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    SALVATE IL SOLDATO RYAN
    (SAVING PRIVATE RYAN, Usa 1998)


    REGIA: Steven Spielberg

    SOGGETTO: Robert Rodat

    SCENEGGIATURA: Steven Spielberg, Robert Rodat

    FOTOGRAFIA: Janusz Kaminski (colore)

    MUSICA: John Williams

    MONTAGGIO: Michael Kahn

    SCENOGRAFIA:Tom Sanders

    COSTUMI:Joanna Jhonston

    INTERPRETI: Tom Hanks (capitano John Miller), Edward Burns (soldato Richard Reiben), Tom Sizemore (sergente Michael Horvath), Matt Damon (soldato James Ryan), Jeremy Davies (caporale Timothy E. Upham, interprete), Adam Goldberg (soldato Stanley Mellish), Barry Pepper (soldato Daniel Jackson), Giovanni Ribisi (soldato Irwin Wade, Medico), Vin Diesel (soldato Adrian Caparzo), Ted Danson (capitano Fred Hamill), Max Martini (caporale Fred Henderson), Dylan Bruno (Alan Toynb).

    PRODUZIONE: Stevn Spielberg, Ian Bryce, Mark Gordon, Gary Levinsohon

    DISTRIBUZIONE: C.I.C Video Srl

    VISTO DI CENSURA: n. 92988 del 23/10/1998

    DURATA: 162’

    PRIMA PROIEZ. PUBBLICA: 24/07/1998

    NOTE: Molti premi internazionali tra cui 5 Oscar

    SINOSSI

    6 giugno 1944. Il Capitano John Miller, si trova al comando di una compagnia nello sbarco alleato a Omaha Beach, in Normandia, durante la Seconda Guerra Mondiale. Grazie alla perizia e al coraggio dei suoi uomini riuscirà ad aprire un varco tra le difese tedesche, ma sarà distolto dal cuore della campagna alleata da una nuova, particolare missione: salvare un soldato, unico sopravvissuto di un gruppo di quattro fratelli, tutti impegnati nel conflitto contro la Germania nazista. L'ordine dello Stato Maggiore americano è perentorio: trovare il soldato James Ryan (paracadutato la sera prima dello sbarco nell’entroterra francese) e riportarlo a casa. Formata una piccola squadra di ricognizione, il capitano parte alla ricerca dello sfortunato soldato. Dopo varie peripezie finalmente la fine della missione sembra vicina: Miller riuscirà a trovare e a salvare Ryan dovendo però sacrificare parecchie vite compresa la propria e quelle di quasi tutta la compagnia (solo due soldati riusciranno a sopravvivere).

    LISTA DELLE SEQUENZE

    Introduzione
    Ryan, ormai vecchio, si reca con i propri parenti a visitare un cimitero militare americano. Giunto innanzi ad una tomba non riesce a trattenere le lacrime e crolla sulle ginocchia.

    Sbarco in Normandia
    Alla mattina del 6 giugno 1944 il battaglione 2° Rangers sbarca sulla spiaggia della Normandia e da inizio all’operazione di conquista della costa. La compagnia del capitano Miller riesce ad aprirsi un varco tra le difese tedesche e dopo ore di incessante battaglia la spiaggia è finalmente presa.

    Assegnazione della missione
    Alla famiglia Ryan sono morti tre figli in operazioni militari, e un quarto è disperso in Francia. Lo Stato Maggiore americano, vista l’eccezionalità della situazione, decide di formare una squadra per recuperare il soldato Ryan. L’incarico è affidato al capitano Miller che, non appena viene informato, raggruppa alcuni uomini e parte per la missione inoltrandosi nel territorio francese.

    Inizia la ricerca
    Il piccolo manipolo di uomini raggiunge Deauville, un piccolo borgo in cui infuriano violenti scontri tra i soldati tedeschi e le truppe americane. Miller e i suoi uomini riescono, facendosi strada tra rovine di vecchi edifici e pallottole tedesche, a riacquistare il controllo del paese. Due note dolenti guastano però il sapore della vittoria: muore, ucciso da un cecchino, Adrian Caparzo e di Ryan ancora nessuna traccia (si riuscrà a rimediare solo un tragicomico scambio di persona). I soldati, fiaccati dai continui combattimenti, passano una notte di riposo in una chiesa abbandonata. L’indomani il viaggio prosegue.

    Il campo dei feriti e la mitragliatrice tedesca
    I soldati s’imbattono, durante la giornata, in un campo statunitense di feriti. Dopo aver prestato soccorso ai “fratelli di guerra” si cerca Ryan tra i nomi dei soldati morti ma non vi è alcun risultato. Miller è colto da un attacco isterico e inizia a urlare al cielo il nome del disperso. L’appello non rimane inascoltato e Miller riceve informazioni sull’ubicazione del suo obbiettivo da un soldato presente nel campo (Ryan è a Ramelle). Il gruppo riparte ma si imbatte presto in una postazione di mitraglieri tedeschi. Il bunker è conquistato ma il medico Irwin Wade muore.

