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    Predefinito Fanciulli santi e in fama di santità

    Mi è stato richiesto di trattare dei fanciulli e ragazzi santi e in fama di santità. A tal proposito apro tale discussione per elencare quelli conosciuti...

  2. #2
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    San Domenico Savio Adolescente
    9 marzo - Comune
    Riva di Chieri, Torino, 2 aprile 1842 - Mondonio, Asti, 9 marzo 1857


    Domenico Savio, soprannominato in piemontese “Minòt”, nacque il 2 aprile 1842 a San Giovanni, frazione di Riva presso Chieri, agli estremi confini della provincia e della diocesi torinese. Fu il secondo di ben dieci fratelli, figli di Carlo, che svolge l’attività di fabbro, e di Brigida Gaiato, sarta. Il piccolo Domenico venne battezzato nella chiesa dell’Assunta in Riva il giorno stesso. Alla fine del 1843 la famiglia si trasferì a Murialdo, frazione di Castelnuovo d’Asti, odierna Castelnuovo Don Bosco. Qui nel 1848 Domenico iniziò le scuole e nella chiesa parrocchiale del paese ricevette la prima Comunione l88 aprile 1849. Proprio in tale occasione, all’età di appena sette anni, tracciò il suo progetto di vita che sintetizzò in quattro propositi ben precisi: “Mi confesserò molto sovente e farò la Comunione tutte le volte che il confessore me ne darà il permesso. Voglio santificare i giorni festivi. I miei amici saranno Gesù e Maria. La morte ma non peccati”.
    Nel mese di febbraio del 1853 i Savio si trasferirono nuovamente, questa volta a Mondonio, altra frazione di Castelnuovo. Il 2 ottobre dell’anno successivo Domenico, ormai dodicenne, incontrò Don Bosco ai Becchi. Il santo educatore rimase sbalordito da questo ragazzo: “Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la grazia di Dio aveva operato in così tenera età”. Con la sua innata schiettezza il ragazzo gli disse: “Io sono la stoffa, lei ne sia il sarto: faccia un bell’abito per il Signore!”. Nel giro di soli venti giorni poté così fare il suo ingresso nell’oratorio di Valdocco a Torino. Si mise dunque a camminare veloce sulla strada che Don Bosco gli consigliò per “farsi santo”, il suo grande sogno: allegria, impegno nella preghiera e nello studio, far del bene agli altri, devozione a Maria. Scelse il santo come confessore e, affinché questi potesse formarsi un giusto giudizio della sua coscienza, volle praticare la confessione generale. Iniziò a confessarsi ogni quindici giorni, poi addirittura ogni otto.
    Domenico imparò presto a dimenticare se stesso, i suoi capricci ed a diventare sempre più attento alle necessità del prossimo. Sempre mite, sereno e gioioso, metteva grande impegno nei suoi doveri di studente e nel servire i compagni in vari modi: insegnando loro il Catechismo, assistendo i malati, pacificando i litigi.
    Una volta, in pieno inverno, due compagni di Domenico ebbero la brillante idea di gettare della neve nella stufa dell’aula scolastica. Non appena entrò il maestro, dalla stufa spenta colava un rigagnolo d’acqua. Alla domanda “Chi è stato?”, nessuno fiatò. Si alzarono i due colpevoli per indicare Domenico. Nessuno purtroppo intervenne per dire la verità, così il maestro punì il santo bambino. Uscendo dalla scuola, però, qualcuno vinse la paura ed indicò al maestro i veri colpevoli. Chiamò allora Domenico per chiedergli: “Perché sei stato zitto? Così ho compiuto un’ingiustizia davanti a tutta la classe!”. Domenico replicò tranquillo: “Anche Gesù fu accusato ingiustamente e rimase in silenzio”.
    Un giorno due suoi compagni di scuola si insultarono e si pestarono. Lanciarono poi una sfida a duello. Domenico, che passava di lì diretto all’Oratorio, vide la scene e si rese immediatamente conto del pericolo. Toltosi dal collo il piccolo crocifisso che portava sempre con se, si avvicinò ai due sfidanti. Gridò loro con fermezza: “Guardate Gesù! Egli è morto perdonando e voi volete vendicarvi, a costo di mettere in pericolo la vita?”.
