione (cristiana), depositaria di tali presupposti normativi, è in grado di porvi rimedio”[71] – propone quello che Bonhoeffer chiamava il “salto mortale all’indietro nel Medioevo”[72], cioè a dire la regressione storica dal principio (laico) della autonomia al principio (religioso) della eteronomia. Per la tradizione giudaico-cristiana, la Legge – esattamente come accade nella tradizione islamica – è la manifestazione della volontà di Dio[73]: è una Legge rivelata, di fronte alla quale all’uomo non resta che sottomettersi senza possibilità alcuna di metterla in discussione. Tant’è che S. Giovanni Crisostomo non ha avuto esitazione alcuna a formulare il seguente teorema: “Quello che è fatto per volontà di Dio è ottimo anche se può sembrare malvagio; al contrario ciò che è fatto contro la volontà di Dio e gli dispiace, anche se viene giudicato ottimo, è invece pessimo e iniquo. Perciò, se qualcuno uccide un uomo, perché così vuole Dio, commette un omicidio che è meglio di qualsiasi atto di carità; e, ancora, se qualcuno risparmia un uomo, e lo tratta con indulgenza contro il volere di Dio, questa bontà è più criminale di un omicidio. Non è la natura dei fatti che rende le azioni buone o cattive, ma la volontà del Signore”[74]. Radicalmente altra è la concezione laica delle leggi e dei valori morali che le ispirano[75]. Essi sono il prodotto di un permanente dialogo fra una pluralità di soggetti – individui e gruppi organizzati – che si svolge in uno spazio pubblico nel quale sono garantite le libertà fondamentali, ivi compresa la libertà religiosa. La più preziosa eredità che ci ha lasciato il secolo dei Lumi è il principio del “pubblico uso della ragione in tutti i campi”[76], che postula la “libertà in tutto, in religione, in filosofia, in letteratura, in industria, in politica”[77]: un principio cui non si può rinunciare senza regredire verso la barbarie della spietata caccia agli eretici che l’Europa ha conosciuto quando non era sottomessa alla “dittatura del relativismo”; un principio che “si è trasferito nei fatti, è penetrato nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi, si è unito a tutti gli aspetti della nostra vita” a tal punto che, qualora fosse abolito, “dovremmo cambiare d’un colpo tutta la nostra organizzazione morale”[78]. Ma è proprio la cultura illuministica che la Chiesa cattolica, ancora oggi, considera il nemico da combattere. Ciò risulta con estrema chiarezza dalla lettura del libro-intervista Varcare la soglia della speranza, nel quale Giovanni Paolo II ha indicato nella “svolta antropocentrica della filosofia” la prima tappa verso il “processo di allontanamento dal Dio dei Padri, dal Dio di Gesù Cristo, dal Vangelo”. Iniziata da Cartesio e portata alle sue logiche conseguenze dagli illuministi, tale svolta ha colpito al “cuore tutta la soteriologia cristiana, cioè la riflessione teologica sulla salvezza, la dottrina evangelica sulla redenzione […]. Per la mentalità illuministica, il mondo non ha bisogno dell’amore di Dio. Il mondo è autosufficiente. E Dio, a sua volta, non è innanzitutto Amore. Semmai è Intelletto. Intelletto che eternamente conosce. Nessuno ha bisogno del suo intervento nel mondo che esiste, che è autosufficiente, trasparente alla conoscenza umana, grazie alla ricerca scientifica sempre più libero dai misteri, sempre più sottomesso all’uomo come inesauribile miniera di materie prime, all’uomo-demiurgo della moderna tecnica […]. Un mondo che appare come un grande cantiere di conoscenze elaborate dall’uomo, come progresso e civiltà, come moderno sistema di mezzi di comunicazione, come ordinamento di libertà democratiche senza alcuna limitazione”. E’ accaduto così che l’uomo emancipato dalla fede ha preteso di “vivere lasciandosi guidare esclusivamente dalla propria ragione, così come se Dio non esistesse, come se Dio si disinteressasse del mondo”. Di qui il rifiuto della “realtà del peccato e, in particolare, […] del peccato originale”; di qui l’edonismo e la ricerca della felicità sulla terra: una ricerca illusoria, poiché “questo mondo non è in grado di rendere felice l’uomo”[79]. Effettivamente, la rivoluzione culturale operata dall’Illuminismo ha posto fine all’“età della fede” – centrata sul dominio assoluto e incontrastato di Gerusalemme e sull’onnipresenza di “un Dio Poliziotto”[80] – e, precisamente per questo, il cristianesimo ha cessato di essere il Grande Canone dell’Europa. Del tutto logico, pertanto, che sia stata respinta la richiesta che nel futuro Trattato costituzionale dell’Unione Europea fossero ricordate le radici cristiane della civiltà occidentale. L’Europa ormai è una realtà “meticcia”, nella quale sono, sì, presenti e operanti i valori cristiani; ma sono altresì presenti e operanti quei valori denunciati da Giovanni Paolo II come anti-cristiani. E sono questi ultimi – la ragione critica, la libertà d’errore, la religione come scelta individuale, la ricerca della felicità su questa terra, ecc. – che fanno aggio sui primi. D’altra parte, se le radici cristiane fossero state formalmente ricordate nella Costituzione europea, “sarebbe stata sancita la suddivisione dei cittadini in due categorie: quelli di prima categoria che credono a Dio come fonte di tutte le virtù, e quelli di seconda categoria che sono pronti soltanto a rispettare tali valori universali”[81]. Una suddivisione improponibile in una Europa divenuta, a motivo della invasione pacifica del “proletariato esterno”, una società multireligiosa, ove si contano a milioni coloro che non si identificano con il cristianesimo. Il che, poi, significa che il cristianesimo, nella Città secolare, è una tradizione fra tante altre tradizioni che convivono pacificamente grazie alle istituzioni dello Stato laico-liberale. Il quale non è punto quello che pensava Augusto Del Noce, cioè lo Stato che tollera a malapena la religione e “l’avversa e lentamente la spegne, anche senza avere bisogno di ricorrere a persecuzioni dirette”[82]. Lo Stato nato dalla “rivoluzione della società civile”[83] non va confuso – come ha fatto Etienne Gilson[84] – con lo Stato ateista quale fu lo Stato marxleninista, sprofondato nel nulla storico con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. E’ un regime politico che riconosce e tutela la più ampia libertà religiosa; e lo fa sulla base di un codice etico che scaturisce da quella “dittatura del relativismo” che la Chiesa, in nome della Verità rivelata, ancora oggi condanna e avversa. Sul punto, Hans Kelsen ha scritto pagine che conviene ricordare ai nostalgici dei “valori forti”[85], i quali sembrano aver dimenticato che “il contrario di relativismo è assolutismo”[86] e che, fra l’assolutismo e il fondamentalismo, il passo è assai breve[87]. “Da quando esiste la filosofia – questo l’ incipit del saggio Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica –, esiste il tentativo di metterla in relazione con la politica, e questo tentativo ha portato oggi a riconoscere come un luogo comune il concetto che teoria e politica e quella parte della filosofia che chiamiamo etica siano intimamente connesse. Ma par strano assumere l’esistenza di un parallelismo esterno, o forse anche una relazione assai profonda, fra la politica e le branche della filosofia, come ad esempio l’epistemologia, la teoria della conoscenza e la teoria dei valori. E’ proprio all’interno di queste due teorie che l’antagonismo fra assolutismo filosofico e relativismo ha la sua sede, e questo antagonismo sembra essere, per molti aspetti, analogo all’opposizione fondamentale fra autocrazia e democrazia come a quella tra sostenitori, da un alto, dell’assolutismo politico e, dall’altro, del relativismo”[88]. E così prosegue: “L’assolutismo filosofico è il riconoscimento di una realtà assoluta, di una realtà, cioè, che esiste indipendentemente dall’umana conoscenza, la cui esistenza è obbiettiva e non limitata nello e oltre lo spazio e il tempo, cui la conoscenza umana è riservata. Il relativismo filosofico, dall’altro alto, sostiene la dottrina empirica per cui la realtà esiste solo all’interno della conoscenza umana e, quale oggetto di conoscenza, è relativa al soggetto conoscente. L’assoluto, la cosa in sé, è oltre l’umana esperienza; essa è inaccessibile alla nostra conoscenza e perciò inconoscibile”[89]. Ora, dal momento che “all’ammissione dell’essere assoluto corrisponde la possibilità della verità assoluta e dei valori assoluti”, la “personificazione dell’assoluto, la sua raffigurazione come l’onnipotente creatore dell’universo la cui volontà è legge della natura così come dell’uomo, è l’inevitabile destino dell’assolutismo filosofico. La sua metafisica mostra una tendenza irresistibile al monoteismo religioso”[90]. Tale tendenza “conduce irresistibilmente e ha sempre condotto a una situazione in cui chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto proclama il diritto di imporre la sua opinione come la sua volontà agli altri che sono nell’errore”[91]; conduce, in altre parole, all’assolutismo politico, che è il sistema di dominio nel quale è tollerata una sola dottrina: quella, per l’appunto, che proclama di essere la verità assoluta, di fronte alla quale tutte le altre non possono che apparire come errori da combattere o, addirittura, come aberrazioni intellettuali e morali. La conclusione cui perviene Kelsen – una conclusione confermata puntualmente dalla storia, testimone imparziale – è che l’unico antidoto contro le tendenze autoritarie e totalitarie dell‘assolutismo filosofico (o religioso) è il relativismo, il quale – coerentemente alla sua modestia epistemologica – concepisce lo Stato come l’armatura giuridica, munita di coazione fisica, che garantisce quei valori – tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e libertà di pensiero – “che non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede in valori assoluti”[92]. Relativismo, quindi, significa, in primo luogo, rifiuto dell’assolutismo filosofico (o religioso) che porta all’assolutismo politico; in secondo luogo, riconoscimento del “politeismo dei valori”[93], che richiede la vigenza di regole atte a garantire “la pacifica coesistenza, resa possibile dalla tolleranza, fra gruppi di persone con storie, culture e identità diverse”[94]. Queste regole sono quelle dello Stato laico-liberale. Il quale, lungi dall’essere un regime politico senza radici morali, è l’istituzionalizzazione di un preciso codice etico, centrato sull’idea che ogni individuo è il titolare di un pacchetto di diritti – il diritto d’errore, in primo luogo – che nessuna autorità può calpestare. Certamente, esso non è la soluzione dei tanti problemi che travagliano il mondo attuale; ma, altrettanto certamente, la fuoriuscita dal suo quadro istituzionale e assiologico spingerebbe l’Europa verso una spaventosa regressione storica.

    NOTE

    [1] T. Parsons, Il cristianesimo e la moderna società industriale, in D. Zadra (a cura di ), Sociologia della religione, Hoepli, Milano 1969, p. 326. Non diversa la tesi sviluppata da Rodney Stark nella sua recente monografia: The Victory of Reason. How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success, Random House, New York 2005. In essa, Stark arriva a sostenere che “la Cristianità creò la civiltà occidentale” in quanto valorizzò la ragione, la libertà individuale e il progresso scientifico, tecnologico ed economico!


    [2] K. R. Popper, Il diritto d’errore, Armando, Roma 1992.

    [3] P. Hazard, La crisi della coscienza europea, cit., p. 247.

    [4] Sempre a Bossuet si deve l’emblematica sentenza: “Ho il diritto di perseguitarvi perché io ho ragione e voi avete torto” (Cit. da T. Todorov, Lo spirito dell’Illuminismo, Garzanti, Milano 2007, p. 58).

    [5] L’atteggiamento dei credenti modernisti di fronte alla scienza – un atteggiamento segnato da una profonda dissonanza cognitiva – è stato così descritto da Ernst Gellner: “I credenti modernisti non si preoccupano dell’incompatibilità fra quanto descritto nella Genesi e il darwinismo o l’astrofisica moderna. Essi ritengono che le diverse asserzioni, pur riguardando apparentemente gli stessi eventi, cioè la creazione del mondo e l’origine dell’uomo, appartengono in realtà a livelli totalmente diversi o, addirittura, a lingue totalmente diverse, all’interno di tipi di discorso distinti e separati. Generalmente, i dogmi e le prescrizioni morali della fede vengono poi mutati i qualcosa che, interpretato in modo appropriato, appare sorprendentemente poco conflittuale con la cultura secolare di un’epoca e, invero, con tutto il resto. Questa è la via alla pace e al vuoto dottrinale” (Ragione e religione, Il Saggiatore, Milano 1993, p. 17).

    [6] Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.

    [7] Cfr. N. Berti, I paradossi del relativismo culturale, in “Mondoperaio”, 2002, n. 3; E. Di Nuoscio, Elogio del relativismo, in E. Ambrosoni (a cura di), Il bello del relativismo, Marsilio, Padova 2005.

    [8] Cfr. G. Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1999; F. Crespi, L’esperienza religiosa nella età post-moderna, Donzelli, Roma 1997.

    [9] I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. 52.

    [10] R. Vivarelli, I caratteri dell’età contemporanea, Il Mulino, Bologna 2005, p. 251.

    [11] Le preoccupate reazioni di certi ambienti cattolici di fronte agli anatemi scagliati da Pio IX contro la Modernità indussero il direttore della “Civiltà cattolica”, C. M. Curci, a divulgare un’interpretazione del Sillabo basata sulla distinzione tra la tesi – la società ideale cristiana – e l’ipotesi – i principi del mondo moderno che potevano essere accettati, in via provvisoria, come male minore. In altre parole, “non avendo, in pratica, alternative, Roma prese atto del mondo secolarizzato come di una ipotesi, ma, come tesi, per come cioè le cose dovevano essere nella realtà, essa pensava ancora a una posizione monopolistica della Chiesa cattolica” (H. J. Pottmeyer, Lo sviluppo della teologia dell’ufficio papale, in G. Alberigo e A. Riccardi, a cura di, Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari 1990, p. 34).

    [12] H. Kűng, Cristianesimo, cit., p. 721.

    [13] D. Menozzi, La Chiesa cattolica, in G. Filoramo e D. Menozzi (a cura di ), Storia del cristianesimo, cit., vol. IV, p. 187.

    [14] Benedetto XVI, La rivoluzione di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, p. 84.

    [15] H. Küng, Cristianesimo, cit., p. 753.

    [16] S. Acquaviva, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Comunità, Milano 1971.

    [17] R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, p. 16.

    [18] D. Bonhoeffer, Un cristianesimo non-religioso, Messaggero, Padova 2005, p. 149.

    [19] Cfr. A. Laurent, Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna 1994; G. Pecora, La libertà dei moderni, Luiss University Press, Roma 2005; A. Millefiorini, Individualismo e società di massa, Carocci, Roma 2006; D. Martuccelli, Grammaires de l’individu, Gallimard, Parigi 2002.

    [20] G. Filoramo, Che cos’è la religione, Einaudi, Torino 2004, p. 9.

    [21] G. Guizzardi, Secolarizzazione: alcuni nodi essenziali, in S. S. Acquaviva e G. Guizzardi (a cura di), La secolarizzazione, Il Mulino, Bologna 1973, p. 29.

    [22] P. L. Berger, Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Il Mulino, Bologna 1994, p. 90.

    [23] J. Ortega y Gasset, Aurora della ragione storica, SugarCo, Milano 1983, p. 180.

    [24] E. Gilson, La filosofia del Medioevo, cit., p. 907.

    [25] R. Guénon, Le regne de la quantité et les signes des temps, cit., p. 61.

    [26] R. Bultmann, Storia ed escatologia, Queriniana, Brescia 1989, p. 15.

    [27] Cfr. G. Bottoni (a cura di ), Fine della Cristianità?, Il Mulino, Bologna 2002.

    [28] Cfr. J. M. Ploux, Le Christianisme a-t-il fait son temps?, L’Atelier, Parigi 1999; A. de Benoist, La religione ha un futuro?, in “Diorama”, settembre-ottobre 2005.

    [29] Traggo questi dati da V. Messori, La Chiesa è la mia Patria in F. Guiglia (a cura di ), Italiani senza confini, LiberalLibri, Firenze 2001, pp. 134-135.

    [30] Cfr. G. Minois, Storia dell’ateismo, cit., p. 598.

    [31] Cit. da F. Lenoir, Le metamorfosi di Dio, Garzanti, Milano 2003, p. 258. L’ispirazione pagana della civiltà moderna risulta con tutta evidenza se si tiene presente l’osservazione di S. Agostino, secondo la quale le virtù dell’anima e della ragione, se non si sottomettono alla Legge di Dio, non sono che “vizi” (La Città di Dio, cit., p. 985). E, infatti, come il trionfo dei “vizi pagani” è stato descritto il mondo moderno da Kierkegaard (La malattia mortale, cit., pp. 227 e ss.).

    [32] Ha osservato Burckhardt che “qualunque sia stata la loro religiosità, Greci e Romani costituivano un mondo perfettamente laico. Ignoravano certamente – almeno nella loro epoca più evoluta – che cosa fosse un prete; avevano cerimonie prestabilite, ma nessuna legge e nessuna rivelazione scritta che ponesse la religione al di sopra dello Stato e della restante vita […]. Se Greci e Romani avessero avuto dei preti e una teologia non avrebbero sicuramente creato il loro Stato perfetto fondato sulle esigenze e sui rapporti umani” (Sullo studio della storia universale, cit., p. 141). E’ da notare, inoltre, che, dal momento che quella dei Greci e dei Romani non era una religione etica, l’elaborazione dei principi politici, giuridici e morali era cosa esclusiva degli intellettuali laici.

    [33] R. Rémond, Le christianisme en accusation, Albin Michel, Parigi 2005, p. 80.

    [34] H. Simon, Vers une France païenne ?, Cana, Parigi 1999. A dispetto del fatto che, stando a una recente inchiesta europea sui valori, in Italia, fra il 1981 e il 1999, la frequentazione di una comunità religiosa sia cresciuta del 5% (Cfr. R. Stark e M. Introvigne, Dio è tornato, Piemme, Casale Monferrato 2003, p. 127), è assai significativo che sia calata di ben 10 punti la credenza nel Paradiso e che sia praticamente sparita la credenza nella resurrezione così come è insegnata dalla dottrina della Chiesa cattolica. Il che sta a indicare che “il cristianesimo e le sue credenze sono stati sottoposti a un forte processo di relativizzazione. Si è entrati nella fase del ‘fai-da-te’ religioso dove ognuno mette insieme idee e comportamenti presi da diverse fonti” (M. Politi, Il ritorno di Dio, Mondadori, Milano 2004, p. 17).

    [35] M. Introvigne, Il dramma dell’Europa senza Cristo, SugarCo, Milano 2006, p. 99.

    [36] A. Aldridge, La religione nel mondo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2005; G. Kepel, La revanche de Dieu, Seuil, Parigi 2003; P. Berger (a cura di), The Desecularization of the World. Resurregent Religion and the World Politics, Eerdmans, Grand Rapids 1999; R. Stark e M. Introvigne, Dio è tornato, cit.; M. Politi, Il ritorno di Dio, cit.