    A Ramelle
    Finalmente, dopo giorni di incessante ricerca, Ryan è trovato nella città di Ramelle, il suo compito è quello di proteggere, con alcuni compagni, il ponte della città che i tedeschi attaccheranno a breve. Miller tenta di convincere Ryan a tornare indietro con lui ma il soldato è irremovibile, non abbandonerà mai il ponte e i suoi camerati. Il gruppo decide allora di rimanere a difendere il ponte. I tedeschi arrivano e scatenano una carneficina ma grazie al pronto intervento dell’esercito alleato il ponte è riconquistato e le armate del Reich sono messe in fuga. Ryan è salvo e potrà tornare a casa, ma Miller e quasi tutta la sua piccola compagnia sono morti (con l’unica eccezione di Upham e Reiben).

    Finale
    Ritroviamo Ryan innanzi la tomba di Miller. Dopo un sentito saluto si allontana dalla tomba seguito da tutta la famiglia.

    ANTOLOGIA CRITICA

    - A Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan) si attaglia la definizione manzoniana "Componimento misto di storia e invenzione". Infatti il film di Steven Spielberg si divide in due: la prima (breve, circa 20 minuti in una pellicola di quasi 3 ore) è una cronaca del massacro che si compì a Omaha Beach, in Normandia, il 6 giugno 1944; il resto, articolandosi sui 7 giorni successivi fino al 13 giugno, narra la vicenda immaginaria della missione speciale assegnata ai "Rangers" del capitano Miller (un impeccabile Tom Hanks). Arrivato dal comando supremo, l'ordine è ritrovare e rispedire in patria il soldato Ryan (Matt Damon), disperso dopo il lancio sul territorio francese, perché la madre non debba piangere un quarto figlio caduto in servizio; ma soprattutto per non deprimere gli umori della nazione in guerra. La cornice è una visita ai campi di battaglia del vecchierello John Ryan: sul passo malfermo con il branco familiare che lo segue a distanza, il veterano arriva davanti a una delle bianche croci del cimitero militare e cade in ginocchio. Spielberg ha affrontato la melodrammatica situazione con una tale carica emozionale che è impossibile non commuoversi. Eppure nel finale, quando il film torna sul pellegrino del D-Day, la commozione non è più tanto forte e dalla verità siamo scivolati nella convenzione. La visita al cimitero introduce la più allucinante rievocazione di una battaglia mai apparsa sullo schermo in tutti i suoi terrificanti particolari. Spielberg ha allestito una specie di "Combat Film" in versione macroscopica e non censurata: un autentico poema epico degradato, in cui orrori ed errori della guerra vengono crudelmente raffigurati. Se la domanda iniziale è "ce la faranno gli yankees a costituire la testa di ponte?", ulteriori interrogativi si susseguono a reggere il racconto. Riusciranno i nostri eroi a trovare Ryan? E lui come reagirà alla notizia dei fratelli perduti e alla prospettiva di tornare a casa? E chi si salverà? Tutto appassionante, tutto magistralmente scritto e girato. Ma se nella prima mezzora l'autore consegna alla storia del cinema una sorta di All'Ovest niente di nuovo arditamente pantografato, andando avanti sembra strizzare l'occhio a Il sergente York. Insomma, siamo proprio di fronte a due film: uno di livello eccelso, l'altro meno.

    (T. KEZICH, Tutti eroi per il povero Ryan, «Il Corriere della Sera», 31 ottobre 1998, p.36)


    - Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan, USA, 1998) sembra una postilla a Schindler’s List: Spielberg torna sul tema della seconda guerra mondiale (già al centro dell’Impero del sole), parlandoci ancora della memoria dei sopravissuti e di una missione tanto illogica quanto simbolica: salvare una vita umana per salvare il mondo intero. Questa volta però sceglie un registro totalmente diverso, non solo perché la storia ha la compattezza di un war movie classico, con un primo atto di ricerca concluso da un falso ritrovamento (l’omonimo di Ryan che viene tragicomicamente informato della presunta morte dei fratelli), un secondo atto di conflitto interno al gruppo, che termina con la comparsa del vero Ryan, e un terzo atto di battaglia contro il nemico che conduce al finale; anche perché le scelte di rappresentazione che avevano caratterizzato Schindler’s list vengono sostanzialmente capovolte: tutto ciò che là era lasciato all’immaginazione, qui viene direttamente inoculato sotto la pelle.
    Soprattutto nei famosi primi 25 minuti, dove le immagini di guerra raggiungono un inaudito livello di crudezza. A descriverle si immagina la sequenza tipo di uno splatter (braccia mozzate, budella rovesciate, uomini troncati in due, sangue sull’obbiettivo), ma non è questo l’effetto: vuoi per il colore denaturato e livido, che rinvia alla cupa verità del passato, vuoi perché lo sguardo di Spielberg non coglie solo violenza e massacro ma anche una straniata grazia della morte che emerge dalle pose stupide dei cadaveri sul bagnasciuga, dall’azione automatica di raccogliere il proprio braccio, da quel macabro acquario di pesci e uomini che diventa il mare. Intorno a quei corpi laceri non si avverte l’orrore vitreo che aleggiava in Schindler’s List: certo, c’è l’esperienza diretta dell’atrocità della guerra, ma unita ad un inspiegabile sentimento di vita, che deriva in gran parte dalla forte partecipazione dello sguardo (macchina a mano e inquadrature ravvicinate); si percepisce, insomma, l’appartenenza della morte alla natura, con cui Spielberg sembra già essersi riconciliato. Per questo la sequenza iniziale non si oppone veramente al resto dl film, come la follia terribile e insensata si oppone ad una missione benedetta da Dio; dopo diventa solo tutto più chiaro. E non si puo’ evitare di dire: purtroppo. Infatti l’idea che in questa sequenza ancora non conosciamo i personaggi, cosicché le loro morti ci arrivano dirette senza un giudizio, senza che possiamo pensare che qualcuno se la sia meritata o possiamo soffrire per chi riteniamo innocente, è vera solo in parte: primo, perché il film ci fa comunque conoscere gli attori (Hanks soprattutto), ed è evidentemente di loro che ci preoccupiamo; secondo, perché mostra solo le morti degli americani e non ci permette di confonderle con quelle dei tedeschi (inutile dire che questi ultimi restano sostanzialmente invisibili per tutto il film, fatta eccezione per il Tedesco Traditore, quello graziato dagli uomini di Miller che ciononostante torna per ucciderli e uccide simbolicamente proprio l’ebreo).
    Dopo questo battesimo di ferro e fuoco, comunque, siamo pronti - o almeno così crede Spielberg - per assorbire una buon a dose di retorica patriottica. Che è talmente esibita da far sospettare un doppio senso: non tanto per la bandiera americana cha apre e chiude il film (con un’inquadratura da far invidia a Via col vento), quanto perché la storia (tra l’altro ispirata a un film del 1944: La famiglia di Sullivan, di Lloyd Bacon) prende la piega di una crociata salvifica, supportata da molti motivi mistici, direttamente collegati al ruolo della nazione americana in tutta la guerra: dalla Passione della madre al cecchino che prega il signore, dagli aviatori americani, definiti “angeli sulle nostre spalle”, al tradimento di Giuda (il tedesco). Ma il doppio senso non c’è, e l’unico modo per perdonare a Spielberg tanta retorica è inscriverla in una complessiva ripresa del war movie classico: Salvate il soldato Ryan sarebbe insomma il film che Jhon Ford avrebbe girato se gli fosse stato tecnologicamente possibile mostrarci quella guerra proprio per come la vedeva, dal vivo, con la sua troupe. E il suo modo di vederla non si poteva separare dal modo in cui l’avrebbe interpretata: fare realmente rivivere un’esperienza significa riproporla in tutto e per tutto, anche con l’ideologia che l’ha accompagnata. Che emerge del resto tanto dal racconto che dalla regia, dato che Spielberg riprende stilemi ed inquadrature del cinema di Jhon Ford: la scena in cui la madre di Ryan riceve l’ultima lettera funesta è girata esattamente come la sequenza del ritorno a casa di Ethean in Sentieri selvaggi (dall’interno, dietro la porta). Questo è per Spielberg l’unico modo di affrontare la Storia: sperimentarla nuovamente, non ricostruirla, non rivisitare e rivalutare il passato con il senno di poi.
    L’idea della guerra (e della Storia) come esperienza, è del resto costantemente ribadita. Innanzitutto in rapporto a un personaggio come il caporale Upham: Miller lo sceglie per ultimo, perché conosce il francese e il tedesco, ma la sua goffaggine e la sua inettitudine di soldato sono subito evidenti, almeno quanto la sua fiducia nel linguaggio e nella scrittura. E’ dunque da lui che dipende la comunicazione -sempre così difficile nel cinema di Spielberg , fin da Incontri ravvicinati del terzo tipo- : Upham troverà il modo di entrare in contatto con l’Altro (con la famiglia francese bombardata e persino con il Tedesco, con cui scambia due parole e duna sigaretta), ma per raggiungere un’empatia più profonda gli ci vorrà ben altro (non gli basta gironzolare da un soldato all’altro, cercando in ogni modo di iniziare una conversazione). Il punto è che la guerra ha parole che non si possono imparare a memoria, come i versi di Tennyson: per capirle bisogna solo sperimentarle (il gioco sull’acronimo FUBAR, che i sodati rifiutano di spiegare a Upham, finchè questi, trovandosi in quella situazione, la comprende). Ecco dunque ciò che dovrebbe fare: vivere la guerra, non restare nascosto nell’erba e guardarla invece di combattere, oppure accasciarsi sulle scale e ascoltare invece di intervenire (quest’ultima è anche una sequenza fortemente simbolica: Upham paralizzato suoi gradini, mentre il tedesco, guardando negli occhi l’ebreo, lo forza a conficcarsi dolcemente un coltello nel cuore: l’America che assiste impotente allo sterminio di un popolo? L’inermità autolesionista degli ebrei?).E se è vero che il caporale Upham è la figura che rappresenta noi spettatori il suo percorso non va inteso letteralmente (cioè secondo una cupa posizione militarista) ma metaforicamente: vivere la guerra significa appunto vivere la storia.
    L’altra figura chiave di Salvate il soldato Ryan è il capitano Miller. Da civile Miller insegnava letteratura al liceo Thomas Alva Edison della Pennsylvania, ma lo dice solo a metà del primo atto, quando la tensione fra i suoi soldati è esplosa, e nella missione di salvare Ryan non ci crede più. Miller sembra l’ultima variante della ricetta spielberghiana, secondo la quale l’eroe è un uomo di intelletto e insieme d’azione (il prototipo era Indiana Jones: il professore la cui cultura è avventura e coraggio, non polverosa speculazione); ma nella sua taglia quasi western, matura e laconica, ci sono piccole screziature melodrammatiche: il tremore delle mani, che è timore e malattia, precarietà assoluta e presagio di morte; il romanticismo di una canzone francese (Edith Piaf, Tu es partout), che introduce nel personaggio in una dimensione sacrale: Miller la traduce alla squadra poco prima della battaglia in cui molti, lui compreso, perderanno la vita, tanto che il suo sembra un gesto sacerdotale («tu sei ovunque», dice il refrain, come fosse una preghiera rivolta a Dio). Con le parole, Miller ha infatti un rapporto più profondo e complesso di quanto ostenta Upham; non è un caso che tutto il suo personaggio si costruisca proprio sul rifiuto di comunicare ad altri la sua identità e la sua intimità. Perfino a Ryan, cui sta per regalare la vita e il pesante fardello della memoria, rifiuta di confessare ciò che lo rende un individuo (il cespuglio di rose, l’amore della moglie); con l’ultima dissolvenza, che fa coincidere gli occhi dei due personaggi, comprendiamo il perché: la missione di Ryan non è raccontare, spiegare la guerra, ma ricordarla: oltre il linguaggio c’è la memoria. A questo serve il cinema.