    Un giorno spiegò ad un ragazzo appena arrivato all’Oratorio: “Sappi che noi qui facciamo consistere la santità nello stare molto allegri. Facciamo soltanto in modo di evitare il peccato, come un grande nemico che ci ruba la grazia di Dio e la pace del cuore, di adempiere esattamente i nostri doveri”.
    Questi sono solo i più salienti aneddoti della vita di Domenico Savio, il cui più grande biografo fu San Giovanni Bosco.
    L’8 dicembre 1854, quando il beato papa Pio IX proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, Domenico si recò dinnanzi all’altare dedicato alla Madonna per recitarle questa preghiera da lui composta: “Maria, ti dono il mio cuore. fa’ che sia sempre tuo. Fammi morire piuttosto che commettere un solo peccato. Gesù e Maria, siate voi sempre i miei amici”. Due anni dopo fondò con un gruppo di amici la “Compagnia dell’Immacolata”: gli iscritti si impegnavano a vivere una vita intensamente cristiana e ad aiutare i compagni a diventare migliori. L’amore a Gesù Eucaristia ed alla Vergine Imma¬colata, la purezza del cuore, la santificazione delle azio¬ni ordinarie e l’ansia di conquista di tutte le anime furono da quel momento il suo principale scopo di vita.
    Un giorno mamma Margherita, che era scesa a Torino per aiutare il figlio Don Bosco, disse a quest’ultimo: “Tu hai molti giovani buoni, ma nessuno supera il bel cuore e la bell'anima di Savio Domenico. Lo vedo sempre pregare, restando in chiesa anche dopo gli altri; ogni giorno si toglie dalla ricreazione per far visita al Santissimo Sacramento. Sta in chiesa come un angelo che dimora in Paradiso”. Furono principalmente i genitori e Don Bosco, dopo Dio, gli ar¬tefici di questo modello di santità giovanile ancora oggi ammirato in tutto il mondo dai giovani.
    Nell’estate del 1856 scoppiò il colera, malattia a quel tempo incurabile. Le famiglie ancora sane si barricarono in casa, rifiutando ogni minimo contatto con altre persone. I colpiti dal male morivano abbandonati. Don Bosco pensò di radunare i suoi cinquecento ragazzi, invitando i più coraggiosi ad uscire con lui. Quarantaquattro, tra i ragazzi più grandi, si offrirono subito volontari. Tra di essi in prima fila spiccava proprio Domenico Savio. Ammalatosi anch’egli, dovette fare ritorno in famiglia a Mondonio, dove il 9 marzo 1857 morì fra le braccia dei genitori, consolando la madre con queste parole: “Mamma non piangere, io vado in Paradiso”. Con gli occhi fissi come in una dolce visione, spirò esclamando: “Che bella cosa io vedo mai!”.
    Pio XI lo definì “Piccolo, anzi grande gigante dello spirito”. Dichiarato eroe delle virtù cristiane il 9 luglio 1933, il venerabile pontefice Pio XII beatificò Domenico Savio il 5 marzo 1950 e, in seguito al riconoscimento di altri due miracoli avvenuti per sua intercessione, lo canonizzò il 12 giugno 1954. Domenico, quasi quindicenne, divenne così il più giovane santo cattolico non martire. I suoi resti mortali, collocati in un nuovo reliquiario realizzato in occasione del 50° anniversario della canonizzazione, sono venerati nella Basilica torinese di Maria Ausiliatrice. E’ patrono dei pueri cantores, nonché dei chierichetti, entrambe mansioni liturgiche che svolte attivamente. Altrettanto nota è la sua speciale protezione nei confronti delle gestanti, tramite il segno del cosiddetto “abitino”, in ricordo del miracolo con cui il santo salvò la vita di una sua sorellina che doveva nascere. La memoria liturgica del santo è stata fissata per la Famiglia Salesiana e per le diocesi piemontesi al 6 maggio, in quanto l’anniversario della morte cadrebbe in Quaresima.