    [37] Non, però, sulla scena americana, nella quale, al contrario, si registra una notevole ripresa delle pratiche religiose (Cfr. S. P. Huntington, La nuova America, Garzanti, Milano 2005, pp. 99-128). La cosa ha indotto José Casanova a sostenere che è in atto un fenomeno di “deprivatizzazione della religione” (Oltre la secolarizzazione, cit., pp. 379 e ss.). Senonché, un recente sondaggio – dal quale le emerge che “l’80% degli Americani pensano che l’individuo deve forgiarsi le proprie credenze religiose indipendentemente da ogni Chiesa” (I. Richet, Le religion aux Etats-Unis, cit., p. 67 ) – conferma che negli Stati Uniti la religione resta “un fatto di scelta individuale” (R. Bellah, Le ragioni del cuore, Armando, Roma 1996, p. 286 ).

    [38] C. A. Viano, Laici in ginocchio, Laterza, Bari 2006, p. 69.

    [39] Sul punto, è a dir poco inquietante la dichiarazione fatta da Ronn Torrossian, portavoce della Christian Coalition: “L’America deve ritrovare le sue radici cristiane. Lo spirituale e il temporale non possono essere separati […]. Nel contesto internazionale l’Islam rappresenta una minaccia per i valori giudaico-cristiani. Siamo contro la creazione di uno Stato palestinese. E per un sostegno rinforzato a Israele” (Cit. da F. Lenoir, Le metamorfosi del sacro, cit., p. 118). E’ appena il caso di sottolineare che, se prevalesse una siffatta concezione dell’identità culturale dell’Occidente, l’inevitabile conseguenza sarebbe una guerra di religione di dimensioni planetarie fra il cristianesimo e l’Islam.

    [40] G. Ferretti, Tentativo di fuoriuscita dalla cristianità nella filosofia e nella cultura, in G. Bottoni (a cura di), Fine della Cristianità?, cit., pp. 145-146.

    [41] M. Pera, Il relativismo, il cristianesimo e l’Occidente, in M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici,Mondadori, Milano 2004, p. 35.

    [42] V. Ferrone, Le radici illuministiche della libertà religiosa, in G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Bari 2006, p. 64.

    [43] Secondo Ratzinger, con il cristianesimo si è verificata una “svolta nella storia del rapporto tra politica e religione” in quanto “il nuovo dualismo in esso contenuto ha rappresentato l’inizio e il fondamento persistente dell’idea occidentale di libertà”; sicché – questa la sua stupefacente conclusione – “la moderna idea di libertà è il legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano” (Chiesa, ecumenismo e politica, San Paolo, Milano 1987, p. 154). Ma già Giovanni Paolo II aveva affermato che l’Europa era chiamata a ritrovare la sua vera identità riconoscendo e recuperando “con fedeltà creativa quei valori fondamentali, alla cui acquisizione il cristianesimo aveva dato un contributo determinante, riassumibili nell’affermazione della dignità trascendente della persona umana, del valore della ragione, della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto e della distinzione tra politica e religione” (Ecclesia in Europa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2004, p. 114). La storia dell’Europa, però, dice esattamente il contrario; dice, cioè, che i valori fondamentali della civiltà moderna sono nati fuori del cristianesimo e si sono affermati contro il cristianesimo.
    [44] Contro una tale rivendicazione, ha vigorosamente polemizzato Stanislas Breton, ricordando la condanna, da parte dei cristianesimi, “della più parte delle libertà che sono altrettante affermazioni assolute della coscienza moderna” (L’avenir du christianisme, Desclée de Brouwer, Parigi 1999, p. 82).

    [45] Questo l’istruttivo commento del Papa alla legge francese del 1905 che istituiva la separazione fra lo Stato e la religione: “Essa è la negazione molto chiara dell’ordine sovrannaturale. Essa limita, in effetti, l’azione dello Stato al solo perseguimento della prosperità pubblica durante questa vita, che non è che la ragione prossima delle società politiche; ed essa non si occupa in alcun modo, come cosa a lui estranea, della loro ragione ultima, che è la beatitudine eterna” (Cit. da M. Gauchet, La religion dans la démocratie, Gallimard, Parigi 1998, p. 84 ).

    [46] S. Agostino, Lettera 93, in G. Barbero (a cura di), Il pensiero politico cristiano, cit., vol. II, p. 275.

    [47] J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali in M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici, cit., p. 56.

    [48] Benedetto XVI all’apertura del Sinodo del 3 ottobre 2005. Qui è opportuno ricordare l’osservazione di Casanova: “Il cattolicesimo moderno vuole essere una religione intramondana e pubblica nello stesso tempo. Ma può esistere una forma moderna di religione pubblica che non aspiri a diventare una Chiesa di Stato?” (Oltre la secolarizzazione, cit., p. 97).

    [49] Cfr. G. Alberigo, Breve storia del Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2005.

    [50] P. Ricca, Dove va il cristianesimo all’inizio del terzo millennio, in G. Bottoni (a cura di), Fine della Cristianità?, cit., p. 161. Silenziosamente, quasi surrettiziamente, la Chiesa negli ultimi decenni ha provveduto a liberasi di una parte della tradizionale armatura dottrinale. Nel suo discorso, sono ormai rari o addirittura inesistenti i riferimenti al Diavolo o all’Inferno, che nel passato occupavano un posto centrale. E anche sul piano specificamente morale il suo insegnamento non ha più il rigorismo di un tempo. Tant’è che, nel Vademecum per i confessori, pubblicato dal Consiglio pontificio per la famiglia, a proposito del divieto della contraccezione, si formula il seguente consiglio: “E’ preferibile lasciare i penitenti nella loro buonafede per i casi in cui l’errore è dovuto a un’ignoranza soggettivamente ineliminabile, quando si prevede che il penitente, anche se intende vivere la sua fede, non cambierebbe il suo modo di vita e arriverebbe anche a peccare in maniera formale”.

    [51] V. Paglia, Essere cattolici, Mondadori, Milano 2006, pp. 178-179. E’ da ricordare che fra la caritas – intesa come solidarietà fraterna – e l’etica socialista dell’eguaglianza strettissimo è il nesso, sottolineato da Antonio Labriola con queste parole: “Noi socialisti torniamo all’idea cristiana di una società come istituto dei poveri: non provvidenza di là, ma provvidenza di qua. Noi socialisti abbiamo la santa audacia di affermarci più cristiani dei preti, anzi i soli cristiani del secolo. Siamo noi i veri discepoli di Gesù di Nazareth, di Gesù annunciatore del regno di Dio, che è della pace e dell’amore, che verrà e che sarà fatto per opera e virtù dei sentimenti nostri”. Analoga la tesi di Carlo Rosselli: E’ il liberalismo che si fa socialista, o è il socialismo che si fa liberale? Le due cose assieme. Sono due visioni altissime ma unilaterali della vita che tendono a compenetrarsi e a completarsi. Il razionalismo greco e il messianesimo d’Israele. L’uno domina l’amore per la libertà, il rispetto delle autonomie, una concezione armoniosa e distaccata della vita. L’altro una giustizia terrena, il mito dell’eguaglianza, un tormento spirituale che vieta ogni indulgenza” (Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1973, p. 352).

    [52] E, infatti, così, con evidente compiacimento, si sono espressi Gianni Baget Bozzo e Raffaele Iannuzzi: “In questo contesto di crisi devastante, sta emergendo un elemento nuovo, che non annulla certamente la drammaticità della situazione, ma fornisce in ogni caso un’indicazione importante per trovare un’uscita di sicurezza. Si tratta della funzione del Papato, del ruolo di leader politico rivestito oggi da Benedetto XVI, che si confronta soprattutto con la storia. E, confrontandosi con la storia, parla agli ebrei e ai musulmani, a Colonia, con accenti inediti e spiazzanti. Accenti che possono, domani, costituire un nuovo linguaggio e anche una nuova sintassi politica” (Tra nichilismo e Islam, Mondadori, Milano 2006, p. 90).

    [53] Cit. da D. Settembrini, La Chiesa nella politica italiana, Rizzoli, Milano 1977, p. 127.

    [54] Come illuminante è l’auspicio formulato dal cardinale Camillo Ruini: “Il superamento della fase storica del laicismo e del secolarismo” (Nuovi segni dei tempi, Mondadori, Milano 2006, p. 51).

    [55] Non solo nel Vecchio Testamento, ma anche nel Nuovo, Dio è concepito come un essere iracondo e vendicativo. Queste – per fare solo un esempio – sono le terroristiche parole che si leggono nella Lettera agli Ebrei: “Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la piena conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco pronto a divorare i ribelli. Quando qualcuno ha violato la Legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Pensate quanto maggiore sarà il castigo di cui sarà ritenuto meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e considerato profano quel sangue dell’Alleanza dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò retribuzione! E ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. E’ terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (10: 26-31).

    [56] G. Reale, Le radici culturali e spirituali dell’Europa, Cortina, Milano 2003, p. 155.

    [57] Ibidem, p. 104.

    [58] In realtà, Pico della Mirandola non fece che riproporre il principio fondamentale della cultura pagana, che Seneca aveva così formulato: homo res sacra homini. Se la rivalutazione dell’etica pagana nella Oratio de hominis dignitate è implicita, è esplicita nell’Essai sur les régnes de Claude et Néron, nel quale Diderot esaltò la figura di Seneca quale compiuto modello dei valori per i quali gli illuministi lottavano.

    [59] M. Onfray, Trattato di ateologia, Fazi, Albano 2005, p. 75.

    [60] T. S. Eliot, L’unità della cultura europea, in Opere, Bompiani, Milano 1993, pp. 638-640.

    [61] D. Bonhoeffer, Un cristianesimo non-religioso, cit., p. 150. Non diversa la conclusione cui è giunto Rudolf Bultmann: “La demitizzazione radicale è il parallelo della dottrina paolino-luterana della giustificazione per la fede senza l’opera della legge. O meglio: è la sua coerente applicazione al campo della conoscenza. […] L’uomo che vuole credere in Dio come nel suo Dio, deve essere ben conscio di non avere in mano niente su cui basare la sua fede, di essere quasi campato per aria e di non poter pretendere che si dimostri la verità della Parola che l’apostrofa. E ciò perché fondamento e oggetto della fede sono identici” (Nuovo Testamento e mitologia, Queriniana, Brescia 1973, pp. 232-233).

    [62] D. Bonhoeffer, Un cristianesimo non-religioso, cit., p. 141. Ma già agli inizi del XX secolo Charles Péguy così si indirizzava ai suoi contemporanei: “Siete i primi che siete riusciti a fare un mondo, e un mondo prospero, senza Gesù, tutta una società, e una società prospera, senza Gesù; un mondo, una società prosperi, non-cristiani dopo Gesù” (Cit. da J. M. Ploux, Le Christianisme a-t-il fait son temps?, cit., p. 8). Qualche anno più tardi, di fronte alla irresistibile avanzata della secolarizzazione, esclamava, accorato, un altro eminente pensatore cattolico: “Cristo nostro! Cristo nostro! Perché ci hai abbandonato?” (M. de Unamuno, La agoía del cristianismo, Alianza Editorial, Madrid 2003, p. 124).

    [63] C. Dawson, Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale, Rizzoli, Milano 1997, p. 70.

    [64] Peraltro, la vitalità che si registra nella società americana non impedisce che essa sia caratterizzata da “tassi decisamente più elevati di divorzio, criminalità, disuguaglianza e altri malesseri” (F. Fukuyama, La grande distruzione, Baldini e Castoldi, Milano 1999, p. 90).

    [65] H. Küng, Cristianesimo, cit., p. 682.

    [66] E, infatti, “è sintomatico della incerta collocazione della religione nel mondo moderno il fatto che le teorie della cultura moderna e il nuovo filone della sociologia della cultura tendano entrambi a ignorare la religione. In altri termini, il termine cultura è utilizzato per riferirsi esclusivamente alla cultura laica” (J. Casanova, Oltre la secolarizzazione, cit., pp. 117-118).

    [67] P. Bayle, Pensieri sulla cometa, Feltrinelli, Milano 1957, p. 75. Identica la tesi di Diderot: “Il ne faut pas confondre l’immoralité et l’irreligion. La moralité peut être sans religion; et la religion peut être, est même souvent avec l’immoralité” (Irreligieux, in Œevres, vol. I, Laffont, Parigi 1994, pp. 467-468 ).

    [68] E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006, p. 9.

    [69] C. Theobald, B. Saugier, J. Leroy, M. Le Maire, D. Grésillon, L’univers n’est pas surd, Bayard, Parigi 2006, p. 176.

    [70] Cit. da J. Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005, p. 21.

    [71] G. E. Rusconi, Laicità ed etica pubblica, in G. Boniolo (a cura di), Laicità, Einaudi, Torino 2006, p. 53.

    [72] D. Bonhoeffer, Un cristianesimo non-religioso, cit., p. 149.

    [73] Cfr. D. Sibony, Les trois monothéismes, Seuil, Parigi 1997, pp. 208 e ss.

    [74] S. Giovanni Crisostomo, Omelie contro gli Ebrei, cit., pp. 66-67.

    [75] Cfr. P. Flores d’Arcais, Etica senza fede, Eianudi, Torino 1992; E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Bari 2006; H. Albert, La miseria della teologia, cit.; S. Harris, La fine della fede, cit.; P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani, Longanesi, Milano 2007.

    [76] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? in Scritti politici, Utet, Torino 1956, p. 143.

    [77] B. Constant, La libertà e la nostra epoca, in Scritti politici, Il Mulino, Bologna 1962, p. 33.

    [78] E. Durkheim, L’individualismo e gli intellettuali, in La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 285.

    [79] Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, pp. 61-63.

    [80] D. C. Dennett, Rompere l’incantesimo, Cortina, Milano 2007, p. 304.

    [81] M. Teodori, Laici, Marsilio, Venezia 2006, p. 52. Secondo Giovanni Reale, “nella stesura definitiva del preambolo della Costituzione europea si è deciso di non menzionare il cristianesimo, ossia di nascondere, tacendo, un fatto che è addirittura macroscopico: non riconoscendo che il cristianesimo è stato la radice di fondo dell’Europa, non si riconosce in alcun modo la vera Europa” (Karol Wojtyla, un pellegrino dell’Assoluto, Bompiani, Milano 2005, pp. 209-210). Si tratta di una affermazione assai discutibile per almeno due motivi. Il primo è che la “vera Europa” oggi è pagana, non già cristiana; il secondo è che, introdurre nella Legge fondamentale che dovrà regolare le relazioni fra gli Europei – sia come singoli che come Nazioni –, significa sancire una inopportuna discriminazione religiosa.

    [82] A. Del Noce, L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano 1970, p. 26.

    [83] V. Ferrone e D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea, Laterza, Bari 2002, p. 39.

    [84] Secondo Gilson, “tra lo Stato pagano dell’antichità e lo Stato pagano dei giorni nostri, c’è la Chiesa cattolica, di cui lo Stato pagano di oggi rivendica e usurpa l’autorità spirituale. Proprio in quanto ateo, lo Stato moderno è di pieno diritto totalitario” (La Città di Dio e i nostri problemi, Vita e Pensiero, Milano 1958, p. 69 ).

    [85] Coloro che rimproverano al relativismo di non avere valori forti, dimenticano le spaventose conseguenze – l’Inquisizione cristiana, il Gulag comunista e i lager nazisti – delle dottrine assolutistiche, animate, per l’appunto, da valori forti.

    [86] G. Giorello, Di nessuna Chiesa, Cortina, Milano 2005, p. 15.

    [87] Cfr. G. P. Prandstraller, Relativismo e fondamentalismo, Laterza, Bari 1996, pp. 153 e ss.

    [88] H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, Il Mulino, Bologna 1966, p. 319.

    [89] Ibidem, pp. 319-320.

    [90] Ibidem, p. 320.

    [91] Ibidem, p. 329.

    [92] Ibidem, p. 329.

    [93] F. Sidoti, Politeismo dei valori, Cedam, Padova 1992.

    [94] M. Walzer, Sulla tolleranza, Laterza, Bari 2000, p. 4.

    FONTE

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    SAINT PIE X ET LE DUEL
    ENTRE PENSÉE MODERNE ET THÉOLOGIE CATHOLIQUE


    - Professeur Matteo D'Amico, au 11e Congrès des Études Catholiques de Rimini (25-26 octobre 2003) -

    Introduction


    Je vous remercie pour cette invitation à parler d'un sujet qui est indubitablement très important : le rapport, mais il faudrait plutôt dire l'inévitable conflit, entre les dérives de la pensée moderne, son nihilisme essentiel, et l'éminent magistère de saint Pie X.

    Je consacrerai la seconde partie de mon intervention à une brève analyse de Pascendi; mais je commencerai par un bref rappel historique de l'évolution de la philosophie antique, médiévale et moderne, pour comprendre comment nous avons pu arriver à ces formes de pensée que saint Pie X condamne justement dans Pascendi avec grande fermeté et sévérité.

    - 1ère partie -

    Bref historique de l'évolution de la philosophie


    Il faut tout d'abord faire un bref préambule : à un regard mystique, à un regard catholique, à un regard de foi, l'histoire ne peut pas ne pas apparaître comme l'histoire d'un unique grand conflit qui synthétise tous les autres : le conflit entre l'Église et le monde. Saint Jean Bosco disait que l'histoire se réduit à être l'histoire de la lutte pour ou contre l'Église du Christ.

    Donc tous les événements, les faits, les formes culturelles sont comme la toile de fond sur laquelle se détache l'histoire de l'Église, toujours attaquée et combattue sur le plan matériel et pratique - et nous pensons aux grandes persécutions - mais également attaquée sans pitié sur le plan intellectuel, culturel, philosophique. Nous avons l'habitude d'accorder une grande importance, quand nous étudions l'histoire, aux moments où l'Église a été assaillie frontalement et explicitement - nous pensons aux grandes persécutions romaines des premiers siècles, à l'Angleterre élisabéthaine, à la révolution française, aux Cristeros du Mexique - et elle a en effet été attaquée physiquement, assaillie et persécutée dans son identité par la force, par la terreur, par la violence physique ; mais nous ne devons pas oublier qu'il est peut-être encore plus important de connaître les moments où l'Église a subi des atteintes à son identité sur le plan culturel, spirituel, philosophique : ce sont peut-être les attaques les plus fortes. Aujourd'hui, nous ne voyons pas, du moins dans le monde occidental, et du moins pour l'instant, de persécution directe ou déclarée de l'Église, mais nous savons qu'au fond, le massacre culturel et théologique dont nous sommes hélas les témoins est peut-être une blessure encore plus profonde que la violence totalitaire, une menace encore plus grave et subtile.

    L'importance pour la foi d'une défense vigilante de sa dimension philosophique apparaît donc clairement. La foi, depuis qu'elle s'affirme avec l'Église des premiers siècles, tente aussitôt de se penser, de se comprendre, et elle le fait en utilisant la raison, le logos, en utilisant les instruments que la philosophie de ce temps lui fournissait. Nous savons tous que saint Augustin a été un lecteur attentif et studieux de Plotin, par exemple.