    (B. GRESPI, Salvate il soldato Ryan: fare (vivere) la storia, in A. ALBERIONE (a cura di), Incubi e meraviglie, Edizioni Unicopli, Milano, 2002, pp.211-15)


    - Realismo estremo (raggiunto con il massimo dell’artificio): in Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan), Steven Spielberg non deflette mai da una scelta radicale, quella di farci partecipare “in presa diretta” agli avvenimenti narrati. Quasi una nuova puntata della serie di cinegiornali Perché combattiamo, girati dai più celebri registi di Hollywood sui vari fronti della Seconda guerra mondiale. Questa volta a colori (ma già George Stevens, all’epoca, aveva abbandonato il bianco e nero per i suoi agghiaccianti filmati dai campi di battaglia europei), con tutte le “magie” messe a disposizione dai progressi della tecnica cinematografica, così care a Spielberg. Il quale, ancora una volta, dimostra nei fatti che nulla del grande schermo gli è estraneo: “figlio” di Méliès, amante dei mondi paralleli dell’illusione, crede allo stesso modo al cinema dei fratelli Lumière, alla macchina da presa che, mentre riproduce la realtà, è in grado di svelarne il volto più vero. Come gli indimenticabili, e già citatissimi, 25 minuti iniziali. Siamo sulle coste della Normandia, all’alba di quel fatidico 6 giugno 1944. Sui mezzi da sbarco, sballottati dalle onde, sicuri di andare incontro alla morte. Là, sulla spiaggia, attendono ben piazzate le mitragliatrici dei tedeschi, pronte a fare strage. Eppure bisogna avanzare a ogni costo, sotto una tempesta di fuoco che ha dell’irreale, con la macchina da presa (anzi, “le” macchine da presa) che strisciano sulla sabbia, sfiorate da proiettili ed esplosioni. È solo il primo atto di una vicenda destinata a durare pochi giorni. Al capitano Miller (Tom Hanks), che si è valorosamente aperto un varco, viene affidato un nuovo difficile compito: passare dietro le linee nemiche con un pugno di uomini, allo scopo di portare in salvo il commilitone James Ryan (Matt Damon), l’unico di quattro fratelli ancora in vita (gli altri sono caduti proprio negli stessi giorni). Otto vite messe in pericolo per salvarne una sola. Ne vale pena? Sì, urla Spielberg: solo in questo modo, dopo una tale carneficina, si può riconquistare il diritto di riprendere a vivere in pace.

    (L. PAINI, Sbarcati all’inferno, «Il Sole 24 Ore», 1 Novembre 1998, p.44)