    NOVENA 1. O San Domenico Savio che nei fervori eucaristici estasiavi il tuo spirito alle dolcezze della reale presenza dei Signore sì da esserne rapito, ottieni anche a noi la tua fede e il tuo amore al Santissimo Sacramento, affinché possiamo adorarlo con fervore e riceverlo degnamente nella Santa Comunione. - Gloria al Padre... 2. O San Domenico Savio che nella tua tenerissima devozione alla Immacolata Madre di Dio Le consacrasti per tempo il cuore innocente diffondendone il culto con pietà filiale, fa' che anche noi le siamo figli devoti, per averla Ausiliatrice nei pericoli della vita e nell'ora della nostra morte. - Gloria al Padre... 3. O San Domenico Savio che nell'eroico proposito: "La morte, ma non peccati" serbasti illibata l'angelica purezza, ottieni anche a noi la grazia di imitarti nella fuga dai divertimenti cattivi e dalle occasioni di peccato per custodire questa bella virtù. - Gloria al Padre... 4. San Domenico Savio che per la gloria di Dio e per il bene delle anime sprezzando ogni rispetto umano impegnasti un ardito apostolato per combattere la bestemmia e l'offesa a Dio, ottieni anche a noi la vittoria sul rispetto umano e lo zelo per la difesa dei diritti di Dio e della Chiesa. - Gloria al Padre... 5. O San Domenico Savio che apprezzando il valore della mortificazione cristiana temprasti nel bene la tua volontà, aiuta anche noi a dominare le nostre passioni e a sostenere le prove e contrarietà della vita per amore di Dio. - Gloria al Padre... 6. O San Domenico Savio che raggiungesti la perfezione dell'educazione cristiana attraverso una docile obbedienza ai tuoi genitori ed educatori, fa' che anche noi corrispondiamo alla grazia di Dio e viviamo fedeli al magistero della Chiesa Cattolica. - Gloria al Padre... 7. O San Domenico Savio che non pagò di farti apostolo tra i compagni sospirasti il ritorno alla vera Chiesa dei fratelli separati ed erranti, ottieni anche a noi lo spirito missionario e rendici apostoli nel nostro ambiente e nel mondo. - Gloria al Padre... 8. O San Domenico Savio che nell'eroico compimento d'ogni tuo dovere fosti modello di operosità instancabile santificata dalla preghiera, concedi anche a noi che nell'osservanza dei nostri doveri ci impegniamo a vivere una vita di esemplare pietà. - Gloria al Padre... 9. O San Domenico Savio che col fermo proposito: "Voglio farmi santo" alla scuola di Don Bosco raggiungesti ancora giovane lo splendore della santità, ottieni anche a noi la perseveranza nei propositi di bene, per fare dell'anima nostra il tempio vivo dello Spirito Santo e meritare un giorno l'eterna beatitudine in Cielo. - Gloria al Padre... Orazione: O Dio, che in San Domenico hai dato agli adolescenti un mirabile modello di pietà e di purezza, concedi propizio che per sua intercessione ed esempio possiamo servirti casti nel corpo e puri nel cuore. Per il Signore nostro Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

    COLLETTE

    O Dio, fonte di ogni bene,
    che in san Domenico Savio hai donato agli adolescenti
    un mirabile esempio di carità e di purezza:
    concedi anche a noi di crescere come figli
    nella gioia e nell'amore, fino alla piena statura di Cristo.
    Egli è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo,
    per tutti i secoli dei secoli. Amen.

    oppure:
    Signore, Dio della vita e della gioia,
    tu hai donato alla Chiesa san Domenico Savio come modello di santità giovanile;
    concedi ai giovani di crescere come lui nella purezza e nell'amore,
    e a noi educatori di saperli condurre a Cristo impegnandoli nel servizio del tuo regno.
    Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
    e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

    PREGHIERA
    Angelico Domenico Savio
    che alla scuola di San Giovanni Bosco
    imparasti a percorrere le vie della santità giovanile,
    aiutaci ad imitare il tuo amore a Gesù,
    la tua devozione a Maria, il tuo zelo per le anime;
    e fa' che proponendo anche noi di voler morire piuttosto che peccare,
    otteniamo la nostra eterna salvezza. Amen.

    oppure per i giovani:
    San Domenico Savio, sono anch’io giovane come te,
    e come te cerco molto di amare Gesù.
    Tu sei stato formidabile nell’amicizia con i tuoi compagni,
    nella fiducia verso i tuoi genitori e i tuoi educatori.
    Io ti affido tutti i miei amici e tutte le persone care
    con cui condivido le mie giornate.
    Tu non avresti mai commesso un peccato un peccato che deturpa il cuore.
    Aiutami a trovare le parole, i gesti e gli sguardi che sono giusti e veri,
    per manifestare, come te, la bontà e la verità.
    Fa’ che mi senta sempre amato da Dio
    e che sappia sempre scegliere il bene.
    Ti ringrazio perché mi hai indicato la via della santità
    E sono certo che mi aiuterai a seguirla ogni giorno. Amen.