    Mais dans le rapport fides et ratio, il est évident qu'il y a aussi des risques. Le risque le plus grand, c'est que la donnée de foi soit pliée et déformée par les exigences de la raison, et que l'on n'ait pas d'opération attentive et prudente d'interprétation et de clarification par la raison de la donnée de foi, opération qui doit toutefois préserver la distinction entre ce qui demeure mystère et ce qui se prête à un processus d'ostension argumentative plus étendu. Chacun sait, en effet, que la majeure partie des hérésies qui ont affligé l'histoire de l'Église ont, entre autres, été le résultat de tentatives erronées de rationalisation de la donnée de foi, une réduction de la foi à la mesure de ce qui peut être compris par la raison : nous avons déjà ici, en un certain sens, énoncé l'essence du modernisme qui, pour résumer à l'extrême, peut être défini comme la tentative de supprimer de la religion chrétienne tout élément surnaturel.

    La pensée grecque

    Pour comprendre l'importance, pour le monde catholique, d'une vigilance intellectuelle et culturelle sur l'évolution de la philosophie, il nous faut maintenant faire quelques brèves réflexions sur la pensée grecque. Nous devons les faire parce que, d'une certaine façon, la philosophie parle grec. Bien qu'aujourd'hui, nous utilisions des langues différentes, la conceptualité philosophique de base est grecque. Et la pensée chrétienne médiévale, par exemple, se fonde indubitablement sur une acceptation de tous les aspects fondamentaux de la pensée grecque.

    La pensée grecque naît comme pensée réaliste. La grande métaphysique grecque, la majeure partie des grands penseurs - Platon, Aristote - sont des penseurs que nous pouvons certainement qualifier de réalistes[1]. C'est le cas d'Aristote, en particulier, qui est le penseur sur lequel s'est fondée la pensée scolastique, la pensée de saint Thomas.

    Or parler de réalisme signifie tout d'abord que pour la pensée grecque, si nous prenons comme point de repère idéal la métaphysique d'Aristote, il aurait été tout simplement absurde d'émettre des doutes sur l'existence réelle de l'être en dehors de la pensée, doutes qui sont au contraire, nous le verrons, typiques de la pensée moderne. Pour la pensée grecque ne se pose même pas le problème du doute gnoséologique, le problème du doute au sujet de la capacité de l'homme à connaître l'être. L'être se donne en toute évidence comme donnée originelle, comme quelque chose qui précède et fonde notre geste cognitif.

    Dans certaines de ses pages, la pensée grecque est sublime, c'est vraiment une contemplation de ce que nous pourrions appeler le triomphe de la vérité de l'être. L'être est le sens pleinement déployé, offert au geste de la raison de l'homme qui veut le saisir, qui peut le saisir, car telle est la grande découverte grecque : la raison de l'homme est de fait ouverte originellement à l'être, son essence même consiste à s'ouvrir à l'être et à en saisir la vérité, à en comprendre le sens.

    Définir la philosophie grecque comme philosophie réaliste[2] signifie dire qu'elle est une philosophie ouverte à la transcendance de l'être, à la transcendance de la vérité sur le sujet.

    Le fondement, l'absolu, et en dernière instance Dieu, me transcendent, existent avant moi et sont autres, et penser signifie s'ouvrir à cette luminosité originelle de l'être[3]. Ce n'est pas la pensée qui crée l'être, c'est l'être qui est saisi dans sa vérité par la pensée. Nous ne pouvons jamais oublier ce commencement, car cela reviendrait à égarer le fondement de ce que nous verrons par la suite être la pensée médiévale.

    Seconde observation (et nous aurons presque terminé cette incise sur la pensée de l'antiquité) : la pensée grecque, chez ses représentants les plus lumineux et les plus profonds, et j'insiste ici pour nommer une fois encore Platon et Aristote, mais aussi Plotin, est une pensée théiste. Sans la force et l'aide de la Révélation, mais en n'utilisant que la raison, en l'utilisant sur la base des principes logiques dont les Grecs eux-mêmes découvrent qu'ils sont propres à la pensée (et en même temps des catégories de l'être) - le principe de non-contradiction, d'identité les Grecs arrivent à Dieu, ils arrivent à démontrer, en partant de l'observation du monde, de la nature, de la réalité ou de l'âme de l'homme[4], que Dieu existe, qu'il ne peut pas ne pas exister.

    En simplifiant beaucoup, cette notion de théisme de la pensée grecque peut être exprimée de la façon suivante : puisque l'évidence originelle est que la réalité a du sens, que la réalité est la splendeur de la vérité, la splendeur du sens qui s'offre à mon regard, à ma connaissance, il ne peut pas ne pas y avoir un fondement de cette significativité, de cette vérité de l'être, il ne peut pas ne pas y avoir un absolu, et cet absolu, cette cause première de tout sens et de toute vérité ne peut pas ne pas être Dieu. Puisque ma raison saisit la vérité de l'être, la Vérité doit être la condition originelle de possibilité de l'être lui-même (aucun sens d'un être individuel n'est possible si ce n'est à partir du sens du Tout qui le fonde et dont il provient).

    Il doit en somme y avoir un fondement ultime pour expliquer cette luminosité extraordinaire de l'être qui précède le regard que je jette sur lui.

    Les Grecs, donc, par l'usage de la seule raison, arrivent à affirmer l'existence de Dieu. Ils n'ont pas la Révélation, ils n'ont pas encore connu le Dieu qui parle à l'homme par ses prophètes, qui du haut de sa majesté se penche sur l'homme pour lui révéler son cœur de créateur plein de miséricorde pour ses créatures, son cœur de Père; ils ont d'autant moins la plénitude de vérité qui ne sera possible qu'en Jésus-Christ, vrai Dieu et vrai homme. Telle est la déficience fondamentale de la pensée grecque, qui fait pourtant tout ce qu'il est possible de faire dans l'effort de penser Dieu sans l'aide de la Révélation, ce qui est décidément beaucoup.

    La pensée chrétienne

    Les grands philosophes chrétiens, saint Augustin principalement, s'aperçoivent tout de suite que la pensée grecque a eu dans une certaine mesure un rôle providentiel, que ce n'est pas par hasard si le christianisme, lorsqu'il rencontre l'empire romain, son ius, son ordre, ses extraordinaires voies de communication dans lesquelles il peut se déployer, rencontre aussi la conceptualité et la philosophie grecques.

    Mais dans la pensée grecque, nous l'avons vu, il y a un problème de fond : les Grecs ne peuvent pas penser le néant, et ce parce qu'ils ne peuvent pas penser l'univers comme créé. C'est une idée qui est radicalement absente de la pensée grecque. L'univers n'est pas créé, il ne peut donc pas provenir du néant[5]. Dans la philosophie grecque, même la plus élevée, il y a toujours une équivoque de fond, il y a toujours une zone d'ombre qui doit être bien comprise aussi dans la perspective de ce qui sera la pensée moderne : si le monde n 'est pas créé, il n'y a plus de différence radicale entre Dieu - le principe, le fondement - et le monde lui-même. Mais alors les deux dimensions, le monde et le principe, l'absolu, Dieu, tendront à se confondre. Le monde sera représenté, en quelque sorte, comme un moment de la vie de Dieu, ou même, de façon panthéiste, comme Dieu lui-même. Mais si en définitive il y a une seule substance, et si cette substance est Dieu - que l'on me pardonne cette extrême simplification - l'homme ne peut pas être vraiment personne au sens chrétien du terme, mais il sera, dans la meilleure des hypothèses, quelque chose de particulier ayant en soi une étincelle du divin; mais, et ceci est important pour comprendre la pensée gnostique, le but de la vie de l'homme ne pourra que consister alors à tenter de dépasser son individuation personnelle subjective, de se fondre avec le principe premier, par des techniques et des modalités diverses, abandonnant ainsi cette « prison » que constitue notre corporéité, notre forme personnelle unique, qui pour les Grecs et pour Platon lui-même, par exemple, est dans une certaine mesure « malédiction », négativité absolue. Il n'est pas bon d'avoir une existence personnelle et individuelle, mais il faut revenir à l'union avec le principe dont nous provenons et qui se manifeste en nous. La conséquence la plus importante de cette thèse métaphysique, c'est qu'alors une véritable idée de liberté n'est plus possible. Il ne peut y avoir de liberté au sens fort et plein du terme, qui est uniquement chrétien, là où il n'y a pas le geste créateur originel de Dieu. La liberté n'est possible au sens chrétien, personnel, spirituel, que là où il y a effectivement création ex nihilo sui et subiecti, là où l'Absolu ne coïncide pas avec le monde, mais au contraire là où Dieu et le monde sont séparés par l'abîme du néant d'où tout ce qui existe est tiré par le geste créateur divin. Autrement dit : la liberté n'est possible que comme liberté créée.

    La fracture entre vision grecque et vision chrétienne, déjà exposée de façon très claire par saint Augustin, est donnée par l'idée de création. L'idée de création était justement quelque chose d'inconcevable pour la raison grecque, mais peut-être est-elle inconcevable en général pour quiconque se trouve en dehors de la Révélation et de la vie de foi. Pour les Grecs, l'univers - et l'homme dans celui-ci - avait une vie cyclique, circulaire, éternelle, et tout était destiné éternellement à revenir et à se répéter en une grande année d'où aucune évasion n'était possible, et où on ne pouvait pas penser le néant. La grécité est marquée par une horreur du vide, par un refus bien compréhensible du néant, qui influence tout. Cette horreur influence même les mathématiques, par exemple, qui ne se développent pas car elles ne possèdent pas le concept de zéro, qui est tardif et postérieur, et qui est l'un des fruits de la culture de matrice monothéiste. Or nous savons bien que c'est sur cette idée de fond qu'est bâtie la pensée chrétienne. L'infinie puissance du geste créateur de Dieu ouvre une nouvelle perspective sur l'homme, et rend à la fois possible une nouvelle représentation de l'être et de l'absolu.

    Lorsqu'on parle de création, il est toutefois nécessaire de se situer précisément dans un juste milieu entre deux perspectives non chrétiennes dans leur essence.

    La première perspective erronée, nous l'avons déjà comprise - et c'est une tentation récurrente même chez des penseurs chrétiens (un théologien bien connu ayant cédé à cette tentation est Teilhard de Chardin) : nous voulons parler du risque que représentent toutes les conceptions évolutionnistes du cosmos, de la nature et de l'histoire qui souvent se fondent, se superposent de façon non orthodoxe, non correcte, altérant très gravement le depositum fidei. Le premier risque est donc celui-ci : ne pas réussir à maintenir dans une juste séparation Dieu et le monde, et donc aussi Dieu et l'homme; ne pas réussir à penser avec une vigueur intellectuelle suffisante la transcendance de Dieu. Si nous ne faisons pas cela, voilà que nous glissons de nouveau, peut-être sans nous en apercevoir, dans des formes de panthéisme plus ou moins larvé : Dieu n'est plus pensé comme vraiment séparé du monde.

    Le second risque est intéressant, et il est tout aussi important de bien le comprendre : c'est le risque typique de certaines formes de gnose, où Dieu est totalement autre, il est le totalement autre (le Ganz Andere), il est le totalement séparé de ce monde déchu, négatif, fruit d'un démiurge malfaisant et oppresseur de l'homme, où la matière, la chair, tout est mauvais de façon radicale, parce que le monde est totalement déshabité de Dieu. Cette vision, qui est typique de certaines formes de gnose ancienne, est intéressante, parce qu'elle est profondément antichrétienne. Le Dieu chrétien, en effet, est un Dieu autre par rapport à l'homme et au monde, mais il n 'est pas un Dieu totalement autre, il n'est pas le totalement autre de certaines formes de gnose[6]. Si nous acceptons cet excès d'« éloignement de Dieu », qui réapparaît dans la philosophie et dans la théologie postmodernes et nihilistes, si nous pensons Dieu comme totalement autre, toute la dynamique sacramentelle s'écroule, et avec elle toute la dynamique ecclésiale. Les sacrements chrétiens, fondés sur l'incarnation, la passion, la mort et la résurrection du Fils de Dieu, de la deuxième Personne de la Trinité, sont le plus grand exemple de la façon dont ce Dieu, qui est certes radicalement autre par rapport à l'homme et au monde, n'en est pas pour autant le totalement autre.

    Le second risque, donc, est la totale altérité de Dieu. Mais, assistés par le Saint Esprit, les grands penseurs chrétiens savent bien évidemment se situer dans un juste milieu, au plan ontologique, entre immanence de Dieu et totale altérité de Dieu, et le penseur qui parvient à trouver cette médiation avec une rigueur intellectuelle exemplaire n'est autre que saint Thomas, avec sa doctrine de la participation, et sa réinterprétation de la doctrine aristotélicienne de l'analogie de l'être, que saint Thomas approfondit à la lumière de la catégorie clé de création.

    Nous ne pouvons pas nous attarder plus longtemps sur ces subtilités et sur la terminologie. Il nous suffira de dire que le sens est celui d'une représentation de l'essence des êtres et du monde pour laquelle, bien que le monde et l'homme soient séparés de Dieu, il y a un rapport d'analogie pour lequel les êtres et les choses existent dans la mesure où ils participent de l'être suprême, c'est-à-dire Dieu.

    L'Être en tant que tel est Dieu, mais les êtres eux aussi ont part à cet Être. Naturellement, l'une des conséquences de cette réflexion est d'éviter tout risque de panthéisme[7]. Si tout ce que nous avons dit jusqu'à présent est suffisamment clair, alors nous sommes prêts à faire un pas en avant.

    Face à la Summa de saint Thomas, nous nous trouvons face à quelque chose de si grand, de si accompli, de si lumineux, qu'il semble incroyable que le mot Scolastique soit devenu synonyme de quelque chose d'abstrus, d'ennuyeux, inutile et désormais dépassé. À part des esprits d'une géniale profondeur, comme Fabro que nous venons de citer, il est aujourd'hui rarissime de trouver des philosophes qui aient le courage de prendre véritablement saint Thomas et les autres grands penseurs médiévaux comme point de repère fondamental de leur recherche; même dans les séminaires, plus personne ne l'étudie. En revanche, les jeunes prêtres auront lu Heidegger et Nietzsche, sinon même Freud, avec les conséquences qu'il est aisé d'imaginer sur leur vocation et leur apostolat.

    Et de fait on constate qu'il est impossible de réactualiser la tradition scolastique sur le plan théorétique, si l'on n'est pas tout d'abord laborieusement rééduqué à voir quelle aura de luminosité enveloppe notre passé, à voir le halo de lumière qui enveloppe tout ce qui nous précède au cours des siècles et nous fonde comme objets. Ce halo de lumière, cette splendeur qui émane des choses, inonde aussi le présent et nous nourrit à notre insu de sa beauté.

    La Somme a ceci d'extraordinaire qu'elle peut être considérée comme le plus grand exemple d'honnêteté intellectuelle dans le domaine de la recherche philosophique. Pensez que, pour trois mille argumentations, sont citées environ dix mille objections ! La méthode scolastique est le seul exemple, qui se manifeste de façon particulière chez saint Thomas, d'incorporation in extenso, avec citations détaillées, de toutes les positions de philosophes ou de théologiens en opposition à ce que le philosophe en question veut soutenir. Il est presque impossible de comprendre l'incroyable transparence spirituelle et la sainteté de qui a le courage de philosopher de cette manière.

    C'est comme si aujourd'hui certains sophistes - je regrette d'employer un terme aussi fort, mais parfois nous nous trouvons vraiment face aux plus vulgaires sophistes qui osent écrire des textes de philosophie - n'acceptaient aucune de leurs thèses sans avoir au préalable cité intégralement et réfuté toutes les positions contraires. Mais attention : réfutation développée, considérant les prémisses de l'adversaire comme vraies et démontrant qu'en se fondant sur elles, on en arrive à d'inévitables contradictions. J'espère être parvenu à donner une image claire de la rigueur intellectuelle et de la discipline rationnelle et morale qu'implique l'adoption de la méthode scolastique.

    Or la question que nous devons nous poser est de savoir comment il est possible qu'après l'immense édifice de la Somme - le seul livre, a-t-on affirmé, qui pourrait être placé sur un autel à côté de l'Évangile - et de toute la pensée de la Scolastique, il arrive ce qui arrive, c'est-à-dire qu'en l'espace d'un siècle et demi commence une sorte d'apostasie intellectuelle de la grandeur de la pensée catholique. C'est bien de cela qu'il s'agit : une véritable et incroyable apostasie intellectuelle.

    L'influence de la pensée cabalistique juive, la magie de la renaissance, la science galiléenne : vers la genèse de la pensée MODERNE

    Certains historiens et certains philosophes, comme par exemple Julio Meinvielle[8], prêtre argentin et infatigable défenseur de la Tradition, ou encore Francis Secret, auteur du livre « Cabalistes chrétiens à la Renaissance », font un inventaire impressionnant d'auteurs cabalistes chrétiens, c'est-à-dire de penseurs et d'hommes de culture chrétiens qui, au XVe et au XVIe siècles, commencent à se consacrer à l'étude de la cabale juive, à l'étude de la gnose apocryphe juive.

    Cette gnose apocryphe est en fait, selon les historiens, bien antérieure à la venue du Christ, précédant l'avènement du christianisme : selon une très intéressante tentative d'interprétation, certains passages de l'Évangile, dans lesquels Jésus fulmine contre les pharisiens qui ferment les portes qui mènent au salut, et qui chargent les fidèles de poids insupportables qu'ils ne portent pas eux-mêmes, peuvent être réinterprétés comme une allusion à cette gnose qui dominait déjà du temps de Jésus une certaine partie du clergé juif, qui avait conservé secrètement une partie des cultes idolâtres appris pendant les longues années de l'exil babylonien[9].

    La cabale se répand surtout en Italie, elle séduit même des figures de premier plan du clergé, par exemple de la curie romaine ; tout le monde est plus ou moins fasciné par cette vision gnostique particulière, et la liste des intellectuels qui ont eu des contacts avec la cabale est impressionnante : ce sont des dizaines et des dizaines d'hommes de culture ou d'Église (les deux catégories étaient d'ailleurs à peu près équivalentes); presque tous les hommes de culture approchent cette forme de gnose juive. Les plus célèbres, nous les connaissons : ce sont Lulle, Pic de la Mirandole, Marsile Ficin, plus, pour une certaine période de sa vie, Thomas More en Angleterre, qui ensuite mourra martyr, mais qui avait étudié Pic de la Mirandole. Érasme de Rotterdam est lui aussi en contact avec ces textes.

    Nous assistons donc à la dissémination d'une doctrine très particulière, qui influence la science moderne. En effet, il est désormais démontré, au-delà de tout doute possible, que la science moderne doit beaucoup à la magie de la renaissance et à sa grande influence culturelle ; mais la magie de la Renaissance est fille naturelle de la cabale juive. Prenons un seul exemple, très banal d'ailleurs, car très connu : Kepler, qui développe les grands théorèmes fondamentaux d'astrophysique pour Newton, était un magicien : son travail consistait à faire les horoscopes de princes, comtes, ducs ; il avait même été invité à la cour de Rodolphe d'Habsbourg, l'empereur devenu fou par la suite, qui dans sa cour à Prague avait créé un cénacle de devins et de magiciens, où Giordano Bruno fera lui aussi une apparition. La mère de Kepler avait été poursuivie pour sorcellerie ; cela peut paraître secondaire, mais il est curieux que cela arrive justement à cet homme-là.

