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  1. #1
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    Predefinito 31 luglio: Sant'Ignazio di Loyola, Confessore, fondatore della Compagnia di Gesú

    CARI AMICI,

    ECCOVI IL CALENDARIO LITURGICO A TUTT'OGGI IN VIGORE NELLA CHIESA CATTOLICA, DATA L'INVALIDITà DELLE RIFORME MONTINIANE E RONCALLIANE DEL CALENDARIO, RIFORME DI PRETTA MATRICE GIANSENISTICO-POSITIVISTA.
    VI AUGURO DI TUTTO CUORE UN BEL MESE DI LUGLIO, PIENO DI BUONE OPERE, DI TANTE PREGHIERE E CONSOLAZIONI, DI PICCOLE E GRANDI BATTAGLIE CONTRO IL MODERNISMO ED I SUOI GREGARI.

    SANCTA MARIA ET OMNES SANCTI INTERCEDANT PRO NOBIS UT MEREAMUR AB EO ADIUVARI ET SALVARI. PER CHRISTUM DOMINUM NOSTRUM. AMEN

    GUELFO NERO



    1 FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI NOSTRO SIGNORE GESù CRISTO
    Ottava di San Giovanni Battista
    2 VISITAZIONE DELLA B. V. MARIA
    Santi Processo e Martiniano, Martiri
    3 San Leone II, Papa e Confessore.
    4 QUINTA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE
    (Commemorazione di tutti i Ss. Sommi Pontefici)
    5 Sant'Antonio Maria Zaccaria, Confessore.
    6 Ottava di San Pietro e Paolo
    7 Santi Cirillo e Metodio, apostoli degli Slavi, Vescovi e Confessori.
    (San Lorenzo di Brindisi, Confessore)
    8 Sant'Elisabetta, regina del Portogallo, vedova.
    9 De Ea
    (Santa Veronica Giuliani, Vergine)
    (Santa Maria Goretti, Vergine e Martire)
    10 Santi Sette Fratelli Martiri e Sante Rufina e Seconda, Vergini e Martiri.
    11 SESTA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE
    San Pio I, Papa e Martire
    12 San Giovanni Gualberto, Abate.
    Santi Nabore e Felice, Martiri
    13 Sant' Anacleto Papa e Martire
    14 San Bonaventura, Vescovo, Confessore e Dottore della Chiesa
    15 Sant'Enrico II, Imperatore di Germania e Confessore.
    16 Beata Vergine Maria del Monte Carmelo.
    17 Sant'Alessio, Confessore
    (Umiltà della B.V. Maria)
    18 SETTIMA DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE
    San Camillo de Lellis, Confessore.
    Santa Sinforosa e dei suoi sette figli Martiri
    19 San Vincenzo de' Paoli, Confessore, fondatore dei Lazzaristi e delle Figlie della Carità.
    20 San Gerolamo Emiliani, Confessore.
    Santa Margherita, Vergine e Martire
    21 Santa Prassede, Vergine
    22 Santa Maria Maddalena, Penitente.
    23 Sant'Apollinare di Ravenna, Vescovo e Martire.
    San Liborio di Mans, Vescovo e Confessore
    24 Santa Cristina, Vergine e Martire
    25 SAN GIACOMO MAGGIORE APOSTOLO.
    (Ottava domenica dopo la Pentecoste)
    San Cristoforo, Martire
    26 SANT'ANNA, MADRE DELLA BEATA VERGINE MARIA.
    27 San Pantaleone di Nicomedia, Martire
    28 Santi Nazario e Celso, Martiri
    San Vittore I, Papa e Martire
    Sant'Innocenzo I, Papa e Confessore.
    29 Santa Marta, Vergine.
    Santi Felice II Papa, Simplicio, Faustino e Beatrice, Martiri
    30 Santi Abdon e Sennen, Martiri
    31 Sant'Ignazio di Loyola, Confessore, fondatore della Compagnia di Gesú.



  2. #2
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    Predefinito 2 luglio: VISITAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

    Dopo l'annuncio dell'Angelo, Maria si mette in viaggio frettolosamente" dice S. Luca) per far visita alla cugina Elisabetta e prestarle servizio. Aggregandosi probabilmente ad una carovana di pellegrini che si recano a Gerusalemme, attraversa la Samaria e raggiunge Ain-Karim, in Giudea, dove abita la famiglia di Zaccaria. E’ facile immaginare quali sentimenti pervadano il suo animo alla meditazione del mistero annunciatole dall'angelo. Sono sentimenti di umile riconoscenza verso la grandezza e la bontà di Dio, che Maria esprimerà alla presenza della cugina con l'inno del Magnificat, l'espressione "dell'amore gioioso che canta e loda l'amato" (S. Bernardino da Siena): "La mia anima esalta il Signore, e trasale di gioia il mio spirito...".
    La presenza del Verbo incarnato in Maria è causa di grazia per Elisabetta che, ispirata, avverte i grandi misteri operanti nella giovane cugina, la sua dignità di Madre di Dio, la sua fede nella parola divina e la santificazione del precursore, che esulta di gioia nel seno della madre. Maria rimane presso Elisabetta fino alla nascita di Giovanni Battista, attendendo probabilmente altri otto giorni per il rito dell'imposizione del nome. Accettando questo computo del periodo trascorso presso la cugina Elisabetta, la festa della Visitazione, di origine francescana (i frati minori la celebravano già nel 1263), veniva celebrata il 2 luglio, cioè al termine della visita di Maria. La festa venne poi estesa a,tutta la Chiesa latina da papa Urbano VI per propiziare con la intercessione di Maria la pace e l'unità dei cristiani divisi dal grande scisma di Occidente. Il sinodo di Basilea, nella sessione del 10 luglio 1441, confermò la festività della Visitazione, dapprima non accettata dagli Stati che parteggiavano per l'antipapa.
    "Nell'Incarnazione - commentava S. Francesco di Sales - Maria si umilia confessando di essere la serva del Signore... Ma Maria non si indugia ad umiliarsi davanti a Dio perchè sa che carità e umiltà non sono perfette se non passano da Dio al prossimo. Non è possibile amare Dio che non vediamo, se non amiamo gli uomini che vediamo. Questa parte si compie nella Visitazione".