    Autore:
    Fabio Arduino



    http://www.santiebeati.it/dettaglio/32300




  3. #3
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    San Vito Adolescente martire
    15 giugno
    Mazara del Vallo (Trapani), III sec. – Lucania, 15 giugno 303



    San Vito fa parte dei 14 Santi Ausiliatori, molto venerati nel Medioevo, la cui intercessione veniva considerata particolarmente efficace nelle malattie o specifiche necessità. Gli altri tredici Ausiliatori sono: Acacio, Barbara, Biagio, Caterina d’Alessandria, Ciriaco, Cristoforo, Dionigi, Egidio, Erasmo, Eustachio, Giorgio, Margherita, Pantaleone.
    Il culto per s. Vito è attestato dalla fine del V secolo, ma le notizie sulla sua vita sono poche e scarsamente attendibili. Alcuni antichi testi lo dicono lucano, ma la ‘Passio’ leggendaria del VII secolo, lo dice siciliano; nato secondo la tradizione a Mazara del Vallo in una ricca famiglia, rimasto orfano della madre, fu affidato ad una nutrice Crescenzia e poi al pedagogo Modesto, che essendo cristiani lo convertirono alla loro fede.
    Aveva sui sette anni, quando cominciò a fare prodigi e quando nel 303 scoppiò in tutto l’impero romano, la persecuzione di Diocleziano contro i cristiani, Vito era già molto noto nella zona di Mazara.
    Il padre non riuscendo a farlo abiurare, si crede che fosse ormai un’adolescente, lo denunziò al preside Valeriano, che ordinò di arrestarlo; che un padre convinto pagano, facesse arrestare un suo figlio o figlia divenuto cristiano, pur sapendo delle torture e morte a cui sarebbe andato incontro, è figura molto comune nei Martirologi dell’età delle persecuzioni, che come si sa, sotto vari titoli furono scritti secoli dopo e con l’enfasi della leggenda eroica.
    Il preside Valeriano con minacce e lusinghe, tentò di farlo abiurare, anche con l’aiuto degli accorati appelli del padre, ma senza riuscirci; il ragazzo aveva come sostegno, con il loro esempio di coraggio e fedeltà a Cristo, la nutrice Crescenzia e il maestro Modesto, anche loro arrestati.
    Visto l’inutilità dell’arresto, il preside lo rimandò a casa, allora il padre tentò di farlo sedurre da alcune donne compiacenti, ma Vito fu incorruttibile e quando Valeriano stava per farlo arrestare di nuovo, un angelo apparve a Modesto, ordinandogli di partire su una barca con il ragazzo e la nutrice.
    Durante il viaggio per mare, un’aquila portò loro acqua e cibo, finché sbarcarono alla foce del Sele sulle coste del Cilento, inoltrandosi poi in Lucania (antico nome della Basilicata, ripristinato anche dal 1932 al 1945).
    Vito continuò ad operare miracoli tanto da essere considerato un vero e proprio taumaturgo, testimoniando insieme ai due suoi accompagnatori, la sua fede con la parola e con i prodigi, finché non venne rintracciato dai soldati di Diocleziano, che lo condussero a Roma dall’imperatore, il quale saputo della fama di guaritore del ragazzo, l’aveva fatto cercare per mostrargli il figlio coetaneo di Vito, ammalato di epilessia, malattia che all’epoca era molto impressionante, tale da considerare l’ammalato un indemoniato.
    Vito guarì il ragazzo e come ricompensa Diocleziano ordinò di torturarlo, perché si rifiutò di sacrificare agli dei; qui si inserisce la parte leggendaria della ‘Passio’ che poi non è dissimile nella sostanza, da quelle di altri martiri del tempo.
    Venne immerso in un calderone di pece bollente, da cui ne uscì illeso; poi lo gettarono fra i leoni che invece di assalirlo, diventarono improvvisamente mansueti e gli leccarono i piedi. Continua la leggenda, che i torturatori non si arresero e appesero Vito, Modesto e Crescenzia ad un cavalletto, ma mentre le loro ossa venivano straziate, la terra cominciò a tremare e gli idoli caddero a terra; lo stesso Diocleziano fuggì spaventato.
    Comparvero degli angeli che li liberarono e trasportarono presso il fiume Sele allora in Lucania, oggi dopo le definizioni territoriali successive, scorre in Campania, dove essi ormai sfiniti dalle torture subite, morirono il 15 giugno 303; non si è riusciti a definire bene l’età di Vito quando morì, alcuni studiosi dicono 12 anni, altri 15 e altri 17.