    Quant à Newton, il est au-dessus de tout soupçon pour ce qui est de la valeur scientifique; mais tout le monde ne sait peut-être pas que sa véritable passion était l'alchimie et l'ensemble de toutes les disciplines ésotériques. Pendant de nombreuses années, il étudie l'Apocalypse de saint Jean et la Sainte Bible en termes cabalistiques, numérologiques et magiques, et il arrive même, dans un texte qui a été étudié récemment, à définir l'année 2020 comme l'année de la fin du monde sur la base de ses calculs ésotériques[10]. Cela ne peut pas ne pas nous étonner. Comment? Newton, le fondateur de la méthode de la science moderne, passionné de cabale et de numérologie? Le fait est qu'il n'y a pratiquement pas un philosophe ni un grand scientifique au XVIe siècle qui n'ait eu des rapports très importants, des rapports organiques, avec la pensée magique. Et les racines de cette pensée magique se trouvent en réalité dans la cabale juive, dans le Zohar, dans toute une série de textes qui émergeaient à cette époque. Les maîtres de ces philosophes sont en fait des rabbins juifs qui enseignent l'hébreu, et qui enseignent aussi les doctrines secrètes liées à leur religion talmudico-cabalistique.

    Francis Yates, dans son étude la plus connue[11], reconstitue la trame de cette diffusion presque incroyable de la pensée magique en Europe aux XVe et XVIe siècles[12].

    Il nous faut mieux comprendre, à présent, quel est le véritable rapport magie-science, car il s'agit d'un point déterminant pour la pensée moderne tout entière. La science moderne est, dans une certaine mesure, la seule vraie grande nouveauté culturelle dans laquelle Descartes, et les autres penseurs qui l'ont suivi jusqu'à Kant, par l'effort qu'ils déploient pour penser et fonder cette science, manipulent l'ontologie classique gréco-chrétienne sur un point essentiel que nous allons bientôt identifier[13].

    La science, avec ses thèses méthodologiques, implique en somme une modification radicale de l'ontologie gréco-chrétienne, un changement radical du paradigme gnoséologique et métaphysique médiéval. Il s'ensuit que nous ne comprenons pas la pensée moderne si nous ne la pensons pas à la lumière de cette rupture de fond provoquée par la science.

    Le rapport magie-science

    Mais nous devons clarifier avec plus de précision encore à quel niveau se place le rapport science-magie. Commençons donc par une première analyse. Nous savons qu'il n'y aurait pas eu la Renaissance italienne sans les grandes traductions des textes platoniciens et néoplatoniciens faites par Marsile Ficin pour la cour des Médicis, une cour, comme toutes les cours de la Renaissance, pétrie de thèmes magiques dans l'architecture, les statues, les bâtiments.

    La chute de Byzance en 1453 provoque une fuite massive de savants de Byzance vers l'Italie, accueillis par les cours italiennes et porteurs de textes d'une rare importance. Or, quand Côme de Médicis ordonne à Ficin de traduire ces textes - nous avons, entre autres, tout Platon, tout Plotin, Proclus et les textes magiques du Corpus Hermeticum - il faut noter un détail très intéressant : nous pensons d'instinct qu'il aurait été opportun de traduire avant tout Platon; au contraire, l'ordre est donné de traduire tout d'abord les textes magiques attribués à la figure mythique de Hermès Trismégiste[14], et la lecture de Platon, de la métaphysique platonicienne, néoplatonicienne et pythagoricienne est une lecture développée à partir de clés d'interprétation de type magique, hermétique. La Renaissance lit en un sens magique la grande métaphysique platonicienne et néoplatonicienne ; elle en fait donc une lecture intrinsèquement gnostique, ou, si l'on préfère, « gnosticisante », tangentiellement gnostique. En quoi consiste cette lecture? Ou bien : comment la magie influence-t-elle la métaphysique? Commençons par observer le fait qu'à travers Jamblique et les autres penseurs, les autres spécialistes de magie et les magiciens antiques sont redécouverts (et placés aux côtés des textes cabalistiques déjà cités), la lecture de la métaphysique a une orientation platonicienne, alors que la métaphysique de saint Thomas avait un barycentre certainement aristotélicien, et donc plus réaliste. Mais ce n'est pas tout : le Platon qui ressort de cette action de valorisation et de redécouverte est un Platon « pythagoricien », c'est-à-dire un Platon numérologique, c'est un Platon qui éduque les scientifiques de ce temps, qui sont en grande partie aussi des magiciens, ou du moins initiés à l'hermétisme, à lire la réalité comme si ce qui est vrai dans la réalité était non pas ce qui paraît, mais ce qui est chiffré, caché, enseveli sous l'apparence sensible. La science moderne à son aurore, dans le sillage de cette approche magique, numérologique, gnosticisante, de cette inspiration pythagoricienne de fond, lit donc la réalité sensible, le témoignage des sens, comme un moment mort sur le plan cognitif, un moment stérile, incapable de donner accès à la splendeur de la vérité dont parlaient pourtant Platon et Aristote. La réalité est cachée au-delà de l'apparence sensible et donc, cela va de soi, seul l'initié, seul le magicien - ou, bientôt, seul le scientifique - peut accéder à cette réalité.

    Or, sur la base des prémisses développées jusqu'ici, nous sommes en mesure de comprendre que la science moderne a ceci de profondément différent par rapport à la pensée gréco-classique et chrétienne : elle est radicalement anti-intuitive. La pensée classique - il suffit de lire Aristote, Sénèque ou saint Thomas pour s'en rendre compte - est telle que quiconque fait l'effort de prendre ces textes en main se sent pour ainsi dire chez lui, car il y a une correspondance naturelle, une homogénéité entre sens commun et métaphysique classique. La métaphysique classique, même dans ses points les plus élevés ou abstraits, reste intelligible, elle reste communicable, parce que mon sens commun se sent chez lui et comprend sa conceptualité de base. Inversement, la science moderne est radicalement anti-intuitive, c'est un discours sur l'homme qui nie l'évidence la plus immédiate, et adopte comme principe méthodologique fondamental cette négation. De cette façon naît l'image du monde de la nouvelle science galiléenne, à l'intérieur de laquelle les sens ne nous garantissent plus un accès significatif à l'être et au vrai[15], et où le problème n'est plus la connaissance de la vérité de l'être, mais la mesurabilité, la réduction à des rapports quantitatifs de l'être lui-même (sur la base du nouveau paradigme gnoséologique pour lequel seul est vrai ce qui est mesurable).

    Nous pouvons comprendre, à présent, l'immanentisme moderne, pour employer un terme un peu difficile, mais que je voudrais vous rendre plus familier, car l'encyclique Pascendi fait souvent référence à cette notion.

    Nous avons un peu peiné pour en arriver jusqu'ici, mais nous avons maintenant les bases pour comprendre ce qui « mijote sous le couvercle de la marmite », ce qui est sur le point de se passer sur la scène philosophique et ce qui se passe maintenant, et que je chercherai à décrire le plus simplement possible : nous verrons que cela a une importance théologique particulière.

    Descartes

    Nous en sommes donc à Descartes. Descartes, on le sait, est considéré comme le fondateur de la pensée moderne. C'est certainement vrai, mais c'est vrai dans la mesure où nous pensons à Descartes comme au premier métaphysicien qui cherche consciemment à fonder la science. Il était clair que, déjà avec Galilée, la science dévalorisait l'expérience sensible, mais on ne savait pas quelle métaphysique il fallait construire pour être en cohérence avec cette idée. Descartes est le premier à s'engager dans cette voie, et il sera suivi par presque tous les penseurs les plus importants (ou considérés comme tels). Prenons l'exemple de Kant : toute sa philosophie est une tentative explicitement déclarée de fonder la physique de Newton : qu'est-ce qui fait que la science, cette image bizarre et abstruse du monde, soit possible sur le plan métaphysique, voilà la question fondamentale qui gouverne la première critique kantienne.

    On commence donc à essayer de plier le discours métaphysique afin de le rendre cohérent avec l'image du monde issue de la tradition, d'abord magique, puis scientifico-galiléenne.

    On peut dire que c'est une formidable torsion de significations et de catégories qui commence, dans le but de réussir à redire la métaphysique en termes scientifiquement homogènes et cohérents. La pensée classique était fondée, comme nous l'avons vu tout à l'heure, sur le principe suivant lequel penser signifie laisser apparaître l'être, laisser apparaître quelque chose d'autre, en s'identifiant avec ce quelque chose, si bien que le sujet connaissant ne fait qu'un, en quelque sorte, avec l'objet connu; il n'y a donc pas une nature de la pensée comprise en tant que telle en dehors du moment où elle se laisse, pour ainsi dire, remplir par la signification de l'être. Avec Descartes, on assiste à la destruction de ce principe. L'idée devient une simple image mentale qui s'interpose entre la pensée et la réalité.

    En partant de telles bases, l'issue ne peut être que le scepticisme, et on a l'adoption méthodologique d'un principe qui devient décisif pour Descartes, à savoir le principe suivant lequel en dehors de la pensée, il pourrait ne rien y avoir. C'est précisément la phrase que Descartes écrit dans le Discours de la méthode : en quelques lignes, il met un point final à la métaphysique classique : « Ainsi, à cause que nos sens nous trompent quelquefois, je voulus supposer qu'il n'y avait aucune chose qui fût telle qu'ils nous la font imaginer. (...) Considérant que toutes les mêmes pensées que nous avons étant éveillés nous peuvent aussi venir quand nous dormons, sans qu'il y en ait aucune pour lors qui soit vraie, je me résolus de feindre que toutes les choses qui m'étaient jamais entrées en l'esprit n'étaient non plus vraies que les illusions de mes songes »[16]

    L'expression employée par Descartes, «je me résolus de feindre », est intéressante : je fis semblant de penser que tout ce que je croyais être vrai n'était pas vrai, et qu'en dehors de mes sens, il n'y avait pas de réalité ». Ce ne sont que quelques lignes, et elles jettent les bases de ce château extraordinaire - ce monstrum - qu'est la pensée cartésienne.

    Remarquez que les phrases que nous venons de citer auraient fait rire, le terme n'est pas trop fort, un saint Thomas ou un Aristote, rire en ce sens que si on les lit avec le regard rigoureux de la métaphysique classique ou thomiste, il est presque incroyable que l'on puisse seulement partir d'une thèse sceptique de ce type, car nous savons très bien que toute thèse sceptique - saint Augustin l'avait déjà très bien démontré - donne immédiatement naissance à un grand cercle vicieux, si bien que le scepticisme radical est de fait impossible. Le scepticisme est à peine plus qu'une forme grotesque d'infantilisme philosophique, et sa profondeur n'est qu'apparente.

    Le sceptique devrait se taire, car s'il parie, il entre immédiatement dans des contradictions insolubles. En effet, même le sceptique le plus radical, lorsqu'il parle, ne peut pas faire autrement que de croire à l'absoluité de la vérité de son instance sceptique. Mais Descartes, lui, n'a aucune pudeur, et il n'a pas peur de partir de ce principe. Je vous rappelle au passage qu'il avait une sorte de dégoût et de haine pour la philosophie scolastique qui lui avait été transmise pendant ses années d'études, et ce détail explique bien des choses. On voit ici à l'œuvre pour la première fois le présupposé naturaliste, qui est l'expression philosophique qui décrit ce que nous venons de voir placer à la base de la philosophie cartésienne.

    Cela signifie que Descartes fonde sa stratégie de pensée sur un présupposé sans fondement, une thèse non démontrée et non démontrable, un véritable postulat injustifié.

    Et quelle est l'essence de ce présupposé naturaliste? Le présupposé naturaliste dit ceci : notre esprit ne saisit pas les choses, les choses en tant que telles, en elles-mêmes, comme le pensaient Aristote et saint Thomas, mais il ne saisit que les modifications psychophysiques de nos sens. Avoir une sensation, pour Descartes, signifie avoir un rapport non pas avec le monde, mais avec une modification psychophysique qui se produit en moi : tel est le postulat cartésien, et c'est le « péché originel » de la pensée moderne, c'est la source de l'immanentisme métaphysique moderne.

    Le postulat classique est lui aussi un postulat, mais un postulat opposé à un autre postulat ne suffit pas pour le réfuter. Et il y a une différence encore plus importante : les principes dont partaient les classiques étaient parfaitement cohérents et en continuité avec le sens commun, ils étaient donc « certifiés crédibles » par un consensus gentium implicite et universel.

    Nous sommes donc, avec ce grand philosophe, face à un choix dogmatique, à un choix de nature fidéiste. Descartes a confiance en son postulat : on ne regarde pas ce qui est donné à la connaissance avec cet étonnement et cette stupeur dont parlait Aristote, mais on a déjà décidé que ce qui est réel, c'est la chose en soi comprise comme quelque chose de physique et de matériel et que, par conséquent, je ne peux plus connaître réellement le monde extérieur dans sa véritable essence, parce que je ne connais que les modifications psychophysiques que la chose imprime à mes sens. Dans une telle perspective, on est en outre contraint de renoncer à l'autre catégorie clé de la gnoséologie gréco-chrétienne, à savoir l'idée que l'intelligence, à travers les sens, atteint la forme ou essence de l'être en soi, si bien que le geste cognitif n'est jamais seulement sensible, mais aussi toujours et avant tout intellectif. Puisque le présupposé matérialiste n'accorde a priori le titre de réel qu'à ce qui est matériel, il est évident qu'il est contraint de chasser de la nouvelle métaphysique toute idée de forme essentielle, et à renoncer ainsi à toute ontologie harmonieuse de la substance[17].

    Dans ces conditions, l'homme n'a plus accès à l'être, et c'est comme s'il était enfermé en lui-même : telle est, en définitive, la découverte, si l'on peut dire, du cogito. Si je n'ai plus accès à l'être, que me reste-t-il comme sujet de connaissance? Il me reste cet ensemble d'idées qui existent pourtant, parce que je vois que j'ai un esprit traversé par un flux idéatif que je gouverne, mais aussi par lequel je suis dépassé et possédé (Freud et Sartre attendent déjà derrière la porte, comme on voit!). Je n'ai en moi que ce matériel idéatif, qu'il est si facile de confondre avec un rêve; mais je n'ai plus aucune possibilité de penser que ma raison atteint et saisit l'être en tant qu'être.

    Ma pensée ne saisit que ses pensées, si vous me permettez de le dire ainsi. On a alors une inévitable réduction de type rationaliste, subjectiviste, immanentiste. La vérité, le sens - s'ils se trouvent quelque part - ne sont et ne peuvent venir que de la raison de l'homme.

    La vérité, si elle doit jaillir de quelque part, ne pourra jaillir que de la pensée. Ce n'est plus l'être qui fonde et domine la pensée, mais c'est la pensée qui devra, par d'étranges tours sur elle-même, refonder l'être et refonder Dieu, et poser en être tout ce qui est ; tout partira de ce cogito enfermé en lui-même, interdit d'un rapport ontologiquement fécond avec le monde.

    Voilà le geste fondamental de Descartes. Si je ne peux me fier qu'aux contenus qui s'agitent à l'intérieur de mon cogito, je devrai partir de ces contenus et, en me fondant sur eux, remonter à tout le reste : au monde, à Dieu, à l'absolu, à la signification des choses; mais c'est mon cogito, ma raison, qui constitue le fondement. Telle est la dérive anthropocentrique qui, bien avant de frapper notre pauvre Karl Rahner, a déjà frappé Descartes[18].

    L'anthropocentrisme est l'essence de la Renaissance, mais il est aussi, en réalité, l'essence de la gnose apocryphe cabalistique, et il représente en dernière instance une déification de l'homme, un sujet sur lequel nous devrons bientôt revenir. Nous sommes ainsi placés face à au grand geste de pensée, geste sacrilège, qui se trouve à l'origine de la culture et de l'histoire moderne. En effet on a déjà avec Descartes, bien qu'implicitement, l'affirmation de cette radicale - et fatale - distorsion métaphysique : si c'est le cogito qui fonde l'être, l'être n'est plus fondé par Dieu, et la pensée n'a plus de maître à écouter, à savoir la réalité. Toute la philosophie moderne n'est rien d'autre qu'une variation sur ce thème.

    Il y a ensuite des détails que l'on passe en général sous silence : Paul Arnold, dans son Histoire des Rose Croix[19], consacre un chapitre dense et important au rapport entre Descartes et les Rose Croix. C'est un sujet très intéressant, même si certains aspects restent dans l'ombre : on ne sait pas avec certitude si Descartes fut ou non un Rose Croix, s'il eut seulement de la sympathie pour ce mystérieux mouvement. Mais il est important de rappeler que les Rose Croix ont eu une grande importance dans l'histoire politique et culturelle de l'Europe moderne, et il est certain que Descartes a eu d'intenses rapports avec la tradition Rose Croix. La même observation peut être faite pour Bacon (un autre philosophe de la « nouvelle science » et du « monde nouveau »), Comenius, Spinoza, Leibniz. Cette remarque sur Descartes et les Rose Croix me semble mettre en évidence un trait constant : lorsqu'on abandonne les sentiers sûrs de la doctrine catholique, de la saine métaphysique, du Magistère, il est rare que cela ne débouche pas, d'une façon ou d'une autre, sur des instances magico-ésotériques. Cela est vrai à tout niveau, même au niveau politique : nous pensons aux rapports entre « risorgimento » italien et ésotérisme, entre nazisme et magie, mais aussi entre marxisme-bolchévisme et lignes de tension à caractère satanique et magique.

    En nous appuyant sur la compréhension des raisons de la dérive subjectiviste du cogito cartésien, nous sommes prêts à aborder la pensée qui l'a suivi, et qui n'est qu'une grande variation sur ce thème. L'effet le plus immédiat du subjectivisme cartésien est de fait une issue de type agnostique, quand elle n'est pas explicitement athée. En effet le cartésianisme - s'il est accepté dans ses présupposés - implique la destruction radicale de la théologie naturelle et des voies thomistes menant à Dieu parce qu'évidemment, si la connaissance est exclusivement le rapport entre mon Moi et son matériau idéatif, je ne pourrai plus, en partant du monde, en partant de la contemplation de la nature, remonter à Dieu.