  3. #3
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    Predefinito 9 luglio: Santa Maria Goretti, vergine e martire

    Santa Maria Goretti, santa della castità, pregate per noi

    Marietta ha fatto una scelta che gli è costata la vita. Non volle
    essere complice di un uomo, che di nascosto mirava a soddisfare la propria concupiscenza sensuale spinto dall'esempio di altri giovani, da letture assidue di libri immorali, e da immagini oscene che esponeva nella propria cameretta. Ma, ad Alessandro, di otto anni più grande di lei, Maria Goretti, giovane appena sbocciata (quasi 12 anni), ha saputo opporre coraggiosamente, ripetutamente e con fermezza, un chiaro rifiuto. Sostenuta dalla preghiera, il suo spirito è rimasto saldo in Dio, mentre vacillava il suo corpo martire
    sotto le percosse. E nel dolore Santa Maria Goretti ha perdonato perfettamente, dicendo: "Si, per amore di Gesù, gli perdono e voglio che venga in paradiso con me".
    Ora il suo trionfo è completo, come lo era il suo perdono. Infatti,
    le sue parole si sono avverate perché anche Alessandro si è convertito
    davvero e si spera fondatamente che si sia salvato. Veramente grande è questo amore che riesce a perdonare ed a dimenticare tutto il male sofferto, fino a desiderare il paradiso per l' uccisore, cioè la pienezza di ogni bene!
    Santa Maria Goretti ha guadagnato la corona del martirio, è vero; ma la grande sorpresa della sua storia è Alessandro. Egli si pente. Accetta la pena di trent' anni di reclusione per il delitto passionale commesso. Espia la sua colpa, e viene rilasciato tre anni prima per buona condotta. E' addolorato per il male che ha fatto, ne inorridisce al solo pensiero. Sopporta con pazienza e rassegnazione la vergogna del suo gesto, ed accetta tutte le umiliazioni che ne derivano. Viene accolto in un convento di frati francescani, che lo prendono come giardiniere e lo trattano come un fratello. Dal male compiuto egli stesso ricava un insegnamento per i giovani, ai quali lascia questo testamento: "fuggite il male, seguite il bene sempre, la religione con i suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, l'unica via sicura in tutte le circostanze anche le più dolorose della vita." Ma Alessandro per tutta la vita ha tenuto gli occhi fissi sulla santa martire. Santa Maria Goretti è stata la sua luce e la sua salvezza.
    La storia non è cambiata perché ancora oggi si uccide a migliaia,
    innocenti martiri con l'aborto, per le stesse ragioni di allora: il
    soddisfacimento sessuale senza la responsabilità dell'accoglienza dei
    figli, e molti sono i complici che acconsentono. Ma ciò rende ancor più luminoso l'esempio del perdono datoci da Maria e l'esempio dell'espiazione datoci da Alessandro Serenelli.



  4. #4
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    Predefinito 12. luglio, santi Ermacora Vescovo e Fortunato Diacono, Patroni di Udine



    ERMAGORA, vescovo di AQUILEIA, e FORTUNATO, diacono, santi, martiri.
    Ermagora è il vescovo col quale comincia il catalogo episcopale di Aquileia e non c'è ragione di dubitare di questa testimonianza. Egli sarebbe vissuto forse verso la metà del sec. III e dopo di lui quel catalogo continua senza interruzione, nonostante qualche incertezza.
    Oltre a questo, nulla sappiamo di sicuro a proposito del protovescovo. A tale mancanza intese supplire una diffusa leggenda che, formatasi già durante il sec. VIII, raggiunse la sua maturità durante il secolo seguente, non senza subire aggiunte e varianti nell'età posteriore. Essa sorse e si sviluppò nell'intento di dare un'origine apostolica alla Chiesa di Aquileia e narra che l'evangelista s. Marco, inviato da s. Pietro ad evangelizzare l'Italia superiore, giunto ad Aquileia, vi incontrò un cittadino di nome Ermagora e, convertitolo al Cristianesimo, lo consacrò vescovo della città; anzi, secondo una variante, lo condusse a Roma, dove s. Pietro in persona lo consacrò. Mentre s. Marco sarebbe stato inviato ad evangelizzare Alessandria, s. Ermagora sarebbe stato inviato ad Aquileia ed avrebbe evangelizzata quella città e le regioni circonvicine. Egli vi avrebbe conclusa la sua missione con il martirio durante la persecuzione suscitata da Nerone e compagno gli sarebbe stato il suo diacono Fortunato. La loro memoria fu celebrata al 12 luglio, data nella quale sono ricordati anche nel Martirologio Romano, nella Chiesa di Aquileia ed in altre Chiese. Nelle diverse redazioni nelle quali ci fu tramandato il Martirologio Geronimiano, i due martiri sono notati sempre sotto quella stessa data; ma è assai notevole che al primo posto sia ricordato S. Fortunato, anzi, in qualche esemplare dello stesso Martirologio si legge soltanto il suo nome. Ci sorprende inoltre che Venanzio Fortunato nel sec. VI ricordi due volte s. Fortunato in Aquileia: una volta nella Vita di s. Martino: "Ac Fortunati benedictam urnam", un'altra volta in Miscellanea : "Et Fortunatum fert Aquileiam suum".
    Doveva essere perciò un martire assai celebrato; invece Venanzio non fa cenno di Ermagora. Finalmente, nel Martirologio citato, accanto a Fortunato, è ricordato il secondo martire col come così deformato: Armageri, Armagri, Armigeri, secondo i diversi codd. Che questo martire, che non è però qualificato col titolo di vescovo, sia il nostro Ermagora, non pare sia da dubitare, e che il suo nome, tutt'altro che comune, possa essere stato storpiato dai copisti, non sorprende coloro che hanno qualche familiarità col Geronimiano; sorprende invece che sia messo nel secondo posto. Ma la spiegazione di questa anomalia potrebbe aversi nel fatto che l'estensore del Martirologio trovò in un antico elenco di martiri (o forse nello stesso Venanzio Fortunato) il nome dell'aquileiese Fortunato e vi aggiunse quello del primo vescovo aquileiese, che doveva essergli assai meno noto. Ma c'è dell'altro: nello stesso Geronimiano troviamo, sotto il 22 o 23 agosto, ricordati per Aquileia: "sanctorum Fortunati Hermogenis", questo secondo nome deformato anche in Hermogerati, Ermodori. Pare però evidente che questo Ermogene non è che una ripetizione di Ermagora; infatti già gli antichi Bollandisti avevano pensato ad una identificazione dei due gruppi. Va pure notato che il 14 agosto si festeggiavano i martiri Felice e Fortunato (il secondo sempre aquilese) ai quali basti qui accennare.

    Pio Paschini

    Cfr.: Mar. 964; P. Zampa, I santi del Friuli, Pradamano 1930 (pp. 33-39); E.Marcon, Sant’E. protovescovo e martire di Aquileia, Gorizia 1958;I patriarchi della Chiesa aquileiese, VC 12.7.1964; R. Bratoz, Il Cristianesimo aquileiese prima di Costantino, Udine-Gorizia 1999.