    Purtroppo bisogna dire che il martirio in Lucania è l’unica notizia attendibile su s. Vito, mentre per tutto il resto si finisce nella leggenda. Il suo culto si diffuse in tutta la Cristianità, colpiva soprattutto la giovane età del martire e le sue doti taumaturgiche, è invocato contro l’epilessia e la corea, che è una malattia nervosa che dà movimenti incontrollabili, per questo è detta pure “ballo di san Vito”; poi è invocato contro il bisogno eccessivo di sonno e la catalessi, ma anche contro l’insonnia ed i morsi dei cani rabbiosi e l’ossessione demoniaca.
    Protegge i muti, i sordi e singolarmente anche i ballerini, per la somiglianza nella gestualità agli epilettici. Per il grande calderone in cui fu immerso, è anche patrono dei calderai, ramai e bottai.
    Secondo una versione tedesca della leggenda, nel 756 l’abate Fulrad di Saint-Denis, avrebbe fatto trasportare le reliquie di san Vito nel suo monastero di Parigi; poi nell’836 l’abate Ilduino le avrebbe donate al monastero di Korway nel Weser, che divenne un centro importante nel Medioevo, della devozione del giovane martire.
    Durante la guerra dei Trent’anni (1618-48), le reliquie scomparvero da Korwey e raggiunsero nella stessa epoca Praga in Boemia, dove la cattedrale costruita nel X secolo, era dedicata al santo; a lui è consacrata una splendida cappella.
    Bisogna dire che delle reliquie di san Vito, è piena l’Europa; circa 150 cittadine, vantano di possedere sue reliquie o frammenti, compreso Mazara del Vallo, che conserva un braccio, un osso della gamba e altri più piccoli.
    Nella città ritenuta suo luogo di nascita, san Vito è festeggiato ogni anno con una solenne e tipica processione, che si svolge fra la terza e la quarta domenica d’agosto. Il “fistinu” in onore del santo patrono, ricorda la traslazione delle suddette reliquie, avvenuta nel 1742 ad opera del vescovo Giuseppe Stella.
    La processione, indicata come la più mattiniera d’Italia, inizia alle quattro del mattino, con il trasporto della statua d’argento del santo, posta sul Carro trionfale, trainato a braccia dai pescatori, fino alla chiesetta di San Vito a Mare, accompagnato da una suggestiva fiaccolata e da fuochi d’artificio; da questo luogo si crede sia partito con la barca per sfuggire al padre e al preside Valeriano.
    Una seconda processione è quella celebre storica-ideale a quadri viventi, è una serie di carri, su cui sono rappresentate da fedeli con gli abiti dell’epoca, scene della sua vita e del suo martirio, chiude la processione il già citato carro trionfale.
    “U fistinu” si conclude nell’ultima domenica d’agosto, con un’ultima processione del carro trionfale diretto al porto-canale e da lì il simulacro di s. Vito, viene issato su uno dei pescherecci e seguito da un centinaio di altri pescherecci e barche, giunge fino all’altezza della Chiesetta di S. Vito al Mare, per ritornare infine al porto.
    A Roma esiste la chiesa dei santi Vito e Modesto, dove in un affresco oltre il giovanetto, compaiono anche Modesto con il mantello da maestro e Crescenzia in aspetto matronale con il velo.
    Nell’area germanica s. Vito è rappresentato come un ragazzo sporgente da un grosso paiolo, con il fuoco acceso sotto.
    Il santuario in cui è venerato nell’allora Lucania, oggi nel Comune di Eboli in Campania, denominato S. Vito al Sele, era detto “Alecterius Locus” cioè “luogo del gallo bianco”; nella vicina città di Capaccio, nella chiesa di S. Pietro, è custodita una reliquia del santo, mentre nella frazione Capaccio Scalo, è sorta un’altra chiesa parrocchiale dedicata anch’essa a S. Vito; la diocesi di questi Comuni in cui il culto di S. Vito è così forte, perché qui morì con i suoi compagni di martirio, si chiama tuttora Vallo della Lucania, pur essendo in provincia di Salerno.
    Il santo è anche patrono di Recanati e nella sola Italia, ben 11 Comuni portano il suo nome.