    La science moderne et la pensée cartésienne se fondent sur l'élimination des causes finales et des formes essentielles[20]. Si l'on élimine les causes finales, nous savons que l'on glisse dans des difficultés explicatives énormes. Pensez, par exemple, à la crise de l'évolutionnisme, qui refuse le finalisme d'extraction gréco-chrétienne, mais qui se trouve ensuite dans des contradictions extraordinaires. Descartes, en éliminant les causes finales dans le sillage de Galilée, interdit tout passage du monde à Dieu Ce passage si évident et si nécessaire que, avant même la révélation chrétienne, il avait porté les esprits lucides et profonds des grands grecs du monde à Dieu - ce passage n'est plus possible. Le subjectivisme immanentiste (subjectivisme parce que je n'ai que le sujet comme point d'appui métaphysique; immanentiste parce que le vrai, l'absolu, le fondement se trouve dans le sujet, à l'intérieur du sujet) a donc comme issue la réduction de Dieu au monde, ou plutôt la réduction de Dieu à l'homme. Dieu et homme finiront inévitablement par coïncider, nous allons voir bientôt comment et pourquoi. Soit Dieu est réduit à l'homme et au monde, soit Dieu est totalement exclu, et c'est l'athéisme. L'athéisme est du reste implicite dans ce refus de reconnaître la richesse de sens originelle du monde, et la transcendance de la vérité et de la beauté par rapport à la raison connaissante : telle est la véritable hybris qui est au cœur de la pensée moderne.

    Les Lumières : droit au bonheur et barbaries

    Nous devons accomplir maintenant - ne serait-ce que par de brèves allusions - un passage décisif sur le plan théorétique : le passage vers les Lumières. Les Lumières sont sans aucun doute filles du rationalisme cartésiano-galiléen. Je dirai même plus : les Lumières sont la tentative consciente de généraliser l'instance critique subjectiviste et rationaliste du domaine physico-naturel à tous les domaines, y compris le domaine religieux.

    Par conséquent, si je peux me permettre cette expression imagée, les Lumières sont un cartésianisme que l'on a fait déborder dans toutes les sphères de la réalité, et elles aboutissent enfin, de façon logique, au thème de la dignité de l'homme, aux droits de l'homme et du citoyen de 1789, au droit au bonheur. Si en effet c'est le cogito, en dernière instance, qui fonde la vérité, et non pas la vérité qui fonde le cogito, cela signifie que le cogito est l'Absolu, c'est-à-dire, en théologie, Dieu. Or si l'homme est pensé comme Dieu, il est évident qu'il ne peut plus être sujet à des devoirs, mais seulement à des droits, et qu'aucune limite ne peut être mise, du moins en principe, à sa volonté libre, non plus pensée comme blessée et encline au mal à cause du péché originel, mais « bonne » par nature, de façon rousseauiste. C'est dans cette césure historique que se trouve la grande révolution culturelle moderne, que l'historien Ellul a soigneusement reconstituée dans son livre Métamorphoses du bourgeois[21]. Ellul démontre que l'idée centrale de ce dix-huitième siècle, qui constitue sûrement l'une des fractures les plus significatives par rapport à la tradition de la pensée chrétienne précédente, est l'apparition de la catégorie de droit au bonheur. Cette idée n'est possible, nous l'avons vu plus haut, que si j'ai une image divinisée de l'homme, car penser à un homme qui par nature a droit au bonheur - ou à la recherche du bonheur, comme l'énonce la Déclaration d'indépendance des États-Unis d'Amérique, et comme l'affirme implicitement la Déclaration des droits de l'homme et du citoyen - signifie que je pense à l'homme comme à Dieu, je pense à l'homme comme à l'absolu, comme au fondement du sens même de sa vie. Et cette possibilité de divinisation de l'homme est également l'aspect fondamental, d'ailleurs, qui réunit la Révolution moderne et la gnose antique. Dans les deux cas, nous sommes face à un renversement antéchristique de l'ordre voulu par le Créateur, nous sommes face à la tentative de l'homme de décider par lui-même de ce qui est bien et de ce qui est mal, en une autosuffisance aussi absolue que gravement coupable.

    On passe ainsi de la tradition millénaire de sainteté chrétienne, et plus spécifiquement catholique, fondée sur le couple devoir / sacrifice, de la société du devoir et du sacrifice, de l'immolation de soi, à la société du droit et du bonheur. C'est la destruction complète de l'idée même de sacrifice, et la naissance - comme le démontre Daniel Mornet dans une étude très intéressante - de la haine de l'Église catholique et de sa Messe, qui témoigne de façon si évidente du sacrifice de Notre Seigneur comme fondement du monde, fondement de l'histoire et de la vie : cette idée était quelque chose qu'il fallait détruire. Nous savons que la seule chose que Luther ne supportait pas dans le catholicisme était l'idée de renouvellement non sanglant et de représentation du sacrifice du Christ dans la sainte Messe : c'était ce qu'il voulait détruire, car il était convaincu - et en un certain sens il avait raison - que si l'on détruisait la sainte Messe, la papauté et le catholicisme tomberaient eux aussi.

    Enfin, je pense qu'il est inutile de rappeler que les membres des cercles dans lesquels se développe la nouvelle idéologie sont très souvent les mêmes que les membres de cette véritable toile d'araignée de loges maçonniques qui, au cours du XVIIIe siècle, s'étend sur toute l'Europe. De même qu'étaient aussi francs-maçons les jacobins et les autres groupes de révolutionnaires radicaux qui prendront le pouvoir en France, déchaînant la furieuse et célèbre persécution de l'Église catholique, au cours de laquelle la profanation des tabernacles, des hosties et des églises sera chose courante.

    La Révolution moderne (terme que nous utilisons au sens large pour désigner tout le processus qui part de la Renaissance et qui, à travers la Réforme, les Lumières, la Révolution française et les étapes suivantes, vise à la dissolution de la respublica christiana[22]) implique, de façon parfaitement cohérente avec les prémisses métaphysiques mises en lumière jusqu'ici, la destruction complète de l'ordre chrétien, en particulier la destruction de la royauté sociale de Notre Seigneur, et marche vers une conception de la politique comme autofondée quant à l'origine de la souveraineté. La distorsion des principes de base de la métaphysique gréco-chrétienne produit donc, en dernière instance, des conséquences très graves à tous les niveaux, y compris le niveau politique. La sphère politique est même le lieu où se manifeste, dans toutes ses potentialités inhumaines et antichrétiennes, la nouvelle philosophie anthropocentriste qui caractérise la modernité[23].

    Nous comprenons mieux, maintenant, la phrase par laquelle Horkheimer et Adorno présentaient au lecteur leur texte La dialectique des Lumières, en disant : « Le second excursus traite de Kant, Sade et Nietzsche, inflexibles exécuteurs de l'illuminisme. Il montre comment l'assujettissement de tout ce qui est naturel au sujet maître de soi débouche précisément sur la domination de l'objectivité et de la naturalité la plus aveugle »[24]. Un peu plus loin dans le même texte, ils affirment encore plus durement : « Les lumières, dans le sens le plus large de pensée en continuel progrès, ont depuis toujours eu pour objectif de retirer la peur aux hommes et de les rendre maîtres. Mais la terre entièrement illuminée resplendit sous le signe du malheur triomphal »[25]. Du reste, ces auteurs sont les premiers à comprendre clairement que le symbole et le point d'arrivée ultime et secret de la culture illuministe est l'univers totalitaire et pansexualiste des romans de Sade, dans lesquels apparaît de toute évidence que l'issue ultime d'une raison pensée comme autofondée est la barbarie, la violence, et ce aussi - pour ne pas dire surtout - dans le domaine politique : « Cela veut dire, répondit le prince - écrit Sade - que le gouvernement doit réguler lui-même la population et avoir en main tous les moyens pour la détruire, s'il a raison de la craindre, ou pour l'accroître, s'il le retient nécessaire, et il ne peut y avoir d'autre équilibre de sa justice que celui de ses intérêts ou de ses passions, unis seulement aux intérêts et aux passions de ceux qui, comme nous l'avons dit, ont obtenu de lui autant de pouvoir que nécessaire pour multiplier le sien (...) Retirez au peuple que vous voulez soumettre son dieu, et démoralisez-le; tant qu'il n'adorera pas d'autre dieu que vous, qu'il n'aura pas d'autres mœurs que les vôtres, vous serez toujours ses maîtres... laissez-lui même en échange la plus large faculté de commettre des délits ; et ne le punissez jamais, à moins que ses aiguillons ne se retournent contre vous »[26]. Voilà le vrai programme du totalitarisme de la dissolution, pour employer la célèbre catégorie d'Augusto Del Noce, préfiguré par le fervent illuministe et révolutionnaire Sade, en cours de pleine réalisation depuis deux siècles[27].

    (à suivre)

    ---------------------------------------------------------------------

    Notes

    [1] Platon peut et doit, à bon droit, être défini comme penseur réaliste dans la mesure où son idéalisme demeure solidement ancré sur le principe selon lequel la relation entre sujet connaissant et objet connu ne modifie par les entités entre lesquelles elle existe. Les idées, en effet, sont pensées comme des entités objectives, transcendant le sujet et existant aussi en dehors de la relation cognitive elle-même. Refuser à Platon le titre de penseur réaliste reviendrait à confondre grossièrement le réalisme métaphysique avec le matérialisme.

    [2] Cette définition est très générale et ne veut pas nier bien évidemment la présence, dans le très riche panorama de la pensée grecque, de penseurs matérialistes, sceptiques, nihilistes, etc. Nous voulons seulement dire que les plus grands penseurs sont tous réalistes.

    [3] Le rapport originel avec ce que nous avons appelé la luminosité de l'être est magistralement défini par Aristote comme étonnement dans le célèbre passage de la Métaphysique : « En effet les hommes ont commencé à philosopher, maintenant comme à l'origine, à cause de l'étonnement : tandis qu'au début ils étaient étonnés face aux difficultés les plus simples, par la suite, avançant peu à peu, ils en arrivèrent à se poser des problèmes toujours plus grands : par exemple les problèmes concernant les phénomènes de la lune et ceux du soleil et des astres, ou les problèmes concernant la génération de l'univers tout entier » (Aristote, Métaphysique). L'étonnement face à l'être, la position comme problème de l'existence même de l'être en tant qu 'être, la thématisation comme question de la totalité de l'être ne marquent pas seulement la naissance de la réflexion philosophique, mais instituent en un certain sens le logos lui-même comme capacité de voir et de problématiser ce qui est déjà donné depuis toujours comme plénitude immédiate de sens. C'est l'étonnement qui permet à l'homme grec, qui « invente » la philosophie, de faire epochè des significations archaïques du monde gardées par le mythe et par la tradition, et de s'ouvrir au problème de la vérité (ou, ce qui est la même chose, à la vérité comme problème et non comme donnée). Il faut toutefois noter que ce n'est qu'après l'avènement du christianisme qu'il sera possible de décliner de façon encore plus profonde la question métaphysique par excellence : « quel est le sens de l'être en tant qu 'être ? ». Dans la pensée chrétienne, cette pensée demeure, mais fondée, implicitement ou explicitement, sur une question encore plus profonde que Leibniz formulait ainsi : « Pourquoi l'être plutôt que le néant? ». C'est précisément l'incapacité (mais il serait plus exact de dire l'impossibilité) à articuler de façon complète la notion de néant, de non-être (notion qui ne peut être fondée que par une religion monothéiste et créationniste) qui marque la plus grande limite des élaborations philosophiques grecques, même les plus élevées.

    [4] Que l'on pense aux sublimes démonstrations de l'immortalité de l'âme développées par Platon dans Le Phédon, et au thème semblable, d'inspiration manifestement socratique, traité dans L'apologie de Socrate.

    [5] « En effet, il est nécessaire que ce qui devient soit quelque chose, et il est nécessaire que soit quelque chose aussi ce qui en provient, et que le dernier de ces termes ne soit pas engendré, étant donné qu'un processus à l'infini n'est pas possible, et puisqu'il est impossible que du non-être soit engendré quelque chose (Aristote, Métaphysique).

    [6] « Il faut également ajouter que la tradition gréco-chrétienne affirme la ressemblance entre Dieu et le monde, la non absolue différence, mais d'un autre côté, elle maintient à l'intérieur de cette ressemblance une dissemblance encore plus grande; entre le monde et Dieu subsiste une analogie qui, si elle exclut l'altérité totale, ne permet pas non plus une totale identité : et ceci s'oppose à la position anti-analogique de la gnose pour laquelle, une fois mises en œuvre les techniques de salut, tant ponctuellement pour les individus que pour la masse, il n'y a aucune raison de douter que le monde sera changé au point de coïncider avec la Civitas Dei » (E. Samek Lodovici, Métamorphoses de la gnose, éd. ARES, Milan).

    [7] Cornelio Fabro a développé des interprétations très intéressantes de cette doctrine de saint Thomas, que nous pourrions simplifier ainsi : si l'être créé est créé par Dieu, nous devons - je paraphrase Fabro - employer le terme « être » en écoutant sa transitivité, sa force transitive de verbe, sa dimension dynamique, si bien que le regard sur la nature, sur le monde, sur l'homme, sur les choses, doit être un regard qui saisit en eux la vibration, l'écho, pour ainsi dire, du geste créateur de Dieu. Il n'y a donc pas de risque de glisser vers une vision de type positiviste, scientiste, de la nature des choses, qui deviennent justement pures choses, pure matière. Certes, la matière est matière, mais il y a une vibration métaphysique en elle, qui fait que le monde est de toute façon un monde qui porte en soi l'image de Dieu (cf. De Fabro, Participation et causalité selon saint Thomas d'Aquin, Turin, 1960; De l'être à l'existant, Brescia, 1957; Introduction à l'athéisme moderne, Rome, 1961).

    [8] Cf. J. Meinvielle, Influence du gnosticisme juif sur le milieu chrétien, Rome, 1995.

    [9] J. Meinvielle, op. cit.

    [10] Les dernières études sur le Newton ésotérique et féru des Saintes Écritures nous dévoilent un visage inconnu de ce scientifique : passionné de magie et d'alchimie, il apparaît comme un hérétique radical, comme un arien extrémiste dans le domaine religieux : il nie la Trinité, accuse le Pontife romain d'être l'Antéchrist, et les rites catholiques d'être idolâtres, il commente l'Apocalypse d'une façon substantiellement cabalistique (cf. http://www.newtonproject.ic.ac.uk/index.html). Le spécialiste J. Gleick nous décrit un Newton occupé par trois intérêts fondamentaux et équivalents : alchimie, science et lutte contre l'idée trinitaire, déclinée dans un sens anticatholique.

    [11] F. Yates, Giordano Bruno et la tradition hermétique, Bari,1995.

    [12] Voir aussi M. D'Amico, Giordano Bruno, Casale Monferrato, 2000.

    [13] Nous ne pouvons pas non plus oublier un fait important : Descartes, et après lui beaucoup d'autres philosophes, sont des scientifiques de haut niveau ; Descartes lui-même est un mathématicien de génie, mais il a également - et la chose me paraît intéressante - le rêve de révolutionner la médecine ; Locke est un philosophe important, mais il pratique surtout à son tour l'art médical. Le même discours pourrait être tenu sur Leibniz, Pascal, Spinoza, etc.

    [14] Cela doit être signalé non seulement pour le contenu ésotérique, mais surtout parce que ces textes sont considérés comme plus anciens que tous les autres, constituant une sagesse ancienne et originelle, précédant non seulement celle de la philosophie grecque, mais aussi la Bible chrétienne elle-même.

    [15] L'analyse critique des conséquences métaphysiques induites par la science moderne ne signifie pas, bien évidemment, que la science ne puisse pas être valorisée à partir d'une perspective de foi, ou que son extraordinaire efficacité pratique doive être dédaigneusement dévalorisée. C'est si vrai que l'Église, précisément, a été à l'époque médiévale et moderne le principal vecteur capable de favoriser le développement de la science (ce n'est pas par hasard si la liste des scientifiques-prêtres ayant caractérisé les siècles de l'âge moderne est interminable).

    [16] R. Descartes, Discours de la méthode.

    [17] On comprend maintenant plus facilement pourquoi la faiblesse de fond de la métaphysique cartésienne consiste précisément en cet enfermement dans ces apories insolubles qui se placent, sous le nom de dualisme métaphysique, entre res cogitans et res extensa. Si l'on renonce en effet aux principes de fond de la pensée classique gréco-chrétienne, on glisse inévitablement soit dans un dualisme rigide et indéfendable, soit dans un monisme tout aussi ridicule et peu crédible. C'est la disparition inexorable de la possibilité de maintenir la géniale ré-élaboration thomiste du principe de l'analogie de l'être.

    [18] Cf Cornelio Fabro, Le virage anthropologique de Karl Rahner, Milan, 1974, où l'auteur démolit la fausse interprétation de saint Thomas donnée par le philosophe allemand, profondément influencé par son maître Martin Heidegger, l'un des protagonistes du retour de la gnose au XXe siècle.

    [19] Paul Arnold, Histoire des Rose Croix, éd. Mercure de France, 1955.

    [20] Il faut ici remarquer, ne serait-ce qu'en passant, que dans une perspective de foi, seule une métaphysique réaliste a du sens, entre autres pour la raison fondamentale suivante : puisque tout ce qui est créé par Dieu, on ne peut que penser que Dieu crée l'être sur la base d'une idée de celui-ci, et en vue de fins et d'une harmonie ontologique liant dans une très solide unité le tout de la création (le contraire impliquerait une absurde « création casuelle » : une véritable contradiction in adjecto); l'être incarne donc la forme que Dieu lui assigne; c'est pourquoi la forme essentielle propre aux êtres transcende le geste cognitif de l'homme qui la saisit de façon intellective, puisqu'elle est une propriété fondant ontologiquement l'être lui-même. Penser le contraire signifierait - même implicitement - penser l'esprit de l'homme comme créateur, comme un esprit divin : c'est exactement l'issue ultime de l'immanentisme moderne avec la pensée idéaliste.

    [21] J. Ellul, Métamorphoses du bourgeois. Milan, 1972.

    [22] Dans une étude très riche et profonde, R. de Mattei met très habilement en évidence les lignes de tensions qui lient étroitement la Réforme protestante, et en particulier ses développements sectaires radicaux (anabaptisme, etc.) au développement de la franc-maçonnerie, du jacobinisme et de l'idéologie communiste (R. de Mattei, À gauche de Luther, Rome 1999).