  5. #5
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    Predicje te fieste di S. Ermacure e Furtunât a Aquilèe
    pre Checo Placereàn, 1977

    Lassàjmi dî doi, tre pinsîrs par comemorâ cheste fieste che ogni an o’ fasìn in onor dai nestris sanz fondators Ermacure e Furtunât.
    O’ vèis di lassâmi fevelâ cun tune certe scletece, ancje parceche nol è tinp di cjacaris, e nol è tinp di dî robis che stan masse par ajar, cence vignî al pont des robis.
    Prime di dut la fieste ch’o fasìn vuê ‘e jè la fieste dai fondadors de nestre Glesie e cjalàit che la peraule “nestre Glesie”, al ûl dî chel chi: che la nestre ‘e jè la Glesie di Diu in tal nestri paîs.
    Chêi che fevelin de Glesie di Diu cence dî in ce paîs che son ‘e jè int che fevele pal ajar, parceche la glesie di Diu, se jè in chest mont, no pò jessi dapardut cence jessi in cualchi puest,
    e la Glesie di Diu che jè chi di nô ‘e jè la nestre Glesie Furlane.
    E cjalàit che nol è dome un mût di dî, chel chi; jè une robe unevore profonde, parceche la fede ‘e pò jessi conpagne a Alessandrie, a Costantinopoli e a Rome, come a Londre, ma però in dutes les bandes la peraule di Diu, la sapienze di Diu, il pont di viste di Diu si lu capìs seont il mût di capî, il mût di jessi di che tjere dulà che rive a colâ la peraule di Diu.
    Nô furlans o’ capìn la peraule di Diu, disinle in curt, par furlan.
    I fradis slovenos a le capìssin par sloveno, dulà che no jè dome cuistion di lenghe, ‘e jè cuistion di mût di sintî , di mût di esprimisi, di mût di capî.
    I nestris fradis todescs e talians le capìssin par todesc e par talian; Ogni glesie locâl Diu le à volude.
    No’nd’à volût une sole in chest mont par che duc’ e’ podessin rifletilu seont il lor spieli, il spieli dal lor cjâf.
    E al sarès teribilmenti inicuo che si volès pretindi di fâ doprâ il propri spieli a altris popui che no son de nestre gjernassie e de nestre cjoce, come ch’al sucêt.
    La nestre ‘e jè une glesie locâl; e cjalàit che cheste glesie, che par altri ‘e jè la mari di dutis ches glesiis che van dal Adriatic fin al Danàu, al Danubio e da Como fintremai a Zagabrie e son restâz come che e’ àn crodût, secont il lor mût di capî e di viodi, i slovenos par sloven, i todescs par todesc e i talians par talian e i furlans par furlan.
    E cheste Glesie no à metût il pît sul cuel a dinissun.
    Come ch’o cjantavin tal cjant di entrade: chi l’om furlan, il sloven, il todesc e il talian a’ jerin amîs.
    Cheste glesie no à cirût di fâ deventâ un sol popul i siei diferenz popui.
    Ju à volûz fâ crodi lassanju duc’ cemût che son.
    E chi al covente dî: al è inpuartant, dulà che jè une crosere di popui, dî che robe chi.
    La Glesie ‘e lasse la int come che jè.
    La Glesie no ven a fâ un sol popul, ma ‘e jè un levan in duc’ i popui seont la lor patrie.
    Al covente dî che robe chi.
    Al è inpuartant che in cheste tjere, dulà che, une vore di voltes i popui si son frontâs, ancje cirint di jessi meti il pît sul cuel un cul altri.
    Che robe chi ‘e glesie ‘e j tocje dîle.
    E al è propit su chest pont culì ch’‘o vuèi clamàus l’atenzion, par, come seont pont.
    Cjalàit ch’al è un secul, e salacor di plui, a un cert pont e’ dìsin, a un cert punt a’ predìcjin, cence pensâj masse sore, che la Glesie no à di inpaçâsi in tes robes di chest mont.
    Se no à di inpaçâsi in tes robis di chest mont jo no capìs parceche ‘e varès di jessi in chest mont!
    La Glesie se à di inpaçâsi in tes robis di chest mont, no à di inpaçâsi come chealtris.
    No à di inpaçâsi pal stes tinp, parceche dai afârs di chealtris, ma che vedi di inpaçâsi in non dal spirit, in non dal Spirtu Sant tes robis di chest mont ‘e jè une dutrine vecjissime in te glesie,
    La Glesie catoliche, par secui e secui si è insegnât che la Glesie ‘e à di interessasi des robis dal popul come che a’ disevin par latin: “ratione peccati”
    La Glesie no à di vignîmi a dîmi a mi che si fâs pecjât dome in che robe o in ta chê altre;
    ‘e à di lâ a dî ancje ai potenz ch’a fasin pecjât, in che robe o in ta chealtre.
    E’ àn di lâ a dî ancje ai granc’ potenz di chest mont ch’al è pecjât tratâ la int cussì, o tratâle culà!
    Parcé ‘ae di vignî a dîmi dome a mi dome par vie dal sest comandament ch’al è pecjât chest o chelaltri!
    E par vie, par cas, dal setim, e par vie, par cas, dal cuint no èse interessade la pulitiche des grandis nazions?
    No èse interessade, par câs, la politiche des grandes conpagnies economiches?
    A di chês cè si àe di fâ? Di tasê?
    Jo ‘o crôt veramentri, che chi al vadi dite che robe achì.
    La Glesie ‘e à di interessâsi di dut par vie de justizie e de veretât e de peraule di Crist.
    No à di vignî a sostituî il Stât, ‘o soi dacordo.
    Il Stât in chest mont, nol è a servissi nestri par fânus deventâ bogn, un ch’al vîf secont il codiç dal Stât al sarà un om legâl, un om che nol va in pereson, un om ch’al è bon di vivi cun chealtris, ma par chel nol è bon.
    Al è un legâl, al è un bon citadin, nol è di buine condote.
    Par jessi bogn al covente vivi seont virtût,
    e jo no ài mài capît che il codiç al insegni la virtût!
    Il codiç al insegne a oservâ un conpuartament esterno ch’al rindi pussibil la vite cun chei altris.
    La Glesie ‘e pratint che tu tu sedis bon tal cûr;
    che tu vedis l’anime buine,
    e su chest pont ‘e à di intervignî pardut.
    Pa la cuâl al è natural tal cors de storie passade e presint, une Glesie che va masse dacordo cul Stât no pò jessi une glesie buine, parceche ‘a cjate masse virtûz in tal codiç dal stât.
    mentri jessi bogn nol ûl dî dome jessi legâi.
    ‘E à il dovê di dî, no dome il dirit, ‘e à il dovê di dî il pont di viste di Crist su dut.
    No à il dirìt di sotituî il Stât,
    No à il dirit di fâ un codiç penâl parceche no si conpuartin ben cun chealtris,
    ma ‘e à il dovê e il dirit e il dovê di dî che no tu sês bon se tu fasis cussì,
    che tu sês ingjust, se tu fasis cussì.
    Se tu metis il pît sul cuel a di chealtris, par grant che tu sêdis,
    no tu sês a puest,
    Al è clâr che une Glesie vedude in cheste maniere ‘e secje l’anime a tanc’.
    Al è clâr che in tun clime come il nestri, dulà ch’al semèe che il Stât e la pulitiche e’ pretindin sinpri plui di jessi dut!
    Dulà che, adiriture, no nus tocje lotâ sôl pe libertât de religjon, ma adiriture pe libertât de culture,
    Parceche al secje che un al pensi liberamentri;
    Inmagjinàisi in ce maniere ch’al pò secjâ un ch’al fâs une religjon di chest gjenar liberamentri.
    Ma a la Glesie no à di inpuartâ par nuje ce ch’al fâs, no j à di inpuatrâi nuje
    ‘e à di vê il coragjo di sunâles, ‘o disarès cun preference cuant ch’al coste di plui.
    E no mostrâsi esigjente dome cui piçui, dome cun chêi che no son bogn di reagjî! Cui granc’
    ‘E à di olsâ cui granc’
    E tant par no restâ par ajar
    A une glesie ‘e interesse dî se la nestre int ‘e pò jessi buine, se la nestre int ‘e pò tirâ su ben i fruz, fasint su las cjases, dopo il taramot, in tune maniere o in tun’altre.
    ‘E à di vê il coragjo di dî che fasint i paîs in tune forme o ta chealtre ‘e si met il pît sul cuel ae puare int! O no?
    ‘E dêvi dîlu!
    E che robe chi, la Glesie, ‘e no pò permetisi di delegâle a dinissun.
    E nissun nol à di vignî , in non de politiche a dî ch’al à la deleghe de Glesie.
    La Glesie no pò delegâ!
    No ch’a vedi il dirit di fevelâ a non de Glesie, ma adiriture no pò
    ‘E jè une robe che dêvi fâlu jê. Cun libertât asolude e asolude
    Jo ‘o capìs che je une robe che une robe dal gjenar a’ vedi problemas, ‘a vedi problemas
    cuant che lâ daûr de Glesie cuant ch’a cjape pusizion concrete di chest gjenar