    - Non c’è “luogo” in cui lo sguardo possa rifugiarsi, nella lunga sequenza dello sbarco in Salvate il soldato Ryan ( Saving Private Ryan, Usa, 1998). Non c’è punto di vista che si riesca ad assumere come proprio, e che consenta di trovare un ordine qualunque nel caos d’immagini e suoni. Allo scempio dei corpi s’accompagna uno scempio ancor più radicale: quello del significato. Non vediamo un’azione di guerra: la subiamo, ne soffriamo l’accadere prepotente e cieco. Il sangue che più d’una volta s’intravede sull’obbiettivo della macchina da presa imbratta e acceca anche i nostri occhi. Steven Spielberg sta piegando il cinema a un compito estremo: farci avvertire il lavoro della morte, farcene crescere intorno l’informità sconfinata fino a sommergerci. Confusi con mille altri, intravediamo i corpi di quelli che, per il resto del film, saranno protagonisti. Ora, tuttavia, non sono che corpi tra corpi, anonimi giovani uomini tra anonimi giovani uomini che, atterriti, cercano di rimanere in vita. A scegliere chi di loro arriverà fino a un avvallamento nella sabbia, dietro un mucchio di cadaveri, o magari fin sotto le postazioni tedesche e dunque fuori dal raggio delle mitragliatrici, non è che il caso. La sua crudele noncuranza è la sola “regia” di quanto accade in questi 25 minuti. O meglio: la regia di Spielberg si dà il compito arduo di fare del caso il padrone di questo frammento di cinema, come lo fu d’un terribile frammento di realtà quel 6 giugno del “44. Non ci sono individui, non ci sono personaggi, non ci sono storie che la macchina da presa possa e voglia raccontare. Fulmineamente, irrimediabilmente, tutti vengono cancellati, sprofondati nel niente man mano che, sullo schermo, se ne intuisce la “possibilità”. Spielberg si fa narratore d’un tragico dispendio di volti, personaggi, storie. In fondo, si direbbe che anche del cinema ci sia ora un dispendio: invece di svilupparsi come discorso, semplicemente accade come somma casuale di forme, colori, rumori che nascono dal niente e subito sprofondano nel niente. È stato notato che, in questo vortice del senso, manca l’elemento che invece parrebbe decisivo: il nemico. In effetti, i tedeschi emergono dal lavoro della morte, dalla sua informità sconfinata, solo verso la conclusione della sequenza. Pian piano, volutamente a fatica, Salvate il soldato Ryan isola tra le migliaia di giovani uomini che muoiono un piccolo gruppo di sopravvissuti, guidati dal capitano John Miller. La regia del caso privilegia i loro volti, personaggi, storie, sottraendoli al niente… È adesso che nel film si mostra il nemico, appunto. E con il nemico si mostra il significato, l’ordine. Signora assoluta dell’insensato, ora la paura s’acquieta. Sopravvivere - continuare a vivere tra migliaia che muoiono - equivale a ritrovare se stessi, i propri volti, personaggi, storie. Dunque, significa anche ritrovare il nemico, immagine rovesciata di noi che funziona come garanzia d’ordine e significato. Se il nemico esiste, la morte ha uno scopo, un senso: sia quella che diamo al nemico, sia quella che il nemico ci dà. Dunque, smette d’essere la mia morte, diventando una necessità morale, fors’anche un valore. Questo è il tema centrale di Salvate il soldato Ryan: di fronte alla mia morte, che cosa mantiene valore? E anche: accetterò mai di morire io in vista di quel valore? Per lo più, ai sopravvissuti pare che la risposta possa e debba essere positiva. Senza i poveri morti di 54 anni fa, certo, il mondo sarebbe oggi estremamente peggiore. E tuttavia quello che, almeno all’inizio, Spielberg ci invita a considerare, non è il punto di vista dei sopravvissuti, ma quello di chi sia chiamato, egli stesso, a consegnare la propria vita alla crudeltà del caso. Questione radicale, questa. Questione che si può porre, ma cui forse non si può dare una risposta. Chi altri lo potrebbe davvero, se non io, ogni io? Dunque, come può Spielberg rispondere anche per me? Detto altrimenti: come può costruirci un film, un discorso, un succedersi di immagini e suoni con un ordine e un significato che valgano anche per me? Commuove profondamente la risposta che Miller e gli altri danno, per quel che li riguarda: salvare la vita d’un uomo, anche di uno solo, riscatta le loro stesse vite dall’inferno della guerra poiché riscatta la loro dignità. D’altra parte, quando Spielberg si trova a fare di questa risposta un film, il suo cinema perde la forza (anche visiva) dell’inizio. Si fa così più banale, più prevedibile, più di genere. Qua e là - soprattutto nella sequenza del “ponte” -, il virtuosismo rischia di prendere il posto della commozione. Non più sorretto dallo sgomento, non più tragicamente smarrito, il suo (e nostro) sguardo ora pare aver trovato un “luogo” in cui rifugiarsi, un punto di vista sensato, sfuggendo all’informità sconfinata della morte al lavoro.

    (R. ESCOBAR, Sbarcati all’inferno, «Il Sole 24 Ore», 1 Novembre 1998, p.44)


    - Se un film bellico è soprattutto le sue scene di guerra, Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg è il migliore del genere. Il giudizio si tempera considerandolo nel complesso: fra lo sconvolgente inizio con lo sbarco americano nella Francia difesa dai tedeschi e il selvaggio finale fatto di combattimenti corpo a corpo in un paese dell'entroterra normanno, c'è infatti un'ora di bla-bla sul destino che richiederebbe ben altra sceneggiatura e ben altri attori. Spielberg racconta gli eventi dall'alba del 6 al pomeriggio del 13 giugno 1944. Sulla spiaggia chiamata in codice "Omaha", fra i tanti caduti statunitensi c'è un certo Ryan dell'Iowa; nello stesso giorno, su un'altra spiaggia normanna, muore un altro dei suoi fratelli, mentre un terzo è stato appena ucciso dai giapponesi in Nuova Guinea. Per ragioni propagandistiche, a Washington si decide che il quarto dei Ryan, impegnato anche lui in Normandia, sopravviva. Per ritirarlo dal fronte, bisogna però trovarlo. Va a cercarlo un drappello di sopravvissuti di "Omaha", guidato dal capitano (e professore di liceo) Tom Hanks. Si sa che il pubblico non si sente molto coinvolto da una strage di massa, se non si identifica con un singolo o gruppetto (Titanic insegna). Ma i salvatori dell'ultimo dei Ryan non sono il pubblico e non vogliono morire in dieci solo perché un altro viva. Il loro capo Tom Hanks è però tutto d'un pezzo (un pezzo di cretino, forse, dato che a un certo punto devia dalla sua strada e dalla sua missione per attaccare una postazione tedesca isolata, provocando l'inutile gesto la morte di uno dei suoi e l'ammutinamento di un altro). Spilberg non condanna la guerra, fa molto di più, la mostra com'è. E stranamente spaventa i pacifisti, che invece dovrebbero essergliene grati. Salvate il soldato Ryan esce dunque vietato ai minori di 14 anni, come se tanti cruenti cartoni animati diffusi dalle Tv non erudissero i più piccini su quanto sia crudele la lotta per l'esistenza. La differenza tra i tradizionali film bellici e quello di Spielberg non è solo nei formidabili effetti speciali. E soprattutto nel modo di rappresentare la morte. Una volta, al cinema, crepavano solo militari orfani e scapoli, mormorando parole edificanti mentre un filo di sangue sgorgava da un lato della bocca. Spielberg invece esibisce ragazzi americani e ragazzi tedeschi trapassati, decapitati, mutilati, arsi vivi. E poi non si fanno prigionieri in Salvate il soldato Ryan. In guerra, i militari americani (quelli tedeschi, quelli russi, quelli italiani, quelli francesi, non è questione di uniforme) uccidevano spesso i nemici appena arresisi, perché il furore del combattimento non scompare di colpo solo perché chi poco prima cercava di ucciderti, ha alzato le braccia. Ma nessuno l'aveva messo in un film di Hollywood. Non solo: ci voleva l'autore di Schindler’s list per mostrare - senza farsi linciare - le Waffen Ss (divisioni di volontari spesso non tedeschi inquadrate nella Wehrmacht) come guerrieri, non come assassini.