    [23] Pour la nouvelle conception du rapport entre sphère religieuse et sphère politique, avec des références particulières à Rousseau, cf. J. L. Talmon, Les origines de la démocratie totalitaire, P. Zarcone, La face cachée de la démocratie. Rousseau totalitaire, et P. Pasqualucci, Politique et religion. Essai de théologie de l'histoire. Dans ce dernier ouvrage, l'auteur localise sans hésitation le cœur de la vision moderne de la religion chez Rousseau et dans la thèse de fond qui sous-tend, tantôt implicitement, tantôt explicitement, toute sa pensée : le bonheur - le véritable grand mythe du dix-huitième (et de notre époque) - ne peut être atteint par l'homme que si l'homme est rendu « un », au-delà de tout dualisme ou opposition entre immanence et transcendance, entre sphère profane et sphère religieuse, et donc entre sphère sociale-politique et sphère privée et personnelle. Cela signifie que seul un homme réduit à la sphère politique pure sera heureux, à l'intérieur d'un système que nous pourrions qualifier de biopolitico-totalitaire, et que la religion révélée doit être bannie comme auctoritas normative ayant un fondement dans la transcendance de Dieu. Dans la perspective rousseauiste la religion doit, autrement dit, être reléguée dans la sphère de l'intériorité, du sentiment et de la conscience subjective, renoncer à toute structuration rationnelle rigoureuse, et s'adapter plastiquement aux exigences de l'individu, à ses besoins et à sa vision du monde, à l'intérieur d'une christologie sentimentale et esthétisante parfaitement décrite dans le discours du vicaire savoyard de l'Émile. C'est à ce niveau que se place aussi le rapport Réforme / politique; c'est Luther, on le sait, qui avant Rousseau ouvre la voie à une dérive d'abord sentimentale et subjectiviste, puis déiste et rationaliste (à l'âge du protestantisme libéral), du christianisme. La religion ne se fonde plus sur l'effort de l'homme pour s'ouvrir à l'intelligence de la Parole et de l'appel que Dieu lui adresse, mais elle se développe « à la mesure » de notre conscience au sens immanentiste et naturaliste. La lutte pour guérir la fracture entre bourgeois et citoyen, et faire de l'homme une unité « heureuse » et pacifiée au-delà de la conscience malheureuse religieuse judéo-chrétienne, est aussi la ligne rouge, il ne faut pas l'oublier, qui se développe le long de l'axe Rousseau-Hegel-Marx, et qui lie étroitement les deux penseurs allemands à leur prédécesseur genevois. Au sein de cette pensée, le Moi individuel, compris dans son irréductibilité morale et spirituelle à la classe ou à la société dont il fait partie, est toujours élément négatif, et le sujet ne peut aspirer à la vérité que s'il se perd dans le tout, s'il accepte de se dissoudre dans le moment collectif.

    Quoi qu'il en soit, si la politique prétend, à partir du Contrat social (mais le véritable acte conscient de naissance de cette conception est plus ancien et doit être retrouvé, au minimum, dans le Léviathan de Hobbes) s'auto fonder comme structure totalement autonome quant à l'origine de la souveraineté, il va de soi, et ceci est la seconde partie de la thèse de Pasqualucci, qu'une guerre idéologique absolue s'ouvrira entre les nouvelles formes de pouvoir démocratico-totalitaires (c'est la formule qui traduit le mieux la notion de jacobinisme) et l'Église catholique, témoin irréductible du primat métaphysique de la Transcendance, c'est-à-dire témoin d'un homme et d'un monde (même politique) qui, au lieu de trouver en soi leur propre sens et leur propre raison d'être, reconnaissent le primat de Dieu et posent le problème eschatologique comme centre de gravité tant social et politique qu'existentiel.

    [24] Horrkheimer - Adorno, La dialectique des Lumières, Turin, 1997, p. 8.

    [25] Op. cit., p. 11.

    [26] Sade, Histoire de Juliette, cit. in Dialectique des Lumières, op. cit. p. 94-95.

    [27] Le passage cité est intéressant, entre autres, parce qu'il se révèle être une anticipation véritablement prophétique du « complot démographique » mis en œuvre par l'ONU et par d'autres organisations mondialistes d'inspiration directement ou indirectement maçonnique au cours du XXe siècle (sur le rôle de l'ONU dans les grands génocides du second après-guerre, cf. F. Adessa, ONU, Jeu de massacre, Brescia, 1996). Le fait que la Révolution française ait été animée, dans les phases les plus sombres de la terreur jacobine, par des instances volontairement génocidaires, a été prouvé par Gracchus Babeuf, dans La guerre de Vendée et le système de dépeuplement; cf. aussi R. Sécher, Le génocide vendéen. Les analogies entre les génocides de la Révolution française et les pires horreurs du régime nazi ou bolchevique sont habilement développées dans l'ouvrage, vulgarisateur mais rigoureux, de J. Dumont, Les faux mythes de la Révolution française.

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    L'idéalisme

    Tout le discours développé jusqu'à présent trouve un point de contact naturel avec l'idéalisme allemand. Commençons par remarquer que les idéalistes allemands sont d'excellents spécialistes de la gnose antique[1] : Schelling est un spécialiste de Marcion, Hegel est un spécialiste de Valentin. N'oublions pas non plus qu'il existe une ligne très profonde unissant Marcion à Luther, par l'intermédiaire des hérésies médiévales, puis à la théologie protestante libérale allemande, lien qui explique d'ailleurs un certain nombre des dérives antisémites de l'Allemagne du XXe siècle, car le refus de l'ancien Testament et l'altération du Nouveau débouchent inévitablement sur une forme de docétisme rendant vaines l'incarnation, la passion et la mort du Verbe et la rédemption qu'il a apportée, et qui dévalorisent en outre l'appartenance de Jésus-Christ en tant qu'homme au peuple juif[2].

    Dans l'idéalisme, Dieu est mort. Le premier à l'affirmer clairement est Hegel (« Le grand Pan est mort »). Ce n'est pas Nietzsche qui, le premier, tient la mort de Dieu pour une vérité métaphysique certaine et qui l'utilise comme point de départ d'une nouvelle philosophie, mais Hegel, presque un siècle auparavant. Dieu est mort, et l'Absolu coïncide alors avec l'histoire de la culture, avec l'incessante succession de moments historico-culturels et politiques. Mais alors, l'homme qui produit ces formes et leur changement incessant est Dieu incarné, c'est Dieu dans l'histoire, parce que soit la liberté - le Geist, l'Esprit - est pensée comme créée, soit elle ne peut être pensée que comme l'immanence de Dieu dans l'histoire. Dieu ne transcende plus le monde, mais coïncide ontologiquement avec le monde et l'histoire et donc, encore une fois, Dieu est l'homme. Mais il est intéressant d'observer comment, en parfaite correspondance avec la conceptualité gnostique du plérôme originel, l'homme est pensé comme Dieu : non pas tant l'homme pris comme individu que l'homme en tant qu'Humanité en général, collectivement dissous, dirons-nous, dans le tout de l'histoire, de la culture, puis avec Marx dissous dans le tout de la classe sociale. Dans la pensée idéaliste réapparaît l'ancienne idée cabalistique selon laquelle l'homme, en atteignant la connaissance profonde de son moi, rencontre Dieu[3]. Dans l'idéalisme allemand, comme dans la cabale, Dieu et le monde, Dieu et l'homme n'ont pas une vie réellement séparée.

    Dieu a besoin de l'homme pour se compléter, Dieu - et l'on comprend ici de nombreux aspects de la pensée théologique contemporaine - Dieu est l'homme réalisé dans l'histoire; aujourd'hui nous dirions qu'il est l'homme qui s'auto-rachète dans l'histoire en portant la paix, en portant les droits de l'homme dans le monde entier, en détruisant le capitalisme, en détruisant la science moderne qui ne porte que le mal (alors qu'il y a bien évidemment une lecture correcte de la science, une lecture chrétienne, qui montre que la science en soi n'est pas un mal, mais représente ce qui a été historiquement, à partir de l'âge médiéval, donné « de surcroît » à un monde qui cherchait avant tout le royaume des cieux), en désindustrialisant, dans un ridicule enthousiasme écologique, le monde occidental.

    Mais si Dieu est l'homme qui se réalise dans l'histoire, qui se rachète par ses propres forces, alors l'humanité rachetée, pacifiée, unifiée, représente Dieu finalement accompli. Avec l'idéalisme, qui est la dernière véritable grande étape de la métaphysique occidentale, non seulement nous sommes dans l'ombre d'une métaphysique qui conçoit l'homme comme Dieu et l'histoire comme le lieu où Dieu s'autoréalise, mais nous sommes aussi dans une philosophie qui, en s'inspirant de la gnose antique - et de courants particuliers de la tradition néoplatonicienne ainsi que de certains représentants de l'ésotérisme de la Renaissance - pense au néant comme à l'essence de Dieu, pense l'aliénation comme essence de Dieu : Dieu s'aliène parce qu'il n'est pas accompli, il doit se faire monde, homme, douleur pour devenir ensuite laborieusement lui-même[4]. Comme dans La Science de la Logique d'Hegel, le Néant précède et fonde l'Être.

    Je pense que nous sommes maintenant en mesure de comprendre en quel sens l'idéalisme est une gnose accomplie : Dieu qui s'aliène est habité par le mal, par le négatif; l'histoire est le lieu où c'est l'homme qui rachète Dieu de son aliénation, c'est l'homme qui aide Dieu à devenir Dieu, à guérir de sa souffrance et de son caractère incomplet, de sa « conscience malheureuse », de sa kénose aveugle et sans but.

    Ce n'est plus Dieu qui m'aide à guérir de la lèpre du péché originel et de l'inclination au mal, de la concupiscence ; je ne dois plus guérir, au contraire, c'est moi qui dois « guérir » Dieu, c'est même moi qui suis Dieu, et ma guérison constitue la libération et la pleine réalisation de Dieu lui-même.

    Si l'humanité est pensée par l'idéalisme comme Dieu, alors l'histoire de l'humanité est la marche de Dieu vers lui-même, le devenir de Dieu lui-même. Nous sommes d'un côté face à l'éternelle idée gnostico-cabalistique selon laquelle, nous l'avons vu, l'homme est nécessaire à Dieu; mais d'un autre côté, s'il n'y a plus de différence ontologique entre homme et Dieu reposant sur l'idée de création, s'il n'y a plus de saut ontologique entre créature et créateur, c'est aussi la valeur de l'individu qui s'écroule, la valeur irréductible de l'individu en tant que singularité unique et irréductible au tout historique ou social, en tant que personne, en tant que sujet d'une vie intérieure fondée sur le primat chrétien de la volonté libre [5]. Chez Hegel, du reste, on a déjà une tentative accomplie de fonder le primat du moment collectif en dissolvant l'idée de personne[6].

    Dans la Phénoménologie de l'esprit, Hegel affirme clairement qu'il ne peut y avoir un moi en dehors du tout qui le fonde ; ce qui est vrai, c'est le tout, mais l'homme individuel, en revanche, n'est jamais vrai, et cette thèse est la thèse-clé de Hegel - et déjà de Rousseau -, thèse qui sera ensuite formalisée par Marx, et qui domine aussi une certaine sensibilité ecclésiastique d'aujourd'hui. En effet, le pentecôtisme participatif, sentimental, le charismatisme qui domine et pénètre aussi très souvent des mouvements catholiques, car ce sont des mouvements nés en milieu protestant qui se propagent ensuite vers le catholicisme, tout cela est au fond une renonciation à la personne, et ouvre les portes à une domination totalitaire des consciences sans précédent. Eric Vœgelin, l'un des plus grands philosophes de la politique du XXe siècle, affirme à ce propos qu'avec la révolution moderne, nous nous trouvons, à cause de cette représentation gnostique d'une totalité d'individus comme seul moment vrai, face à une nouvelle passivisation des personnes, qui prélude à d'inédites formes de pouvoir[7].

    Les personnes ont donc intériorisé l'idée qu'en tant qu'individus ils ne sont plus rien, qu'ils ne valent que s'ils font partie d'un tout, peu importe que ce tout soit en ruine, qu'il soit barbare ou insensé : ce qui compte, c'est d'en faire partie. Dans un tel contexte idéologique, on voit donc disparaître l'idée même qui a fait naître le Christianisme, c'est-à-dire l'idée même de martyre comme témoignage inévitablement et irréductiblement personnel et individuel. Quand Thomas More, par exemple, s'est entendu dire par ses accusateurs que tous les Évêques anglais avaient signé le document qui reconnaissait à Henri VIII la souveraineté sur l'Église d'Angleterre, il répondit que sa conscience le lui interdisait car elle lui demandait de rester fidèle à l'Église de Rome, et qu'elle le liait à 1500 ans de tradition théologique et ecclésiastique. C'est lui, c'est un homme, bien que seul[8], qui sent qu'il doit rester fidèle, qu'il doit témoigner de la vérité. Dans toute l'Angleterre, à l'apostasie, à l'hérésie, au schisme d'Henri VIII s'opposent une poignée de personnes (à peine plus d'une dizaine), plus les martyrs de la persécution protestante qui suivra (70’000 morts).

    Il faut donc faire attention, car une idée ecclésiale et une ecclésiologie collectiviste et communautaire dissolvent la possibilité du témoignage, qui est toujours individuel[9].

    - 2e partie -

    Analyse de l'encyclique "pascendi"

    - Le Modernisme


    Après un cheminement plutôt long, mais nécessaire, nous pouvons maintenant commencer une rapide analyse de Pascendi. N'oublions pas que notre objectif était précisément de comprendre le mieux possible la genèse des formes de pensée contre lesquelles le grand pontife saint Pie X s'est battu, la genèse de cette mauvaise philosophie qui a pollué, ou rendu moins efficace, la philosophie et la théologie chrétienne, jusqu'aux succès néfastes de la pensée moderniste.

    Si nous avons compris les prémisses, et si vous avez accepté ma proposition herméneutique, suivant laquelle l'idéalisme, de même que le marxisme, constituent un retour violent de la gnose antique, alors il est assez facile de franchir le pas suivant. Si l'idéalisme est la dernière forme de métaphysique occidentale, et si nous sommes encore dans cette ombre, nous sommes dans une ombre de facto lourdement hérétique et gnostique, même au-delà, évidemment, des intentions et de la conscience des auteurs.

    C'est sur ces bases théorétiques, et en particulier en France[10], un pays où l'Église était l'objet de terribles persécutions[11], que mûrissent des instances philosophiques, de fait incapables de faire face à la lame de fond du subjectivisme et de l’immanentisme moderne. Nous connaissons les auteurs; ce sont les auteurs que Pascendi ne nomme pas directement, mais qui sont substantiellement, notoirement, les auteurs que saint Pie X, et les théologiens qui l'assistèrent dans la rédaction de l'Encyclique, avaient à l'esprit : Laberthonnière, Loisy, le Roy et Blondel en particulier.

    Le cas de Blondel fit même du bruit, et chacun sait qu'Ernesto Bonaiuti, le moderniste italien par excellence, se procura en cachette au séminaire une copie de l’Action du philosophe français parce que c'était un texte interdit par l'Eglise, lu avidement par tous ceux qui étaient curieux de nouveautés.

    Chez tous ces philosophes modernistes, nous avons des instances communes, des principes philosophiques que nous sommes maintenant en mesure de comprendre. Nous devrions maintenant réussir à comprendre l'essence philosophique et culturelle du modernisme, sa matrice la plus profonde.

    La Berthonnière[12] si nous schématisons le sens de sa pensée, nous dit, en employant des catégories qui avaient déjà mûri dans la pensée moderne, que la vérité n’est telle que dans la mesure où nous la recréons. Si j'ouvre le catéchisme de saint Pie X, je lis que les principaux mystères du Christianisme sont : 1°) unité et trinité de Dieu; 2°) incarnation, passion et mort, résurrection de Jésus-Christ. La Berthonnière nous dit : non, cela ne va pas, je ne peux pas, simplement de l'extérieur, recevoir une vérité dogmatique claire, absolument limpide, sur laquelle il ne peut pas y avoir de confusion, même si nous sommes face au mystère, mais un mystère que l'on m'annonce avec clarté; non, cela ne va pas. Je dois recréer en moi cette vérité, ce qui revient à dire que ne peut être vrai que ce que je forme en quelque sorte à l'intérieur de moi, en réfléchissant en raisonnant, en m'écoutant, en rentrant en moi, en descendant en moi. Vous souvenez-vous de l'idée de la cabale : entrer en soi et retrouver Dieu en soi ? Nous sommes ici face à la même idée, en un certain sens. Il n'y a pas de valeur dans l'étude et l'apprentissage objectif de la dogmatique, il n'y a de valeur que dans une vérité que je construis, pour ainsi dire, intérieurement, que je tire de moi-même : il n'y a pas d'exemple plus clair de ce que nous entendons par immanentisme et subjectivisme en théologie.

    Loisy[13] nous dit à son tour que l'essentiel de la foi n'est pas dans les dogmes, mais dans l'expérience religieuse immédiate et subjective de type purement spirituel. Il y a une vague expérience religieuse qui ne doit pas nécessairement se fonder ou se traduire par des affirmations dogmatiques que ma raison comprend comme des contenus clairs, mais qui doit justement être une expérience qui n'est authentique que si elle est immédiate et subjective, vraie avant tout sur le plan existentiel. Notez qu'il est difficile de résister à une idée de ce genre, car elle est inévitablement séduisante; en effet il est clair pour tout le monde que, par exemple, mon sentiment d'amour pour une personne est vrai s'il est immédiat et subjectif, et si je le sens réellement. En effet, comment pourrais-je penser que j'aime une personne, si je ne sens pas ce que je dis éprouver?

    Il y a donc quelque chose de compréhensible - c'est évident, les choses ne naissent jamais par hasard - dans cette thèse moderniste, du moins au point de vue psychologique. Mais il manque, sur la base de ces prémisses, la dimension kérigmatique de la foi chrétienne, la dimension d’annonce. Les témoins oculaires de faits surnaturels, que sont avant tout les Apôtres, nous annoncent ces faits en même temps que les paroles et la révélation donnée par Celui qui a produit ces faits et qui en est le protagoniste ; et moi, ex auditu, en entendant cette vérité et en constatant que le témoignage est crédible, comme est crédible l'Église qui me transmet ce témoignage et m'en fournit la juste interprétation, j'adhère, je crois, naturellement dans une dynamique de grâce, de catéchuménat, de compréhension de catéchisation, mais il ne faut jamais oublier que l'on part d'une annonce, et que même le Nouveau Testament, en tant que texte écrit, suit et ne précède pas l'annonce (sous peine de transformer l'Évangile en un « Coran » de type luthéro-calviniste).

    Le Christianisme serait-il né sans l'annonce? a-t-on envie de demander à La Berthonnière et à Loisy. Mais la réponse est claire : non. L'homme avait déjà de nombreuses expériences religieuses il y a des milliers d'années, à l'époque où il vivait dans les grottes où sont peints les bœufs, les flèches et les hommes stylisés avec leurs arcs ; mais expérience religieuse ne signifie pas Christianisme. Christianisme signifie Dieu qui s'incarne et qui parle, et opère des miracles qui témoignent qu'il ne peut être réellement que Dieu fait homme. J'accepte donc les contenus révélés par le Seigneur ; il y a donc aussi une adhésion de la raison, non seulement du sentiment. Si l'on supprime ce noyau dur du christianisme (c'est-à-dire, au fond, si l'on supprime l’apologétique comme démonstration de la crédibilité et du bien-fondé de la foi chrétienne même en termes purement rationnels), alors tout s'écroule et aucune vie de foi digne de ce nom n'est plus possible.

    D'après Le Roy[14], les dogmes ne sont que des symboles des exigences morales : c'est la réduction de la foi à la morale. Et cette approche, de fait complètement hérétique, est fondée sur le principe de caractère philosophique représenté par l’immédiateté bergsonienne de la pensée intuitive, qui doit avoir la certitude absolue de la vie vécue : n’est vrai que ce qui est vivant, un thème qui mûrit déjà en milieu allemand (avec Simmel, par exemple), et qui explosera dans l'existentialisme de Barth, Jaspers, Heidegger. Seule la praxis dans laquelle je suis calé sur le plan existentiel est vraie. Une vérité statique, immobile, immuable, capable de précéder et transcender ma raison, et à laquelle ma raison se plie par foi, une telle vérité ne peut pas être vraie. Mais l'immédiateté, pour qui connaît les faiblesses de la pensée bergsonienne et existentialiste, est un mythe, et nous savons qu'elle est au contraire éminemment instable.