    Autore:
    Antonio Borrelli



    http://santiebeati.it/dettaglio/57300




  4. #4
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    San Pancrazio Martire
    12 maggio - Memoria Facoltativa
    Sinnada, Frigia, Asia Minore, 289 circa – Roma, 12 maggio 304

    San Pancrazio nacque verso la fine dell’anno 289 dopo Cristo presso Sinnada, cittadina della Frigia, provincia consolare dell’Asia Minore. I suoi ricchi genitori erano di origine romana: la madre Ciriada morì nel parto, mentre il padre Cleonia lo lasciò orfano all'età di otto anni, affidandolo però allo zio Dionisio perché ne curasse l’educazione e l’amministrazione dei beni. Entrambi, Pancrazio e Dionisio, si trasferirono a Roma per risiedere nella loro villa patrizia sul Monte Celio. Qui vennere a contatto con la comunità cristiana di Roma e chiesero di poter essere iniziati alla fede. La scoperta di Dio e di Cristo infiammò a tal punto il cuore del giovane e dello zio, che i due chiesero in breve tempo il Battesimo e l’Eucaristia. Scoppiò nel frattempo la feroce persecuzione di Diocleziano, era l’anno 303 d.C., ed il terrore dalle province dell’impero giunse sino a Roma, falciando inesorabilmente ogni persona che avesse negato l’incenso agli dèi romani o il riconoscimento della divinità dell’imperatore. Anche Pancrazio fu chiamato a sacrificare, per esprimere la sua fedeltà a Diocleziano, ma rifiutandosi fermamente fu allora condotto dinnanzi all’imperatore stesso per essere giudicato. Diocleziano, sorpreso “dall’avvenenza giovanile e bellezza di lui, adoperò ogni arte di promesse e minacce per fargli abbandonare la fede di Gesù Cristo” (da un manoscritto conservato nella Basilica di San Pancrazio). La costanza della fede di Pancrazio meravigliò l’imperatore e tutti i cortigiani presenti all’interrogatorio, suscitando allo stesso tempo lo sdegno dell’imperatore che non esitò ad ordinare la decapitazione dell’intrepido giovane. Condotto fuori Roma, sulla via Aurelia, mentre il sole al tramonto tingeva di purpureo quella sera del 12 maggio 304 e le tenebre scendevano fitte sul tempio di Giano, Pancrazio porse la testa al titubante carnefice, riconsegnando così la propria vita a Dio.
    Consumatosi così il martirio del ragazzo, Ottavilla, illustre matrona romana, raccolse il capo ed il corpo, li unse con balsami, li avvolse in preziosi lini e li depose in un sepolcro nuovo, appositamente scavato nelle già esistenti Catacombe del suo predio. Sul luogo del martirio leggiamo ancora oggi: “Hic decollatus fuit Sanctus Pancratius” (Qui fu decollato San Pancrazio). In seguito il capo del martire fu posto nel prezioso reliquiario che ancor oggi si venera nella Basilicali San Pancrazio. I resti del corpo del piccolo martire, invece, sono conservano nell’urna posta sotto l’altare maggiore insieme alle reliquie di altri martiri.
    La vicenda di San Pancrazio ha talvolta suscitato tra gli eruditi diverse contestazioni. In essa si riscontrano infatti anacronismi di rilievo ed altri difetti che rilevano innegabilmente il comune armamentario agiografico di cui si servivano i biografi per soddisfare la curiosità dei devoti di un santo. La critica demolitrice non è però andata molto oltre. E’ pur certo che le redazioni latine e greche delle Gesta di San Pancrazio arrivate sino a noi abbiano bisogno dello sfrondamento dalle molte alterazioni contenute, ma comunque al fondo di tali narrazioni si possono riscontrare alcuni elementi sicuramente attendibili. Non si potrebbe spiegare altrimenti come già sul finire del V secolo fosse sicuramente attestato un fervente culto verso un martire di