    (M. CABONA, La guerra è bella se la fa Spielberg, «Il Giornale», 30 ottobre 1998, p.31)


    - Ormai lo sapete: Salvate il soldato Ryan (Saving private Ryan) va visto dall'inizio. Guai a perdere quei famosissimi 25 minuti in cui Steven Spielberg ci trasporta nell'incubo del D-Day. Il film si apre con una famigliola americana in visita ad uno dei cimiteri che, in Normandia, sorgono vicino alle spiagge del massacro. Dal primo piano del reduce, un uomo oggi anziano, si passa al primo piano di Tom Hanks, il capitano Miller che sta per sbarcare da un mezzo anfibio con i suoi uomini, sotto il fuoco dei tedeschi. E qui, che Spielberg vi prende per mano e vi porta all'inferno: appena i portelloni si aprono, piovono le pallottole e siete a Omaha Beach il 6 giugno del 1944. Ci rimarrete per 25 minuti, con la morte a due passi. Poi, come sanno anche i sassi, inizia l'odissea di otto fantaccini, comandati da Miller e costretti a cercare per mezza Francia il soldato Ryan. Salvate il soldato Ryan è, a prima vista, un film fatto di due film: il massacro (autentico pezzo di bravura il quale va lodato, in primis, tecnico del suono Gary Rydstrom: vincerà l'Oscar a mani basse) e la "ricerca" dei successivi 140 minuti. In realtà, le due parti si fondano perfettamente in quella che è, da diversi film, l'ideologia portante del cinema di Spielberg. Un'ideologia che i greci antichi chiamavano catarsi, purificazione, e che impone di cercare la salvezza anche nelle tragedie più fosche. Nell'olocausto, Spielberg racconta la storia dell'unico tedesco - Schindler - che ha salvato degli ebrei; nella storia della schiavitù, narra un episodio (quello della nave Amistad) in cui lo schiavismo viene condannato; e nella carneficina del D-Day, spedisce il capitano Miller alla ricerca di Ryan, perché, come si diceva in Schindler's list, chi salva un uomo salva l'umanità. C'è un sospetto di "buonismo" e di retorica patriottica, in tutto ciò, a cui è difficile sfuggire. Incastrato fra due battaglie come Soldato Blu e Il mucchio selvaggio, due western che ricorda in modo singolare, Salvate il soldato Ryan è solenne, magniloquente, gonfio di sangue e di sentimenti: è più simile ai western "revisionisti" degli anni Sessanta e Settanta, piuttosto che ai classici del cinema antimilitarista come All'Ovest niente di nuovo od Orizzonti di gloria. Proprio perché, in ultima analisi, non e un'opera "pro" o "contro" la guerra, ma semmai un affresco sui sentimenti dell'America profonda, sulla sua necessità storica e psicologica di individuare valori "forti" anche nei punti più sanguinosi del proprio passato. Tom Hanks è straordinario, Tom Sizemore, Edward Burns e gli altri soldati gli fanno degna compagnia; Matt Damon, attonito al punto giusto, è Ryan, il figlio dell'America che deve meritarsi la salvezza. E non sarà facile.

    (A. CRESPI, “Ryan”, un urlo contro la guerra, «L'Unità», 30 ottobre 1998, p.22)