    Sur la base de cette lecture de la religion et de la vie de foi développée par le modernisme, il est impossible de ne pas glisser dans le relativisme et dans le subjectivisme les plus extrêmes tant sur le plan moral que dogmatique, avec toutes les conséquences qu'il est inutile de rappeler ici de façon analytique, entre autres parce qu'elles sont résumables à la notion de démolition de l'Église catholique (ou auto-démolition quand elle est conduite par des religieux, et en particulier par une partie plus ou moins importante de l'Église enseignante)[15]. Cornelio Fabro, en effet, a fait une observation très fine à propos de l'athéisme moderne : soit Dieu est compris en philosophie dans la totalité de ses attributs, dans la totalité des attributs du Dieu chrétien, soit la philosophie tombe dans l'athéisme. À plus forte raison, évidemment, ce raisonnement est aussi valable pour la théologie. Donc quand la philosophie renonce par commodité, pour mieux dialoguer avec le monde, pour se rendre plus politiquement correcte, à un seul attribut du Dieu chrétien ou à un seul article de la doctrine de toujours, elle glisse inexorablement vers l'athéisme : le modernisme le démontre de façon par trop évidente. Du reste, saint Thomas expliquait déjà comment le salut et l'intégrité de la vie spirituelle de la personne sont compromis par la renonciation à la plus petite partie des vérités de foi : ne pas croire à une partie du depositum ou ne pas croire à tout le depositum sont deux dimensions spirituellement et moralement équivalentes. Aujourd'hui, il semble que l'on puisse tout dire, penser ou faire, tout en continuant de se sentir catholique[16]. Beaucoup de modernistes finirent en effet par perdre la foi, du moins formellement.

    Nous ne pouvons pas conclure cet aperçu extrêmement sommaire de la pensée moderniste sans dire un mot de Blondel[17]. Ce dernier développe et porte à ses conséquences ultimes la méthode de l'immanence que Pascendi nomme et condamne à plusieurs reprises. Blondel est le vrai grand maître de nombreux penseurs et théologiens du XXe siècle, et il a eu en effet une influence immense, extraordinaire. En outre, il écrivit sous le nom de plume de Bernard de Sailly dans la revue Annales de philosophie chrétienne, qui était la plus importante publication moderniste française. Après la parution de Pascendi, il se retire avec discipline, mais son influence a été véritablement très grande sur la culture théologique du XXe siècle. Quelle est l'essence de la méthode de l'immanence? Blondel effectue l'opération philosophique suivante : puisqu'il est impossible d'arriver à Dieu par les voies classiques de la théologie naturelle et à travers des démonstrations rationnelles et universellement rigoureuses (n'oublions pas le climat irrationaliste d'un côté, scientiste et anti-métaphysique de l'autre, de la philosophie de la fin du XIXe siècle), il faut montrer comment la religion, et en particulier la religion chrétienne, est la seule réponse possible et pleinement pacifiante à la lutte incessante de l'homme avec lui-même, puisqu'en tant que sujet de volonté, et donc d'action dans le monde, l'homme se trouve autrement destiné à un échec irrémédiable et continuel. L'action ouverte et sans cesse relancée par la volonté de l'homme condamne le sujet à une dialectique négative qui ne peut que se résoudre en une complète ouverture au surnaturel, en un « oui » résolu à Dieu. Le critère méthodologique blondélien consiste en somme à montrer que, dans la nature finie de l'homme, il y a structurellement l'exigence de l'infini, c'est-à-dire l'exigence de Dieu. L'incontournable pauvreté ontologique de l'homme témoigne de sa vocation naturelle à croire, et de son besoin de Dieu comme d'un besoin non pas temporaire ni culturellement donné, mais inscrit dans son essence la plus profonde[18].

    Il est nécessaire de s'ouvrir à la foi parce que l'homme, dans son effort de vouloir, dans cette dialectique négative de l'action, dans cette défaite qu'il subit sans cesse en se heurtant à l'inertie et à l'opacité du monde, ne peut pas, par lui-même, satisfaire le besoin de sens dont son action elle-même est un témoignage. L'homme, à la limite extrême de ses possibilités humaines, s'ouvre alors à Dieu comme à quelque chose qu'il trouve, pour ainsi dire, naturellement conforme à son besoin de vérité et de plénitude. Dans cette perspective philosophique, Dieu devient la réponse à un besoin de l'homme, Dieu naît, se fonde et est crédible parce qu'il répond à mes besoins, ces besoins que j'ai explorés et aux limites desquels je suis parvenu, quand j'ai su descendre dans le jeu de mon vouloir, de mon désir. Tel est le noyau essentiel de la pensée de Blondel.

    - L'encyclique "PASCENDI"

    C'est alors que, contre cette pensée, se lève l'encyclique Pascendi (précédée quelques mois plus tôt, il ne faut pas l'oublier, du décret Lamentabili du 3 juillet 1907, qui a une importance au moins égale à celle de la grande encyclique). Pascendi a tout de suite été attaquée et accusée, par la partie la plus progressiste du monde catholique, d'être un texte réactionnaire et de marquer un arrêt dramatique de la pensée chrétienne. En réalité, nous savons que c'est un texte extraordinaire précisément sur le plan philosophique, en raison de la finesse avec laquelle il comprend le proprium méthodologique et métaphysique du modernisme.

    La première notion importante développée dans l'encyclique souligne que l'attaque moderniste contre l'Église est tragique car menée avec duplicité. Autrefois, l'hérétique sortait de l'Église, aujourd'hui, il reste dans l'Église : la stratégie a changé. L'encyclique met donc en lumière l'action d'une stratégie, que nous pourrions qualifier de gramscienne, de conquête de l'hégémonie culturelle par une minorité bolchevique[19].

    Aujourd'hui, dit saint Pie X, l'attaque est intérieure : ceux qui apostasient la vérité catholique restent dans l'Église[20]. Observons avec quelle clarté et quelle profondeur saint Pie X décrit les modernistes, comprenant parfaitement non seulement leur idéologie, mais leur psychologie la plus cachée : « Contre l'autorité qui les maltraite, ils [les modernistes] n'ont point d'amertume : après tout, elle fait son devoir d'autorité. Seulement ils déplorent qu'elle reste sourde à leurs objurgations, parce qu'en attendant, les obstacles se multiplient devant les âmes en marche vers l'idéal. Mais l'heure viendra, elle viendra sûrement, où il faudra ne plus tergiverser, parce qu'on peut bien contrarier l'évolution, on ne la force pas. Et ils vont leur route ; réprimandés et condamnés, ils vont toujours, dissimulant sous des dehors menteurs de soumission une audace sans bornes. Ils courbent hypocritement la tête, pendant que, de toutes leurs pensées, de toutes leurs énergies, ils poursuivent plus audacieusement que jamais le plan tracé. Ceci est chez eux une volonté et une tactique : et parce qu'ils tiennent qu'il faut stimuler l'autorité, non la détruire; et parce qu'il leur importe de rester au sein de l'Église pour y travailler et y modifier peu à peu la conscience commune : avouant par là, mais sans s'en apercevoir, que la conscience commune n'est donc pas avec eux, et que c'est contre tout droit qu'ils s'en prétendent les interprètes. Ainsi, Vénérables Frères, la doctrine des modernistes, comme l'objet de leurs efforts, c'est qu'il n'y ait rien de stable, rien d'immuable dans l'Église »[21].

    Saint Pie X affirme donc à juste titre que le piège est d'autant plus insidieux qu'il vient de l'intérieur de l'Eglise. La stratégie des modernistes consiste, par une pression constante, par tous les moyens possibles, par des compromissions, par des moments d'orthodoxie alternant avec des moments de violente hétérodoxie, à pousser l'Église « pour son bien » à s'accorder avec le monde moderne, car l'essence du modernisme tient justement en ceci : ce sont des hommes d'Église et aussi de simples fidèles, qui n'arrivent pas à faire face à la marée montante d'un monde qui, hélas, est toujours plus clairement le renversement de la Christianitas[22], le renversement de ce qui a été la Christianitas[23].

    L'issue du modernisme, selon Pascendi, est l'agnosticisme[24]. En effet, selon saint Pie X, la négation de la théologie naturelle et de la rationalité du christianisme, et la méthode de l’immanence vitale sont la source d'une crise radicale, sinon d'une perte de la foi. Énumérons les aspects essentiels de la théologie nouvelle et hérétique développée par le modernisme, tels qu'ils ressortent de l'encyclique : la conscience est dénoncée comme le lieu qui trouve Dieu en soi, sans révélation extérieure, mais en ne suivant que son désir et son sentiment; la doctrine chrétienne devrait jaillir de l'écoute de moi-même et de mes désirs, être cohérente avec mes besoins, dont elle doit enfin devenir un reflet. Toute possibilité est exclue de lire ma vie sur la base de critères immuables et objectifs de bien et de mal, et sur la base de thèses dogmatiques trop précises, impliquant une foi authentique et l'humilité face au mystère. La religion, en nous comme en Jésus-Christ, est le fruit spontané de la nature. Jésus a compris lentement et graduellement qui il était, il n'a pas eu tout de suite une science divine et, en dernière instance, il n'est plus pensé authentiquement comme vrai Dieu.

    Le dogme doit évoluer - ainsi continue la liste des hérésies modernistes - il doit s'adapter au sentiment vital du croyant ; toute religion est en quelque sorte vraie, elle a un fond de vérité, parce que tout est enraciné sur ce besoin profond et sur ce sentiment religieux de l'homme (c'est donc la chute du nulla salus extra Ecclesiam); il faut séparer science et foi, mais en cas de conflit la foi doit s'incliner devant la science. Le principe de la foi est immanent à l'homme, ce principe est Dieu, Dieu est donc immanent à l'homme et par conséquent, sans qu'il soit besoin d'un acte de foi explicite, tout homme peut être considéré comme un croyant[25]. Il faut naturellement de la démocratie dans l'Église, la papauté et l'épiscopat doivent donc être repensés, et l'autorité affaiblie et revue. Il faut en outre une séparation entre l'Église et l'État au nom d'une vision laïque de la politique (fruit, naturellement, des principes de la Révolution française). Tout doit être historicisé, à commencer par les dogmes, pour les adapter à la compréhension des temps nouveaux et aux nouvelles conditions historiques. Dans le domaine du Christianisme, il faut distinguer le Christ de la foi du Jésus de l'histoire. Les modernistes, en outre, d'après l'analyse de Pascendi, demandent la priorité des vertus actives sur les vertus passives, retombant dans l'hérésie déjà condamnée de l’Américanisme. Ils demandent aussi la réforme et la simplification de la liturgie; la suppression de nombreuses dévotions et pratiques de piété populaire, la réforme - en réalité la suppression - du Saint Office et de la Congrégation de l'Index, un Église pauvre, des prélats et des évêques sans signes d'honneur extérieurs, l'abolition du célibat des prêtres, la décentralisation du pouvoir et la démocratie dans l'Église avec l'implication du peuple des fidèles dans le choix des curés et des évêques. Face à ce flot d'erreurs, saint Pie X définit le modernisme comme « synthèse de toutes les hérésies » et donc voie royale vers l'athéisme : « Si quelqu'un s'était donné la tâche de recueillir toutes les erreurs qui furent jamais contre la foi et d'en concentrer la substance et comme le suc en une seule, véritablement il n'eût pas mieux réussi »[26].

    Lorsque l'on considère ce flot d'erreurs condamnées par Pascendi, on est tenté de se demander s'il s'agit d'un document vieux d'un siècle ou d'un document actuel. Aujourd'hui, en effet, nous sommes face aux mêmes erreurs, affirmées de façon plus téméraire et plus radicale, à découvert, et par des représentants illustres de l'Église enseignante, de l'Épiscopat. La situation est donc pire, en raison de l'ampleur de la contagion.

    Pascendi est la photographie prophétique (la sainteté, du reste, est souvent accompagnée de cette capacité à voir le mal avant qu'il ne soit révélé, cette capacité à le voir en germe dans toute son horreur, comme s'il avait déjà développé ses tragiques conséquences) de tout ce que nous trouvons aujourd'hui dans Jesus, dans Famiglia Cristiana, dans Il Regno, dans Concilium, à Bose, dans les bulletins paroissiaux, dans les quotidiens catholiques, et hélas aussi dans les plus importants documents pontificaux et magistériels. Dans l'Église d'aujourd'hui, nous trouvons précisément toutes les distorsions théologiques et doctrinales prônées par le modernisme. Et nous ne parlons pas du fait que, si nous analysions dans le détail le Décret Lamentabili, et que nous considérions les 65 propositions qui y sont condamnées et anathémisées, nous retrouverions une représentation exacte d'une grande partie de la théologie et des visions doctrinales actuelles. Pascendi pourrait être un document non pas de 1907, mais de 2005. Les modernistes, hier comme aujourd'hui - je considère le moderniste comme une figure de l'esprit, la parfaite incarnation du type d'homme qui glisse dans l'hérésie - se pensent comme les seuls éclairés, la minorité gramscienne qui agit sur la conscience collective des inertes, de la collectivité anonyme, manipulable, soumise à une sorte de viol théologique continuel (nous pensons à la nouvelle liturgie qui, en termes politologiques, a été imposée par l'équivalent d'un coup d'état terroriste et sanguinaire). En l'espace de trente ou quarante ans s'est accomplie la révolution moderniste dans l'Église, le 1789 de l'Église, révolution qui impose - à travers le Coran théologique du politiquement correct, des droits de l'homme et de l'appel à une paix toute terrestre - sans aucune possibilité de réfutation ni même de dialogue, ses thèses hétérodoxes, et ses véritables hérésies, sa volonté perverse et diabolique de destruction de l'Église du Christ.

    Mais là où il y a une révolution, il doit y avoir des contre-révolutionnaires, des brigands, des réactionnaires qui ne comprennent pas l'esprit nouveau qui traverse le présent. Ainsi dans l'Église « conciliaire » (cette étrange entité élastique et amorphe qui a la curieuse prétention d'être « nouvelle »), il existe un terme pour désigner ceux qui refusent l'Église de Vatican II, et ce terme est « intégriste ». Du reste, nous savons que les vendéens étaient appelés brigands, comme du reste les bourbons, et que ceux qui s'opposaient au parti bolchevique étaient des koulaks. Et bien nous avons aussi les koulaks de l'Église : ce sont les prêtres et les fidèles de la Fraternité sacerdotale Saint Pie X. Il n'y a pas de pouvoir totalitaire, même dans le domaine de la foi, où il n'y ait pas un ennemi absolu, et nous savons que l'ennemi absolu doit être détruit, on ne peut pas parler avec lui, je peux parler avec tous, mais pas avec celui qui nie que l'on puisse parler avec tous.

    Pourquoi tout cela? Pourquoi cette crise du modernisme, déjà présente du temps de saint Pie X? Pascendi ne manque pas, évidemment, de nous donner une réponse très précise et profonde : « Ils [les modernistes] sont possédés du vain désir de faire parler d'eux : ce qui n'arriverait pas, ils le comprennent bien, s'ils disaient comme on a toujours dit jusqu'ici »[27]. Ce ne sont que quelques lignes, mais elles disent tout, et c'est précisément ce que l'on voit aujourd'hui dans le domaine théologique : on ne peut pas ne pas être original, si l'on veut être pris en compte; mais nous savons qu'en réalité, il ne s'est rien produit dans l'histoire de la culture, mais aussi dans l'histoire en tant que telle, qui ne soit né d'un désir de fidélité à la tradition, à ce qui a toujours été donné pour vrai. Nous savons en somme que toutes les grandes révolutions vraies, profondes, constructives, sont nées de rêves de fidélité. Saint Thomas, le « bœuf muet », ne cherchait certainement pas à être original : dans son activité d'enseignement, il avait un énoncé précis de quaestiones à respecter, dont il devait parler. Ce qui vaut pour la culture vaut aussi pour la sainteté : le saint ne veut pas être original, mais seulement humblement fidèle au Christ; la sainteté, qui est la plus grande manifestation de l'unicité spirituelle d'une personne, ne naît que du renoncement à toute originalité purement humaine et charnelle.

    La grandeur, dans l'histoire du christianisme, naît de rêves de fidélité qui deviennent ensuite, parce que la grâce agit ainsi, mystérieusement féconds et capables de nouveauté, mais la nouveauté n'est jamais voulue en tant que telle : un suprême exemple de ce principe est donné par la réforme du Missel romain opérée par Saint Pie V. Rien n'est plus typique du catholicisme (quand il est sain et non vicié par des influences protestantes et modernistes) qu'une véritable haine, une hostilité immédiate pour tout changement fait, dans quelque domaine que ce soit, par amour de la nouveauté en soi, au point que certains gestes propres à la liturgie ont été conservés bien que leur signification pratique ait désormais disparu.

    C'est la révolution moderne, à partir de Luther et Calvin, puis de Cromwell et de la révolution puritaine, qui est habitée par un désir gnostique de destruction du présent, parce qu'elle ne parvient plus à en voir la luminosité, la beauté et la grandeur, parce que l'on a plus d'yeux ni de cœur pour voir imprimée dans le présent la fatigue des siècles qui ont été nécessaires pour le construire. La rébellion des modernistes, à l'époque de saint Pie X comme aujourd'hui, naît de l'orgueil, de l'amour-propre poussé jusqu'au mépris de Dieu, elle naît du triomphe de la chair sur l’esprit : on ne peut pas, en effet, plaire à la fois à Dieu et au monde.

    Et pourtant, face au scénario de ruine qui se présente aux yeux de quiconque regarde l'Église d'aujourd'hui, une Église en agonie, qui avance en trébuchant continuellement tandis qu'elle se dirige vers le Calvaire qui lui est réservé, les raisons d'espérer ne manquent pas. La première de toutes est le fait que la Messe de toujours continue d'être célébrée dans le monde entier (et cette définition est déjà un sceau de vérité). Aujourd'hui, bien sûr, tous ne comprennent pas l'importance de cette Messe : sa beauté est trop grande pour que cette génération adultère et perverse la comprenne; c'est un rayon de lumière trop intense et profond dans l'obscurité des temps, à l’heure des ténèbres, pour que ce monde l'apprécie. Notre monde, en effet, ne sait plus aimer les choses belles, les choses pleines de silence, de paix, de ciel, de lumière, de vérité. Il faut que la vie agisse sur nous en profondeur pour que nous redevenions vraiment capables de cela : il s'agit presque d'un miracle. Je pense néanmoins que, comme le dit Dostoïevski, « la beauté sauvera le monde ». On ne peut pas, même après ce tableau si dur et si sévère, ne pas avoir confiance en l'incroyable trésor de la Sainte Messe que les prêtres de la Fraternité gardent aussi pour nous, avec un amour humble et réservé et une gentillesse antique ; un trésor qui ne peut être dilapidé, qui ne peut être oublié. Un étendard, enfin, qui ne peut pas être baissé, qui ne sera jamais baissé, et peu importe, peu importe vraiment qu'il soit aujourd'hui déchiré et offensé par tant de mains sacrilèges, et si peu de personnes le savent encore aimer dévotement et avec un amour filial sincère.