    Cjalàit mo, in te glesie nol è mica dut di fede te stesse maniere
    Te Glesie e’ son i comandamenz principài
    e’ son altris che son mancul principâi
    E’ son i precèz fondamentâi de Glesie! E’ son i misteris principâi de fede! E’ son i Sacramenz!
    A’ son altres robes che la Glesie ‘e pò cjapâ in tun determinât moment.
    O’ podarìn ancje no jessi dacordo cualchi volte cence jessi, par chel, fûr de Glesie.
    Ma che la Glesie, che pretint di jessi gjerarchiche,
    che pratint di jessi organisade ‘e à di vê il coragjo di riscjâ ancje a costo di sbalgjâ.
    ancje a costo di tornâ indaûr;
    ma pal ben de int, par che la int in chest mont ‘e puedi cjatâ
    in tune maniere o ta che altre la vie de justissie
    la vie de veretât,
    la vie de libertât, ‘e devi fevelâ
    Il conpromès al pò lâ ben fra doi Stâz
    Pa la Glesie cun nissun altri il conpromes nol è just
    E nô, une glesie che ciri i conpromès, no nus plâs
    parceche o’ sin abituâz a Crist che nol à fat conpromès cun nissun.
    Al devi jessi dret di che bande
    ‘A devi vê il coragjo di dî ce che nissun dîs
    e alore j corin daûr;
    e alore no podìn fâ di mancul di jê
    e alore o’ savin che no jè une prepotence, ma ‘e jè che servìs
    cè che di plui intim e di plui profont o’ vin in te nestre vite
    Jo ‘o crôt di jessimi spiegât avonde
    ‘O crôt di vê clarît il gno pinsîr
    Mi auguri di vèêjus dit
    cè che mi semèje ch’al seti propit in tal Vanzeli.
    cè che al covente dî cumò
    La Glesie ‘e jè par nô
    Nol è un toc di nô sot dal Stât e chelaltri toc sot de Glesie
    O’ sin duc’ intîrs sot un aspiet o sot chelaltri sot de glesie.
    Ta nestre storie ‘e jè che il Stât al ricêf il judissi de Glesie
    cun chel dal stât o’ sarìn legâi
    cun chel de Glesie o varèssin jessi o bogn o trisc’
    E cjalàit che le nestre civiltât europèe ‘e jè une robe che stente a invecjâ, ancje in dutis lis
    al è parcheche, o vin dite sinpri,
    che altri al è cè ch’al è il Stât e altri al è cè che jè la Glesie
    al è come dî: altri al è cè ch’o sin
    altri al è cè ch’o dovarèssin di jessi.
    E cuant che si fâs un conpromès fra cè che si è e cè che si varès di jessi ‘a rive, prest o tart, la muart.
    Si smamìs dut.
    Al piert savôr dut.
    Se no jè une dose di religjon tes nestris robis
    no si cunbine e no si conclût nuje.
    ‘E jè une robe di dîlu, cence nissune pore
    ancje par sfatâ certes cjacares ch’a corin ator ancje pal Friûl.
    Il tierç pinsir a
    no sarès une robe sigure

    No podìn dismenteâsi in te situazion che nô o’ si ciatìn
    Alore ‘o ài di dîus une robe a chêi ch’a son tal taramot e a di chêi ch’a son fûr dal taramot, sinpri in tal Friûl;
    A chêi ch’a son fûr dal taramot ur dîs: dàit
    une man a puare int che à di tornâ a fâsi sù une cjase par tiràur sù il coragjo ch’a scomencin.
    Che no stêdin a spetâ che ur fasi su la cjase il Comun o la Regjon o il Stât
    Sburtàju par ch’a scomencin.
    se no, o’ pierdìn ancje chês virtûz ch’o vin ereditadis dai nestris vecjos
    se no nissun no nus gjave di jessi come tanc’ altris ch’a si sentin, a metin in conserte las mans par spetâ ch’a fâsin chealtris
    O’ vin di scomençâ a fâ, ancje parceche la nestre tjere ‘a seti
    cemût ch’o volìn nô, no ce maniere ch’a vuelis chealtris.
    E o’ vês bisugne di sburtâju, di judâju.
    Cjalàit: j podèis dî mancul rosaris,
    j podèis preâ di mancul, ma se no vês la conpassion par chêi che àn dibisugne,
    se no vês il coragjo amancul di sburtâju a olsâ, a olsâ, in tune situazion dal gjenar, cjalàit che davant di Diu i vèis falît, e no meriz