    - Salvate il soldato Ryan (Saing private Ryan) di Steven Spielberg riferisce fatti veri, avvenimenti storici. Innanzi tutto lo sbarco alleato in Normandia del 6 giugno 1944 durante la seconda guerra mondiale. Massacro orribile, per la prima volta raccontato dalla parte dei soldati che vi parteciparono venendo ammazzati, mutilati, straziati, affogati o bruciati vivi, illustrato con spaventosa e implacabile onestà: con una verità che smentisce il lungo silenzio d'una generazione di combattenti, con un realismo che cancella la vecchia immagine propagandistica della "guerra giusta" e del "conflitto pulito", rendendo quella guerra simile a tutte le guerre anche contemporanee, anche balcaniche o africane, segnate da atrocità, stupidità, ferocia. Poi, la vicenda autentica della spedizione d'una pattuglia americana per salvare un soldato paracadutato oltre le linee tedesche e riportarlo ai genitori che avevano già perduto in guerra tre figli. Come ha raccontato in un libro Stephen E. Ambrose, dopo la morte in azione dei cinque figli della famiglia Sullivan (alla quale Lloyd Bacon dedicò un film nel 1944), quando si ripresentò l'analogo caso della famiglia Niland gli alti comandi americani decisero il salvataggio dell'unico figlio superstite, a rischio della vita dei salvatori. Le due parti fanno di Salvate il soldato Ryan quasi un film doppio: lo sbarco è filmato come mai prima, neppure in film quali Il grande uno rosso di Sam Fuller; filmato con altrettanta efficacia, il peregrinare della pattuglia attraverso la campagna francese, i suoi incontri con l'orrore e la morte, le diverse personalità e le ribellioni all'interno del gruppo, la battaglia letale con i tedeschi, utilizza invece tutti i vecchi stereotipi del film bellico cari agli spettatori. Innovazione e tradizione si sommano per dire che il sacrificio dei soldati fu dovuto all'insipienza o al cinismo dei comandi militari nell'ideare lo sbarco macellaio, e a una pura operazione di propaganda: ma che il loro eroismo resta ammirevole, se Spielberg dice d'aver fatto il film "come un monumento ai combattenti dello sbarco", "come un ringraziamento alla generazione di mio padre". Un film patriottico profondamente antimilitarista, antibellico: e molto bello. Si sa che la seconda guerra mondiale rappresenta per Spielberg quasi un'ossessione. Tra i film che direttamente o indirettamente ha dedicato a quel conflitto, se ne possono preferire altri: L'impero del sole, 1941-Allarme a Hollywood. Si possono riconoscere in Salvate il soldato Ryan certe furberie destinate a rendere popolare un film asprissimo su fatti lontani oltre mezzo secolo: ad esempio l'atrocità sistematica e il perenne alto rumore di battaglia, così contemporanei. Si possono considerare superflui l'inizio e la fine nel cimitero militare americano di Omaha Beach, visitato da un vecchio reduce con la sua famiglia. Ma il film rimane grande, realizzato e recitato magnificamente anche da Tom Hanks, capitano della pattuglia dei salvatori. Sequenze cruciali come il massacro dello sbarco, le decine di dattilografe che battono a macchina lettere di condoglianze dello Stato Maggiore ("Con dolore le annuncio..."), la madre che cade seduta a terra vedendo arrivare quell'automobile dai cui occupanti può venirle soltanto notizia della morte dei figli, la conclusione in cui la pattuglia viene decimata in una città normanna dai militari tedeschi, testimoniano la bravura d'un regista al vertice della sua arte, capace di padroneggiare perfettamente il suo racconto, le sue idee e i suoi sentimenti.

    (L. TORNABUONI, Sbarco nell’orrore, «La Stampa», 30 ottobre 1998, p.25)

    PERCORSI NELLA CRITICA (a questa mia analisi mancano le note che non riesco a riportare nel post)

    Due sono gli aspetti principali della pellicola spielberghiana sottolineati dalla critica: realismo e dualismo. La novità e lo straordinario realismo della guerra di Salvate il soldato Ryan hanno fatto gridare alcuni recensori al miracolo: «la più allucinante rievocazione di una battaglia mai apparsa sullo schermo in tutti i suoi terrificanti particolari» , «formidabili effetti speciali» o ancora «Realismo estremo […] in Salvate il soldato Ryan, Steven Spielberg non deflette mai […] di farci partecipare “in presa diretta” agli avvenimenti narrati» . Eccezionalmente nuova appare questa veste realistica da rendere l’intero film e, in particolare, i primi 25 minuti dello sbarco in Normandia un «massacro orribile […] illustrato con spaventosa e implacabile onestà: con una verità che smentisce il lungo silenzio di una generazione di combattenti» . «Le immagini raggiungono un’inaudito livello di crudezza» e la scena iniziale sulla spiaggia di Omaha è dipinta con orrore, con foga di descrivere gli avvenimenti come furono veramente, senza filtri convenzionali e senza «punto di vista che si riesca ad assumere come proprio» costringendo così lo spettatore non a vedere una guerra, ma a subirla. Spielberg, «“figlio” di Méliès, amante dei mondi paralleli dell’illusione, crede allo stesso modo al cinema dei fratelli Lumière, alla macchina da presa che, mentre riproduce la realtà, è in grado di svelarne il volto più vero» .
    L’altro interessante spunto, riassunto per semplicità, nella formula “dualismo”, vede molti critici considerare Salvate il soldato Ryan come l’unione di due film tendenzialmente indipendenti tra loro: il primo film sarebbe costituito dai primi 25 minuti con la battaglia del D-day, mentre l’altro comprenderebbe la ricerca per recuperare Ryan. Alcuni, come Kezich , arrivano addirittura ad asserire che tra i due film ci sia una grossa differenza di qualità e, conseguentemente, di giudizio e merito. E’ solo un caso isolato, infatti la maggior parte dei recensori si limita a registrare la sensazione di aver assistito a due film in uno, con qualche differenza tecnico-formale; esemplare è il giudizio della Tornabuoni: «un film doppio: lo sbarco è filmato come mai prima […], il peregrinare della pattuglia attraverso il territorio francese […] utilizza invece i vecchi stereotipi del film bellico caro agli spettatori» . Ma è veramente un film doppio? Assolutamente no: «in realtà le due parti si fondono perfettamente in quella che è, da diversi film, l’ideologia portante della cinematografia di Spielberg. Un’ideologia che i greci chiamavano catarsi, purificazione, e che impone di cercare la salvezza anche nelle tragedie più fosche» . Inoltre la risposta più puntuale alle obbiezioni del Kezich e della Tornabuoni (che notavano nel film, seppur in maniera diversa tra loro, discrepanze strutturali e formali da pregiudicarne l’unità d’analisi) ci giunge dal saggio della Grespi:

    Dopo questo battesimo di fuoco, comunque, siamo pronti […] per assorbire una buona dose di retorica patriottica. […] L’unico modo per perdonare a Spielberg tanta retorica è inscriverla in una complessiva ripresa del war movie classico: Salvate il soldato Ryan sarebbe insomma il film che Jhon Ford avrebbe girato se gli fosse stato tecnologicamente possibile mostrarci quella guerra proprio per come la vedeva, dal vivo, con la sua troupe. E il suo modo di vederla non si poteva separare dal modo in cui l’avrebbe interpretata: fare realmente rivivere un’esperienza significa riproporla in tutto e per tutto, anche con l’ideologia che l’ha accompagnata .

    Oltre ai sopraccitati macrotemi, l’intera storia si sviluppa intorno a molte altre questioni nodali dell’esistenza umana e la morte, la cui «crudele noncuranza è la sola regia di quanto accade» , non poteva certo mancare all’appello. Nell’assurdità di una guerra, nella fatalità e nella confusione di un’operazione militare rischiosa come quella del 6 giugno 1944 tutti sono vittime della falce mietitrice «senza che possiamo pensare che qualcuno se la sia meritata o possiamo soffrire per chi riteniamo innocente» . Nella guerra la morte colpisce nel mucchio, insensatamente, non per meriti o demeriti, ma a caso.
    Queste analisi concernenti la fine della vita aprono prepotentemente la strada alla riflessione sulla morale del film e sulla proposta salvifica o purificatoria (vedi nota 9) della missione di salvezza. Spielberg riprende un tema caro alla sua cinematografia precedente per renderlo nuovamente presente sugli schermi e nel nostro cuore. «Come si diceva in Schindler’s list, chi salva un uomo salva l’umanità» e anche negli orrori della guerra combattuta in prima persona dai soldati «salvare la vita d’un uomo, anche di uno solo, riscatta le loro stesse vite dall’inferno della guerra poichè riscatta la loro dignità» . L’uomo riscopre la propria dignità e la propria indole “salvifica” nel mezzo dell’orrore e della paura cosicché il soldato potrà anche morire aiutando il commilitone, ma morirà da uomo.
    Ci resta ora da valutare quale sia il rapporto del film con la guerra e il giudizio che esprime intorno ad essa. La crudezza e il realismo quasi fastidioso della pellicola potrebbero farci pensare che Spielberg abbia realizzato questo film per denunciare la guerra passata e attuale, come sostiene la Tornabuoni: « Un film patriottico profondamente antimilitarista e antibellico» . In realtà l’intento di Spielberg è decisamente più maturo:

    Incastrato fra due battaglie come Soldato Blu e Il mucchio selvaggio, due western che ricorda in modo singolare, Salvate il soldato Ryan è solenne, magniloquente, gonfio di sangue e di sentimenti: è più simile ai western "revisionisti" degli anni Sessanta e Settanta, piuttosto che ai classici del cinema antimilitarista come All'Ovest niente di nuovo od Orizzonti di gloria. Proprio perché, in ultima analisi, non e un'opera "pro" o "contro" la guerra, ma semmai un affresco sui sentimenti dell'America profonda, sulla sua necessità storica e psicologica di individuare valori "forti" anche nei punti più sanguinosi del proprio passato .

    A completare l’analisi ci viene in aiuto la Grespi :« Questo è per Spielberg l’unico modo di affrontare la Storia: sperimentarla nuovamente, non ricostruirla, non rivisitare e rivalutare il passato con il senno di poi. L’idea della guerra (e della Storia) come esperienza, è del resto costantemente ribadita» . Questa idea è sostenuta anche da altri elementi poiché «È stato notato che, in questo vortice del senso, manca l’elemento che invece parrebbe decisivo: il nemico» . L’assenza dello sfidante proietta tutta l’analisi sui soggetti, sulle proprie aspettative, bisogni, angosce e colpe. Ci si concentra solo su di loro con l’insistenza ossessiva di ricerca il proprio essere, la propria anima.
    Prendere nuovamente possesso del proprio passato, dei propri valori, della propria storia – positiva o negativa che sia – è il nucleo fondante e il cuore profondo su cui nasce e si sviluppa questa bellissima storia bellica.

  3. #3
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    La scheda critica al film che ho riportato nel post precedente l'ho eseguita per l'università e visto il tempo e l'impegno speso mi sembrava carino pubblicare l'intero lavoro su scampoli (anche se il film non è proprio di attualità...). Rimane comunque un classico della cinematografia ed è giusto vantare tal nome nel nostro archivio.

  4. #4
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