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    Notes

    [1] Sur la gnose antique, cf. H. Jonas, Le Gnosticisme, Turin 1991; E. Innocenti, Influences gnostiques dans l'Église d'aujourd'hui, Rome, 2000 et La gnose apocryphe, vol. I et II, Rome, 1993-1999; J. Meinvielle, Influence du gnosticisme juif en milieu chrétien, Rome, 1995 ; E. Samek Lodovici, Métamorphoses de la gnose, op. cit. (pour d'intéressantes références bibliographiques sur la gnose et la philosophie occidentale, et en particulier pour les influences sur Schelling, Heidegger, Marx, Bloch).

    [2] Sur le rapport Luther - antisémitisme - nazisme, cf. A. Acnoletto, La tragédie de l'Europe chrétienne au XVI '' siècle. De la judéophobie de Luther aux humanistes Jonas et Mélanchton, Milan, 1996 (texte néanmoins faible et d'orientation moderniste dans le chapitre consacré au rapport catholicisme /judaïsme).

    [3] Curieusement, il est permis de penser qu'une idée semblable se trouve à la base de la pensée freudienne. La psychanalyse, au fond, est une gnose : je suis libéré par une connaissance, et ce qui compte, c'est d'être initié au cheminement ésotérique qui conduit à la connaissance qui sauve. Cette matrice gnostique et cabalistique apparaît également au niveau scientifique : « Le pansexualisme de Freud a des antécédents dans la cabale, comme l'a démontré David Bakam dans Freud et la tradition mystique hébraïque. L'hérésie gnostique de la cabale, qui s'est infiltrée dans les cercles secrets, voit Dieu lui-même comme bisexué, elle voit Adam comme androgyne, et elle nous voit tous comme dominés par des forces démoniaques occultes ou, comme le dira plus tard Freud, « inconscientes ». En outre, les théories « révolutionnaires » sur la sexualité infantile furent tout de suite acceptées au sein d'une association juive particulière, le B'nai B'rith, fondée en 1843 par des francs-maçons et divisée en Loges (il s'agit de la franc-maçonnerie réservée aux juifs - ndr). L’interprétation des rêves a elle aussi été suggérée à Freud par des textes cabalistiques, qui ne voyaient dans le monde onirique que symboles sexuels, incestueux, sodomitiques et bestiaux. Bakam va plus loin et voit dans le plus célèbre livre de Freud un « pacte avec le diable ». La devise qui apparaît est « Flectere si nequeo Superos, Acheronte movebo », c'est-à-dire « Si je ne plie pas les divinités célestes, je remuerai l'Achéron » (c'est-à-dire les Enfers). C'est Virgile qui fait parler Junon en colère (Enéide, VII, 310-12). La psychanalyse propose un renversement : à la place de la pensée logique et consciente, elle met l'inconscient, lourd d'obscurs complexes sexuels, blasphématoires et agressifs. Pour ce faire, tous les chemins sont bons, surtout la mystification et la falsification » (C. Gatto Trocchi, L'âme inquiète de l'Occident, in Certamen, n°15, Milan, 2002).

    [4] Une analyse particulièrement profonde et lucide de la dialectique hégélienne et, implicitement, du thème de l'aliénation, nous est fournie par E. Berti, dans Contradiction et dialectique chez les anciens et les modernes. Palerme, 1988.

    [5] Sur le primat de la volonté libre, cf. A. Dalledonne, Le primat thomiste de la volonté libre, in Actes du congrès théologique de Si Si No No, Condé sur Noireau, 1995, pp.56-66.

    [6] Pour approfondir les aspects les moins connus de la biographie d'Hegel, susceptibles d'éclairer ses rapports avec les cercles révolutionnaires et la franc-maçonnerie, cf. J. D'HONDT, Hegel secret. Recherches sur les sources secrètes de la pensée hégélienne, Milan, 1989 (2003).

    [7] Cf. E. Vœgelin, La nouvelle science politique, Rome 1999 (Chicago 1952).

    [8] De fait l'évêque John Fisher et un groupe de chartreux refusèrent aussi de prêter serment, mais sur le plan concret, existentiel, la sensation de solitude absolue, telle qu'on la déduit des lettres de prison (T. More, Lettres de prison, Turin, 1991), fut immense.

    [9] Nous sommes ici face à la plus grande limite de nombreux mouvements, même catholiques, où l'appartenance au mouvement compte - ou du moins semble compter - davantage que l'appartenance à l'Église en tant que telle, et davantage que la fidélité personnelle au Christ. Quand la foi est la maîtresse, tout personnalisme, toute spectacularisation, tout culte fétichiste est exclu. Au contraire : plus un homme est saint, plus on a la sensation, en l'approchant, d'approcher le Christ. Un exemple classique de dégénérescence de la vie religieuse due à l'appartenance à un mouvement sectaire est donné par les néocatéchuménaux, un groupe d'hérétiques qui se répand dans l'Église catholique. La preuve que nous nous trouvons dans ce cas face à une secte est donnée par la capacité du groupe à arracher ses adeptes à la vie de la communauté paroissiale, en les enfermant dans un univers collatéral traversé par de fortes tensions manipulatrices. Pour une introduction aux hallucinantes distorsions théologiques des néocatéchuménaux, cf. L. Villa, Hérésies dans la doctrine nèocatèchuménale, Brescia, 2000.

    [10] Ce qui n'est pas surprenant, car nous savons que c'est une terre où la Révolution est née et où elle s'est acharnée de façon particulière, et donc où, si l'orthodoxie et la Tradition ont toujours été défendues, il y a eu aussi la poussée destructrice de la Révolution.

    [11] Il suffit de relire l'histoire du sanctuaire de Lourdes pour constater, à titre d'exemple, les horreurs juridiques que le gouvernement maçonnique et républicain chercha à mettre en œuvre pour empêcher l'Église d'avoir cette terre. Mais la persécution anti-catholique s'exprima dans mille autres faits et lois.

    [12] L. Laberthonnière (1860-1932), Essais de philosophie religieuse (1903); Le réalisme chrétien et l'idéalisme grec (1904); Sur la voie du catholicisme (1912); Etudes sur Descartes (1935); Études de philosophie cartésienne et premiers écrits philosophiques (1937).

    [13] A. Loisy (1857-1940), L'évangile et l'Église (1902); Autour d'un petit livre (1903) (ce sont les deux textes dont sont extraites en grande partie les propositions ou thèses condamnées dans Pascendi et dans le décret Lamentabili) ; La religion d'Israël ( 1901 ) ; Le quatrième évangile (1903); La religion (1917); La discipline intellectuelle ( 1919) ; La morale humaine (1923). Encore inégalées en finesse et en profondeur, voir les critiques des exégèses fantaisistes de Loisy développées par G. Riciotti dans sa Vie de Jésus.

    [14] E. Le Roy (1870-1954), Science et philosophie (1899-1900); Dogme et critique (1907); L'exigence idéaliste et le fait de l'évolution (1927); Le problème de Dieu (1929).

    [15] À propos des efforts pour détruire l'Église catholique, nous savons que la franc-maçonnerie s'est trouvée en première ligne dans ce domaine. Il y a à cet égard quelques observations intéressantes concernant le moderniste italien le plus important et le plus influent : Ernesto Bonaiuti. Le frère de ce dernier, Alarico, s'inscrivit en 1904 à la loge Veritas de la grande loge d'Orient à Tunis, commençant une importante carrière maçonnique. En 1920, Bonaiuti - le Grand Orient s'en vante, car les francs-maçons soulignent leur rôle dans l'histoire moderne avec grande transparence - nomma comme responsable d'une revue qu'il avait fondée un spécialiste de symbolique maçonnique (information donnée par le site Internet du Grand Orient d'Italie). Ceci ne signifie pas nécessairement que Bonaiuti était franc-maçon (je n'ai du moins pas d'information à ce sujet), mais il est intéressant de remarquer cette curieuse proximité, au moins au niveau familial.

    [16] Un épisode que j'ai vécu récemment sera peut-être instructif à ce sujet. J'ai eu l'occasion de discuter avec certaines personnes - qui se croient, je pense, de bons catholiques - à leur retour d'une semaine d'études œcuméniques organisée par le S.A.E. (Secrétariat aux Activités Œcuméniques), qui prévoyait la participation de théologiens catholiques, rabbins, pasteurs vaudois et protestants, etc. Ces personnes, à un moment donné, m'ont énuméré quatre « découvertes » faites à cette occasion : Marie n’est pas vierge ; le célibat des prêtres est une invention médiévale due à des raisons de pouvoir, d'héritage; Jésus est seulement un homme très aimé de Dieu ; la Trinité est une notion post-biblique inventée par les théologiens médiévaux, et qui n’a aucun rapport avec les Écritures. Ils ont également fait émerger les notions suivantes : dans la sexualité, il n'y a rien de mal (sic !) ; il ne faut pas parler de prêtres, mais seulement de pasteurs; l'athée est celui qui n'aime pas, et non celui qui ne croit pas. Or, puisque les actes des congrès du S.A.E. sont en général publiés, la question qui se pose est la suivante : comment se fait-il qu'aucune autorité, au niveau de la Curie romaine, n'avertit, n'excommunie, ni ne sanctionne en quelque façon les méfaits d'un congrès organisé par des catholiques permettant aux gens d'adopter des idées telles que celles que j'ai citées ? Face à l'erreur et à l'hérésie, le silence de l'Autorité risque de signifier complicité et approbation, sans parler du scandale pour les fidèles.

    [17] M. Blondel (1861-1949), L'action. Essai d'une critique de la vie et d’une science de la pratique ( 1893) ; Lettres sur les exigences de la pensée contemporaine en matière apologétique ( 1896) ; Histoire et Dogme ( 1904).

    [18] Remarquons que le problème théologique posé par la méthode de l'immanence est le risque d'une continuité presque absolue entre ordre naturel et ordre surnaturel, c'est-à-dire la confusion de ces deux ordres. Si l'on supprime cette distinction, on fait en un certain sens disparaître l'idée même de Révélation et, par conséquent, de foi ex audito.

    [19] Nous utilisons ici la catégorie de bolchevisme en désignant par elle le recours programmatique au mensonge, à la violence, à la tromperie par une minorité dans le but d'atteindre le pouvoir. Il ne faut pas non plus oublier que toutes les révolutions modernes ont toujours été des révolutions de minorités aguerries convaincues de la légitimité de la subversion de l'ordre, même contre le sentiment de la majorité écrasante des citoyens, et ceci se vérifie pour la première fois de façon manifeste avec le mouvement jacobin pendant la Révolution française (bien que le primum soit constitué par les tentatives révolutionnaires des anabaptistes du XVIe siècle et par la révolution puritaine de Cromwell). Une majorité passive et désorganisée n'a aucune possibilité de résister à une minorité organisée qui agit de façon compacte sur la base d'une logique militaire (cf. G. Mosca, La classe politique Bari, 1966, 1994). La stratégie des novateurs pendant le Concile Vatican II a parfaitement respecté cette règle : les réformes, au premier rang desquelles la réforme liturgique, n'étaient certainement pas attendues ni demandées par le peuple des fidèles, qui furent au contraire déconcertés, mais par une minorité d'évêques néomodernistes, capables de piloter les choix du Concile et de susciter une exécration artificielle envers les prêtres, les évêques et les théologiens conservateurs (cf. aussi G. Baget Bozzo, L'Antéchrist, Milan, 2001, texte qui, à part quelques vues hétérodoxes sur le thème de la peine éternelle de l'enfer pour les réprouvés, saisit avec grande finesse et profondeur les dynamiques « politiques » et culturelles qui ont engendré et guidé le Concile et l'après-Concile, soulignant l'agressivité de la minorité moderniste protestantisante).

    [20] Lorsque Küng, après un long contentieux avec Rome, ne fut pas excommunié, mais reçut seulement des sanctions vraiment limitées pour ce qu'il disait (il fut suspendu de sa chaire, mais en conservant d'autres enseignements), il affirma être heureux de pouvoir encore se considérer comme un théologien catholique. On ne peut pas ne pas voir que ceci est très grave, car si nous devons penser que Küng est catholique en étant un théologien renommé qui a écrit des livres importants totalement hérétiques, niant par exemple la divinité du Christ et l'infaillibilité du Pape, alors comment pouvons-nous être catholiques comme Küng ? Comment pouvons-nous nous trouver avec lui dans l'Église. Qui a raison ? Les catholiques qui croient à ce qui a toujours été enseigné par l'Église, ou Küng ? Le problème est de taille et non sans gravité, car nous ne pouvons pas être en même temps tous les deux (les catholiques honnêtes n'ayant pas perdu la foi et Küng) catholiques et dans le vrai, sur la base du principe de non contradiction. Soit c'est Küng qui a tort, soit c'est nous. Mais c'est l'Église qui doit affirmer cela, et non pas le simple fidèle, ou plutôt il doit le dire lui aussi si l'Église hiérarchique ne le fait pas, mais ceci présage déjà d'une situation de crise extraordinaire et presque sans précédent. Cette coexistence, au sein de l'Eglise, de toutes les opinions théologiques et doctrinales, et surtout d'opinions frontalement opposées est un véritable drame, c'est une chose qui a des proportions métaphysiques. Pour le contenu assurément hérétique de la pensée de Küng, cf. L. Jammarrone, Hans Küng hérétique, Brescia, 1977. Le prof. Pasqualucci a écrit (cf. Politique et religion, op. cit.) que le Concile œcuménique Vatican II est l'événement le plus important de l'histoire du XXe siècle. Il a parfaitement raison, car l'Église est le Corps Mystique du Christ, par conséquent ce qui arrive au sein de l'Église a des implications métaphysiques, et non pas seulement sociologiques ou événementielles (cf. aussi P. Calmel, Pour une théologie de l'histoire, 1967). En comparant le cas de Küng à l'incroyable persécution et diffamation de Mgr Lefebvre et de la Fraternité Saint Pie X, ainsi que les sanctions dont ils ont été l'objet, on ne peut que conclure qu'il semble aujourd'hui que dans l'Église, l’obéissance à l'autorité (indépendamment de ce que l'autorité fait ou affirme) soit considérée comme une valeur plus élevée que l’obéissance à la Vérité, c'est-à-dire en dernière instance à Dieu lui-même. Or, évidemment, l'Autorité a été faite et instituée pour la Vérité, et non la Vérité pour l'Autorité.

    [21] Encyclique Pascendi, § 37-38.

    [22] Sur la notion de Moyen Âge comme idéologiquement connotée et inadaptée à définir la société et l'histoire européenne médiévale, cf. M. Tangheroni, in Préface à l'ouvrage de R. Pernoud, Lumière du Moyen Âge, 1978.

    [23] Aujourd'hui, en particulier, la pensée catholique est dévastée par ce que je définis comme un syndrome de Stockholm théologique : on s'identifie avec l'agresseur, et pour pouvoir parler et avoir de l'espace dans les grands quotidiens, les Enzo Bianchi de service, fussent-ils de bonne foi et, probablement, croyant bien faire, disent exactement les choses que l'agresseur veut s'entendre dire, les choses que les ennemis du Christ souhaitent voir affirmer par l'Église. Un cas emblématique est celui du card. Martini, qui a été « inventé » comme cas ecclésial et comme leader du parti progressiste par un froid calcul de la presse laïque de gauche (et donc par les cercles du pouvoir et de l'autorité qui se trouvent derrière cette presse), tant italienne qu'européenne, avec des interviews, des espaces continuels dans les quotidiens (par exemple La Repubblica, fondée par le journaliste E. Scalfari, apparenté à une famille de longue tradition maçonnique), une grande importance accordée à ses affirmations hétérodoxes dans le domaine doctrinal et moral, la séduction de la référence continuelle - toujours dans la presse la plus clairement laïciste et anticatholique - à sa personne comme à un « papabile »... Il est clair que seule une profonde sainteté pourrait permettre à un prélat de résister à cette insistante cour médiatique des ennemis du Christ ! Mais outre la séduction des éléments les plus faibles et fragiles de l'épiscopat - ou les plus enclins à adhérer à des positions hérétiques - il faut également tenir compte de la pression inimaginable, directe et indirecte, exercée sur quiconque est fidèle à la Tradition : la conspiration du silence (dont parle saint Pie X avec une infinie sainteté) envers qui est orthodoxe, envers qui est fidèle, envers qui ne cède pas à la perverse démolition de la doctrine de toujours; la pression, l'insulte envers qui tient bon, et en même temps, toujours, la séduction pour qui se plie et commence à parler comme le veut le monde. Lisons comment Pascendi décrit la stratégie contre les hommes d'église fidèles : « Après cela, il n'y a pas lieu de s'étonner si les modernistes poursuivent de toute leur malveillance, de toute leur acrimonie, les catholiques qui luttent vigoureusement pour l'Église. Il n'est sorte d'injures qu'ils ne vomissent contre eux. Celle d'ignorance et d'entêtement est la préférée. S'agit-il d'un adversaire que son érudition et sa vigueur d'esprit rendent redoutable : ils chercheront à le réduire à l'impuissance en organisant autour de lui la conspiration du silence. Conduite d'autant plus blâmable que, dans le même temps, sans fin ni mesure, ils accablent d'éloges qui se met de leur bord. Un ouvrage paraît, respirant la nouveauté par tous ses pores; ils l'accueillent avec des applaudissements et des cris d'admiration. Plus un auteur aura apporté d'audace à battre en brèche l'antiquité, à saper la tradition et le magistère ecclésiastique, et plus il sera savant. Enfin - et ceci est un sujet de véritable horreur pour les bons - s'il arrive que l'un d'entre eux soit frappé des condamnations de l'Église, les autres aussitôt de se presser autour de lui, de le combler d'éloges publics, de le vénérer presque comme un martyr de la vérité » (Pascendi, § 60).

    [24] Nous paraphrasons et résumons les notions les plus importantes exposées par l'encyclique.

    [25] On remarque qu'il y a déjà, dans cette thèse moderniste, une porte ouverte à I'immanentisme et à l'anthropocentrisme de Karl Rahner, il y a déjà le christianisme anonyme, car si Dieu, en vertu de l'incarnation du Christ, est immanent à l'homme (« il s 'est uni en quelque sorte à chaque homme », comme le dit le célèbre passage conciliaire!), chaque homme, même sans le savoir, est anonymement chrétien, donc non exclu du salut, et tous sont sauvés sans besoin de sacrements, de foi, de morale, de conformité de leur vie à Notre-Seigneur Jésus-Christ. Et si tous sont sauvés, il n'est plus nécessaire pour l'Église catholique d'être missionnaire, car l'Église catholique n'est qu'une avant-garde éclairée, l'avant-garde de pneumatiques, de personnes qui ont la gnose pleine et qui doivent la porter aux autres, mais sans trop de hâte, sans trop de décision, pour ne pas blesser leur sentiment déjà naturellement chrétien.

    [26] Pascendi, § 53.

    [27] Pascendi, § 61.

    FONTE

 

 
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