    E a di chêi che àn vût il taramot ‘o us dîs une robe: che no stedin a cuejetâus
    che no stèdin a tasê
    Ch’a fâsin.
    ‘E jè ore di scomençâ
    Jo ‘o rispieti ...
    Ma la Glesie in Friûl ‘e scomence a dî alc.
    ‘O speti che,
    ‘e dêvi dî che chi si sta tardant masse.
    che chi, dint in bon furlan si sta
    che si sta cirint cantins che no son de nestre int
    ma di altre che no jè la nestre int
    Bisugne spesseâ
    Chel ch’al vûl veramentri fâ, nol
    cjati un cantìn di cà e un cantìn di là par inderedâsi e par pierdisi par strade
    E la Glesie, come che us ài dite prin,
    e jè proprit chê che no à di vê nissune pore a metisi de bande dal cjalcjât de bande dal disgraciât,
    de bande dal puar, de bande di chel che no j slungje nuje
    parceche ‘e jè chi pe bontât, pe veretât, pe justissie
    no par justâ, in cualchi maniere,
    la pussibilitât di vivi insieme, ma ‘e jè pe veretât
    e cussì o’ le capìn ancje un’altre conclusion:
    al è clâr, cuindi, che un popul piçul come il furlan
    in mieç di altris granc’ popui, al pò sperâ dome in tune glesie; pa la cuâl, capîso
    al dîs il Spirt di Crist,e che no à nissune pore a metisi de bande dal piçul de bande dal puar, de bande di chel ch’al è cjalcjât
    E dome cussì o podarèssin viodi in te Glesie il spieli di Crist;
    Chê che nus al lasse viodi a traviars un veri linpit e clâr
    dome cussì, nô furlans, o’ riscjìn di viodi e tornâ
    a crodi in Gjesù e in ce ch’al à fondât.
    Chisc’ a’ jerin i miei pinsîrs.
    Jo mi auguri che mi vêdi fat ben a mi e che us sedi stât ancje a vualtris peraules di confuart e di consolazion.
    E ‘o crôt di vê fevelât ben de Glesie
    e ‘o crôt di vê fevelât ben de Glesie e dai popui che nus stan intor par che, ‘o crô,t che ancje lôr a cjatin cun chistis considerazions, plui
    plui sincers plui fradis, plui amîs fra lôr

  6. #6
    Operam non perdit
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    O Diu, che i sants martars Ermacure e Furtunât tu ju âs fats prins testemonis de Fede te nestre tjere, fasinus la gracie che, tignûz-sú dal lor coragjo, no vèin mai di molâ di crodi in Gjesù Crist ch’al vîf e ch’al regne dutune cun Tè e cul Spirtu Sant par ducj i secui dai secui. Amen.

    O Dio, che hai fatto i santi Ermacora e Fortunato primi testimoni della Fede della nostra terra, facci la grazia, sostenuti dal loro coraggio, di non tradire mai Gesù Cristo, che vive con Te e collo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

  7. #7
    scemo del villaggio
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    E la traduzione del primo brano per i non friulani (io ho mia moglie e mia suocera, ma gli altri?)?

  8. #8
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    Predefinito 14 luglio: San Bonaventura da Bagnoregio, vescovo, confessore e dottore della Chiesa

    San Bonaventura (nato nel 1218 a Bagnorea, l'attuale Bagnoregio) disse di aver dato le sue preferenze all'Ordine fondato da S. Francesco per aver riscontrato una mirabile somiglianza tra la crescita della Chiesa e quella della famiglia francescana: entrambe annoveravano agli inizi uomini semplici, pescatori e contadini, e più avanti uomini di scienza. Quando Bonaventura entrò nell'Ordine, i figli di S. Francesco, al pari di quelli di S. Domenico, si erano spinti fino a Parigi, a Oxford, a Cambridge, a Strasburgo e in altre università europee. L'evoluzione non era stata indolore. Parecchi della "vecchia" generazione guardavano con perplessità all'allentata disciplina religiosa e alla nuova apertura culturale dei giovani frati. Ma Bonaventura sapeva dire una parola tranquillizzante e stimolatrice per gli uni e per gli altri.
    A frate Egidio che nella sua semplicità gli chiedeva come avrebbe potuto salvarsi lui, privo di ogni scienza teologica, fra Bonaventura rispose: "Se Dio dà all'uomo soltanto la grazia di poterlo amare, questo basta... Una vecchierella può amare Dio anche più di un maestro di teologia". Dotato di buon senso, pratico e speculativo al tempo stesso, Bonaventura aveva saputo applicare al solido tronco francescano gli innesti delle giovani generazioni con le accresciute esigenze, anche culturali, smentendo quanti paventavano, come Jacopone da Todi, che la scienza portasse detrimento alla semplicità della regola francescana.
    Bonaventura, discepolo di Alessandro di Hales a Parigi, come S. Tommaso era rimasto in questa città dapprima come maestro di teologia, poi come generale dei frati Minori, carica alla quale venne eletto a soli trentasei anni. Creato cardinale, dovette accettare anche la consacrazione episcopale, precedentemente rifiutata per umiltà, ed ebbe la sede suburbicaria di Albano Laziale. Da papa Gregorio X ebbe l'incarico di preparare il secondo concilio di Lione, al quale era stato invitato pure Tommaso d'Aquino, morto due mesi prima dell'apertura avvenuta il 7 maggio 1274. Il 15 luglio dello stesso anno moriva anche fra Bonaventura, assistito personalmente dal papa.
    Alla base della dottrina teologica insegnata da fra Bonaventura con la parola e con gli scritti (tra i suoi libri più noti “Itinerario della mente in Dio”) è l'amore o carità. "Non basta - egli scrive - la lettura senza l'unzione; non basta la speculazione senza la devozione; non basta l'indagine senza la meraviglia; non basta la circospezione senza l'esultanza; l'industria senza la pietà; la scienza senza la carità; l'intelligenza senza l'umiltà; lo studio senza la grazia".



    Sancte Bonaventura, ora pro nobis

  9. #9
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    Predefinito 15 luglio: Sant'Enrico II, confessore ed imperatore di Germania

    Sant'Enrico, figlio del duca di Baviera, nacque in un castello sulle rive del Danubio nel 973. Suo padre, dapprima denominato "il rissoso", fece tali progressi nell'addolcire il carattere alla scuola di una mite consorte che finì per essere chiamato "il pacifico".
    Enrico ebbe un fratello, Bruno, che rinunciò agli agi della vita di corte per diventare pastore d'anime, come vescovo di Augusta. Delle due sorelle, Brigida si fece monaca e Gisella andò sposa a un santo, re Stefano di Ungheria. Il principe Enrico venne affidato dalla madre ai canonici di Hildesheim e più tardi al vescovo di Ratisbona, S. Wolfgang, alla cui scuola si formò culturalmente e spiritualmente.
    Un episodio singolare contribuì a mantenerlo sul retto sentiero negli anni giovanili. Aveva ventitrè anni, quando in sogno gli apparve il suo precettore S. Wolfgang, morto da poco, che tracciò sul muro della camera due brevi parole: "Fra sei". Enrico pensò di dover morire sei giorni dopo e trascorse l'attesa in pii esercizi. Passati i sei giorni senza che nulla succedesse, interpretò il presagio per sei mesi e continuò a disporsi a ben morire. Dopo sei mesi Enrico era ancora in vita e ringraziò Dio di aver davanti a sé ancora sei anni per accumulare meriti. Trascorsi sei anni, Enrico si trovò sul trono di Germania, ben corazzato spiritualmente per non cedere alle facili tentazioni del potere e della mondanità.
    Non gli mancarono le occasioni di dar prova di quanto aveva imparato alla scuola di S. Wolfgang. Portò avanti grandi iniziative con fermezza e al tempo stesso con moderazione. Il primo a beneficiarne fu il duca di Svevia, Hermann. Due anni dopo la sua elezione a re di Germania, il papa Benedetto VIII pose sul suo capo e su quello della pia consorte Cunegonda la corona del Sacro Romano Impero. Poco prima i feudatari italiani, stanchi del dispotismo di Arduino, marchese di Ivrea, lo avevano incoronato a Pavia re d'Italia. Enrico, consigliato da S. Odilone, abate di Cluny e riformatore dello spirito monastico, promosse la riforma del clero e dei monasteri. Raro esempio di correttezza civile e di onestà morale nel governo delle cose terrene, meritò anche l'altra corona, più prestigiosa, della santità. Morì il 13 luglio 1024 e fu sepolto a Bamberga. Il Beato Eugenio III lo incluse infallibilmente nell'elenco dei santi nel 1146.





    Sancte Henrice, confessor et imperator, ora pro nobis

  10. #10
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    Predefinito 18 LUGLIO: SAN CAMILLO DE LELLIS, CONFESSORE

    Su una collina del verde Abruzzo, a undici chilometri da Chieti, a Bucchianico il 25 maggio dell’Anno santo 1550, festa di Pentecoste, nasce Camillo de Lellis.
    Una nascita che suscita meraviglia, perché la madre Camilla de Compellis, quasi sessagenaria, partorisce nella stalla sotto casa, come nacque Gesù e San Francesco d’Assisi e nel momento della consacrazione liturgica della Messa solenne del Patrono del paese, Sant’Urbano.
    Che cosa sarà di questo bambino? Si chiedono meravigliati i parenti e gli amici. Se lo chiede anche mamma Camilla, poiché prima del parto sognò il figlio Camillo con una croce rossa sul petto che precedeva una schiera di altri ragazzi con lo stesso segno.
    Diventerà un capo banditi? E’ questo il presagio che trova quasi conferma di fronte alla vivacità e alla indocilità di Camillo fanciullo e adolescente, che preferisce marinare la scuola per i giochi e per seguire i coetanei
    Mamma Camilla ce la mette tutta per educarlo alla pietà e alla rettitudine. Tutto inutile, anche perché manca l’azione educatrice di papà Giovanni, capitano militare, che è quasi sempre assente da casa e impegnato nelle armi; non gli resta tempo per il figlio. Così Camillo cresce ribelle e sbandato.
    Mamma Camilla muore a 73 anni con la spina nel cuore del sogno della croce rossa sul petto del figlio, che ha allora 13 anni; ma aveva pregato tanto per lui. Quante corone del Rosario ha sgranato per quel figlio!
    Morta la mamma, Camillo prosegue la sua vita di sfaccendato; si dà al gioco delle carte e dei dadi, alle diversioni con i coetanei. E’ un vero giovane irrequieto e sbandato.

    L’AVVENTURA DELLE ARMI

    A 17 anni decide di seguire il padre nel mestiere delle armi, perché gli piace e può guadagnare soldi per poi divertirsi. Con papà Giovanni, rimasto senza ingaggio, si dirigono a Venezia per arruolarsi nell’esercito della Repubblica Veneta contro i Turchi.
    Durante il viaggio il padre si ammala gravemente e muore a Sant’Elpidio a Mare, vicino a Loreto. Camillo rimane solo al mondo e con una molesta piaga al piede destro. Consigliato ad Aquila da uno zio materno, Fra’ Paolo, si dirige a Roma all’ospedale di San Giacomo, rifugio dei malati più poveri e incurabili.
    Lì lo accolgono come un povero diavolo e in cambio della cura gli offrono un posto di inserviente. Il lavoro e le fatiche dell’ospedale non gli piacciono e spesso fugge dal servizio per recarsi al vicino porticciolo di Ripetta a giocare a carte con i barcaioli del Tevere.
    I dirigenti lo ammoniscono, lo minacciano, ma inutilmente. Alla fine, anche se non completamente guarito, lo buttano fuori perché incorreggibile e inadatto all’ufficio di inserviente ospedaliero.
    Che fare? Con il desiderio di guadagnare danaro per la ostinata passione del gioco torna all’avventura e si arruola nella seconda Lega Veneta contro i Turchi. E’ trasferito a Zara, poi a Cefalù dove si ammala di tifo, ma guarisce, per miracolo secondo lui.
    Si arruola poi a Napoli nell’esercito di Spagna per la spedizione di Tunisi in Africa, dove non prende parte agli assalti del forte. Nel ritorno a Napoli scampa da un terribile naufragio, durante il quale promette di farsi frate; promessa da marinaio. La sua passione è il gioco delle carte e a Napoli gioca quanto ha guadagnato e perde sempre; gioca la spada, la cappa, l’archibugio, perfino un giorno la camicia. (A Napoli in via San Bartolomeo esisteva tempo addietro un archetto con un dipinto della scena del gioco e di Camillo in gloria e la scritta: "Qui diè Camillo sua camicia per gioco – ed or si adora nel medesimo loco"). E’ ridotto nella più nera miseria. Ma le preghiere di mamma Camilla non andranno a vuoto.

    DA AVVENTURIERO A "FRATE UMILE"

    O rubare o mendicare è l’alternativa del ventiquattrenne Camillo. Preferisce stendere la mano e chiedere l’elemosina alla porta della chiesa di Manfredonia, lui ben piantato e alto due metri. Un certo Antonio Nicastro gli si avvicina e gli offre il lavoro di manovale nella ristrutturazione e ampliamento del vicino convento dei Cappuccini. Dopo un po’ di incertezza, costretto dalla fame, Camillo accetta, ma con il proposito di tornare, passato l’inverno, alla vita militare e al gioco.
    Gli vengono affidati due asinelli con il compito di fornire pietre, calce e acqua ai muratori. Il duro lavoro quanto gli pesa! Gli viene anche la tentazione di scannare i due somarelli e fuggire, ma lo trattengono la stima e la benevolenza dei frati, che lo apprezzano per la sua onestà e precisione. Anzi egli comincia a riflettere sulla sua vita senza ideali, insulsa e futile.
    Nella vita di ogni uomo vi sono momenti del Signore che possono cambiare radicalmente il suo cammino. L’importante è accoglierli. Il 1° febbraio 1575, Camillo è inviato al convento di San Giovanni Rotondo con un asinello per un fraterno scambio di generi alimentari.
    Lì alla sera il guardiano del convento, P. Angelo, passeggiando sotto il pergolato, parla a Camillo di Dio e della salvezza dell’anima. In sintesi gli dice: "Dio è tutto, il resto è nulla. Salvare l’anima è l’unico impegno della vita che è breve". Camillo ascolta silenzioso e colpito da queste verità.
    Il giorno seguente 2 febbraio, festa allora della Purificazione di Maria Vergine, dopo la santa Messa riprende la via del ritorno. Durante il viaggio gli martellano sempre più forte nella mente le parole di P. Angelo: Dio è tutto, il resto nulla. A un certo momento, soggiogato da sentimenti di pentimento, scende dalla cavalcatura e, come San Paolo sulla via di Damasco, si mette in ginocchio e piange dirottamente, dicendo: "Signore, perdona a questo grande peccatore. Dammi tempo di fare penitenza. Non più mondo, non più peccati!"
    La grazia di Dio vince. Si alza come un novello Paolo, trasformato dentro. Appena rientrato a Manfredonia chiede con insistenza ai frati il saio cappuccino. Poco dopo entra in noviziato con grande fervore ed è soprannominato "Frate umile". Ora ha trovato la pace e la gioia del suo spirito.

    INFERMO PER GLI INFERMI

    Ma il Signore non lo vuole cappuccino. Il ruvido saio francescano sfrega il collo del piede destro e ben presto si riapre la piaga del passato, purulenta e misteriosa. A malincuore i superiori sono costretti a dimetterlo, perché vada a curarsi.
    Va un’altra volta a Roma, all’ospedale San Giacomo degli Incurabili, ma diverso da prima. Questa volta vede i malati con altri occhi e li serve in altro modo: con grande dedizione. Il suo cuore però è presso il convento: Infatti dopo quattro anni, guarito perfettamente al piede, ritorna dai cappuccini, che lo riammettono in noviziato. Ora lo chiamano Fra’Cristoforo per la sua alta statura.
    E’ contento e fiducioso. Ma bastano pochi mesi ed ecco la piaga del piede si riapre, si inasprisce e sanguina come non mai. Allora è dimesso definitivamente, e ritorna, dopo quattro mesi, all’ospedale di San Giacomo, dove lo accolgono con festa.
    Camillo riflette e riconosce in quella piaga misteriosa un disegno di Dio e afferma: "Giacché Dio non mi vuole cappuccino, è segno che mi vuole qui a servire i suoi poveri infermi". E decide di darsi totalmente al servizio dei malati con amore, come volontario, poiché rifiuta il salario dell’ospedale.
    I dirigenti dopo un po’ di tempo, visto il suo impegno e diligenza, lo nominano "Maestro di Casa" e gli affidano l’approvvigionamento dell’ospedale e la direzione di tutto il personale di servizio. Camillo si tuffa a capofitto a servire gli ammalati e a migliorare la loro assistenza. La passione del gioco è sostituita ora da un’altra passione più travolgente, quella del servizio agli infermi.
    In quei tempi i poveri degenti erano spesso accuditi da persone che erano avanzo di galera o mercenarie; gente irresponsabile e priva di umanità, che lasciavano i malati sommersi nel loro sudiciume, a volte talmente assetati da bere la propria urina.
    Camillo, animato da grande carità, si dedica tutto a riformare l’assistenza. Lo fa con il suo mirabile esempio e con istruzioni sul modo di accostare e di trattare i sofferenti, che sono "pupilla e cuore di Dio", asserisce. Ottiene qualcosa, ma non basta..

    I SERVI DEGLI INFERMI

    Migliorare l’assistenza corporale e spirituale dei malati diventa l’occasione di Camillo. Ma cosa può ottenere lui da solo? Pensa e prega.
    La notte di Ferragosto, vigilia dell’Assunta del 1582, Camillo sta vegliando nella corsia dell’ospedale e mentre pensa come trovare una soluzione, gli viene un’idea: "Perché non organizzare una compagnia di uomini pii e dabbene, che non per mercede, ma volontariamente e per amore di Dio servano gli infermi con quella carità e amorevolezza che sogliono fare le madri per i loro propri figlioli infermi?".
    L’idea lo entusiasma, la comunica al cappellano e a quattro buoni inservienti, che accettano di unirsi a lui e servire i malati per puro amor di Dio. Si forma così un Crocefisso, che Camillo aveva ricevuto in dono, e si infiammano al generoso dono di sé ai sofferenti, suscitando sorpresa e anche invidia in alcuni. E’ un nuovo carisma che si manifesta nella Chiesa di Dio.
    Le opere di Dio subiscono sempre delle prove. Invidiosi e sospettosi alcuni dipendenti dell’ospedale accusano Camillo di oscure manovre per impossessarsi di esso. Per questo è proibito a Camillo di riunirsi con gli altri e viene disfatto il locale-oratorio. Allora Camillo pensa di formare un gruppo di consacrati e per realizzare questo progetto è consigliato di farsi sacerdote.
    Camillo a 32 anni frequenta la scuola del Collegio Romano, seduto tra giovincelli che a volte si burlano di lui: Tarde venisti! . Studia con impegno ed è ordinato sacerdote due anni dopo, il 26 maggio 1584. Ritorna dopo 14 anni, a Bucchianico sacerdote con sorpresa e gaudio di tutti.
    L’opposizione alla sua idea di fondazione persiste più pervicace all’ospedale. Si è aggiunto anche il suo confessore, San Filippo Neri. Due volte Camillo esperimenta la tentazione di abbandonare l’impresa; però due volte Gesù crocefisso (una volta in sogno e l’altra sveglio) lo anima e tranquillizza, staccando le braccia dalla croce e dicendogli: "Non temere, o pusillanime. Continua, che io ti aiuterò, poiché questa opera è mia, non tua".
    Camillo prosegue; nessuno più lo fermerà. Prende residenza alla chiesa della Madonnina dei Miracoli, lascia con i suoi compagni l’ostile ospedale di San Giacomo per servire i malati del grande ospedale di Santo Spirito, vicino al Vaticano. L’otto settembre 1584 veste dell’abito religioso i primi compagni e scrive una Regola per la piccola Compagnia dei Servi degli Infermi, come egli la denomina. La Regola è originale e anche attuale nella seconda parte, poiché sono 25 Ordini (modi) da tenersi negli ospedali al servizio dei malati "con la maggiore diligenza possibile, con l’affetto di una madre verso il suo unico figlio infermo e guardando il povero come la persona di Cristo". C’è tutto il carisma della carità verso i malati, che da allora e nei secoli qualifica Camillo de Lellis un riformatore del servizio agli infermi.

    LA CROCE ROSSA SUL PETTO

    Nel 1586 Camillo ottiene dal Papa Sisto V l’approvazione della sua Compagnia con il nome di Ministri (servitori) degli Infermi e il privilegio di portare una croce rossa sul petto, segno di amore e di sacrificio per gli infermi e non di perdizione e di infamia come aveva interpretato questo segno sua madre.
    E’ stimolo a una vocazione di generosità che attrae giovani italiani e anche esteri, perché gioventù significa grandezza di ideali e capacità di donazione.
    Il numero dei religiosi cresce. Con tanta fede Camillo provvede un convento e la chiesa di Santa Maria Maddalena, vicino al Pantheon.
    Con i suoi figli egli si lancia ad alleviare ogni sofferenza umana all’insegna della misericordia e della tenerezza di Dio. Nel 1590 una carestia e una pestilenza colpiscono Roma e Camillo con otto suoi religiosi si aggirano notte e giorno per le case, i tuguri e le caverne del Colosseo per allontanare lo spettro della morte.
    Questo eroismo commuove il Papa, che nel 1591 erige la Compagnia in Ordine religioso di voti solenni e con un voto speciale: "Servire gli infermi, anche appestati, con rischio della vita". L’otto dicembre 1591, festa di Maria Immacolata, Camillo con i numerosi suoi figli, emettono i voti religiosi ed egli è nominato superiore generale.

    TUTTO CUORE PER I MALATI

    Camillo precede tutti nell’instancabile dedizione ai sofferenti. Il suo ospedale preferito è quello di Santo Spirito di Roma, quale laboratorio della sua carità. Si lamenta che il vicino orologio di Castel Sant’Angelo corra troppo veloce e non gli lasci tempo per sovvenire ai bisogni dei degenti.
    La piaga del piede destro causa molti dolori. A volte per i bruciori pare che mandi fuoco, ma lui non si dà vinto e continua nel servizio dei malati. Neppure alcuni calcoli renali, che a tratti lo molestano, lo trattengono dal donarsi agli altri.
    La sua carità trabocca, tanto che abbraccia anche l’assistenza degli ammalati a domicilio, che chiama il mare grande, l’oceano senza fondo della carità, poiché a quei tempi gli infermi erano curati in famiglia; soltanto i più poveri e gli emarginati ricorrevano o erano portati all’ospedale.
    Con i suoi religiosi Camillo offre a tutti i malati nelle case un’assistenza premurosa per il loro recupero o per prepararli a una buona morte.
    Organizza anche una spedizione di padri e fratelli al seguito dell’esercito in Ungheria e Croazia per assistere i feriti nelle battaglie contro i Turchi (1595). E’ il precursore della Croce Rossa Internazionale.
    Al sentire notizie di scoppio di pestilenze qua e là in Italia egli esclama: "Questa è la nostra ora, la sagra della carità" e corre o manda i suoi religiosi ad assistere gli appestati a Nola, a Milano, a Napoli.
    Molti suoi figli moriranno martiri della carità nell’assistenza agli infetti. La piccola pianta di Camillo va crescendo sempre più nell’amore e nella sua offerta ai sofferenti.
    Tutti chiamano i Ministri (servitori) degli Infermi. Li invitano ad assumere il servizio corporale e spirituale negli ospedali a Napoli, a Milano, a Genova, a Bologna, a Palermo, a Ferrara, a Firenze, a Messina, a Mantova. Dove può, Camillo apre una comunità per rendere presente la carità misericordiosa di Cristo verso chi soffre. E si fa pellegrino e messaggero dell’assistenza ai malati su e giù per l’Italia con frequenti e faticosi viaggi a cavallo o in diligenza.

    "NUOVA SCUOLA DI CARITA’ VERSO GLI INFERMI"

    Negli ospedali dell’epoca non si praticava bene la pulizia e l’igiene delle persone e degli ambienti. Anzi si consideravano dannosi alla salute l’uso dell’acqua per lavarsi e il cambio dell’aria dei locali. Anche l’assistenza diretta dei degenti lasciava molto a desiderare.
    Camillo non può permettere questo, poiché per lui l’ospedale è il luogo sacro della liturgia della carità cristiana. Con ardore prescrive e promuove delle innovazioni, che costituiscono una rivoluzione sanitaria. Lo qualificano "intollerabile, insopportabile" per le sue esigenze esagerate nella pulizia e nell’assistenza.
    E’ l’intelligenza, la scienza e lo spirito della carità che lo muovono a riformare l’assistenza ai malati, ad essere, come lo qualificò poi il Papa Benedetto XIV, "l’iniziatore di una nuova scuola di carità verso gli infermi".
    Organizza nella casa religiosa una palestra infermieristica e insegna come assistere e trattare con maestria e umanità ogni infermo. Riscrive nel 1613 le Regole per servire gli inermi con ogni perfezione, un testo di pedagogia infermieristica di grande attualità anche oggi, poiché pone l’infermo al centro dell’ospedale e da servire con rispetto, "con la maggiore diligenza possibile e con il cuore nelle mani". Pio XI scrive: "Camillo apparve come l’uomo inviato da Dio per servire i malati e per insegnare il modo di servirli".

    LA SPIRITUALITA’ DEL SERVIZIO AI MALATI

    Camillo, al principio della sua dedizione agli infermi per svolgere un servizio carico di umanità, poneva come esempio l’affetto di una madre verso il suo unico figlio infermo. In seguito egli medita la parabola evangelica del buon samaritano e soprattutto le parole di Gesù nella descrizione del giudizio universale: "Ero infermo e mi avete visitato… Ciò che avete fatto al più piccolo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me" (Mt 25, 30-40) E le fa sue, le vive con fede, e si fa maestro del carisma della carità verso i sofferenti.
    Afferma: "Gli infermi sono pupilla e cuore di Dio e quello che fate a questi poverelli infermi, è fatto a Dio stesso. Chi serve gli infermi, serve assiste Cristo nostro redentore". Egli attende ai malati molte volte in ginocchio. A volte lo vedono con il volto estasiato, pensando di servire il suo amato Signore Gesù.
    Con insistenza ricorda ai suoi religiosi: "Padri e fratelli miei, miriamo nei malati la persona stessa di Cristo. Questi malati cui serviamo ci faranno vedere un giorno il volto di Dio"
    Senza tregua Camillo impegna tempo, forze e spirito per motivare e promuovere un servizio più umano e santo verso i sofferenti. Per lui nessuna professione o vocazione può essere più sublime di quella del servizio ai malati.
    "Nessuna tra le opere di carità piace più a Dio di quella del servizio ai poveri malati. Chi serve gli infermi, ha un segno palese di predestinazione".
    C’è sempre tanta gioia nel cuore di chi si dona e testimonia l’amore di Cristo verso i sofferenti. Ecco perché sgorgano dal cuore di Camillo le Beatitudini del servizio ai malati;
    Beato e felice chi serve gli infermi e consuma la sua vita in questo santo servizio con le mani dentro la pasta della carità!
    Beati voi che avete una così buona occasione di servire Dio al letto dei malati!
    Beati voi e ringraziate Dio che vi è toccata la pietanza grossa del servizio agli infermi, per la quale cosa siete sicuri di guadagnare il paradiso!
    Beati voi se potrete essere accompagnati al tribunale di Dio da una lagrima, da un sospiro, da una benedizione di questi poverelli infermi!.

    CAMILLO UNA LAMPADA CHE NON SI SPEGNE

    Quante lagrime asciuga Camillo! Quante benedizioni riceve dai malati nei quarant’anni che spende accanto a loro! Le fatiche e le varie infermità, che lui chiamava misericordie di Dio, lo conducono alla morte a Roma il 14 luglio 1614, all’età di 64 anni.
    Il Papa Benedetto XIV lo proclama Beato nel 1742 e Santo nel 1746. Più di un secolo dopo nel 1886, il Papa Leone XIII lo dichiara Patrono degli ospedali e degli infermi e Papa Pio XI nel 1930 lo propone Patrono e Modello di tutti gli operatori sanitari.







    SANCTE CAMILLE, ORA PRO NOBIS

 

 
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