cui non si sapeva molto più che il nome ed il luogo della sepoltura. Gli Acta narranti il martirio di San Pancrazio non sono affatto contemporanei ai fatti accaduti e, secondo gli studiosi, risalirebbero a circa due secoli dopo. Sembra infatti che vennero compilati definitivamente nel VI secolo, periodo che si rivelò di massimo fervore del culto tributato al martire ed in concomitanza con l’edificazione della grande basilica voluta da Papa Simmaco per tramandarne la memoria. Tale ritardo nello stendere le passiones è infatti così spiegato dal Grisar: “poiché le persecuzioni pagane spesso avevano distrutto precisamente gli scritti che trovavansi in possesso della Chiesa, gli atti genuini dei martiri, quali erano stati copiati dai protocolli giudiziari, e le altre narrazioni composte da cristiani contemporanei erano andate perdute in massima parte. Di molti martiri poi nella distretta delle ostilità pagane mai furono redatte narrazioni precise, mentre invece nell'età della Chiesa trionfante, specialmente dacché il pubblico culto dei coraggiosi testimoni della fede per due o tre secoli ebbe preso il più grande slancio e s’erano accresciute le curiosità dei pellegrini sulle circostanze della loro persona e morte, a poco a poco ogni martire dovette avere la sua passione”. Sorge inoltre anche un’altra difficoltà: la “Passio sancti Pancratii” è giunta sino a noi in diverse redazioni differenti tra loro, ma ciò non deve meravigliare, in quanto i codici sono dipendenti l’uno dall’altro, venivano trascritti a distanza di tempo e spesso il copista abbelliva a proprio gusto il testo su cui lavorava. Un incalcolabile numero di manoscritti contenenti la suddetta leggenda è custodito in numerose biblioteche d’Italia e d’Europa, motivo per cui risulterebbe impresa ardua se non impossibile il tentare un raffronto ed una classificazione dei codici originali.
    Il Cardinale Baronio, autore nel XVI secolo della più grande storia della Chiesa, ricordò San Pancrazio nella sua monumentale opera, gli Annales Ecclesiastici: “Rursus etiam, quod spectat ad martyres Romae passos, sustulit haec persecutio Rufum virum nobilem, una cum omni familia sua, quarta kalend. Decembris; sed et nobilem specimen christianae constantiae duo pueri ediderunt, quorum prior maxime commendatur Pancratius quatuordecim annos natus; sed et alius quoque aetate minor Crescentius, qui sub Turpilio (seu Turpio) judice, via Salaria gladio passus est” (C. Baronio, Annales, III). Anche se essenziale, la citazione del martirio di Pancrazio è basata dal Baronio su fonti storiche antiche e degne di fede.
    Dall’iconografia del santo, che sovente viene raffigurato come un giovane soldato, nasce un’altra curiosità. Bisogna chiarire innanzitutto come a quel tempo la carriera militare era certamente la più promettente per i giovani rampolli delle nobili e ricche famiglie come quella di Pancrazio, in un impero che della guerra aveva fatto la sua fortuna oltre che il mezzo per sottomettere il mondo. Non avendo però validi motivi per affermarlo, è preferibile ipotizzare che l’abito e la posa del combattente nelle quali egli viene posto siano motivati dall’etimologia del suo nome che significa in greco “lottatore”, che in questo caso farebbe riferimento alla lotta da lui combattuta per testimoniare la fede cristiana.
    Il Martyrologium Romanum ancora oggi riporta in data 12 maggio la commemorazione “A Roma, al secondo miglio lungo la Via Aurelia, memoria di S. Pancrazio, che ancora adolescente fu ucciso per la fede di Cristo; presso il luogo della sua sepoltura papa Simmaco innalzò la celebre basilica, e papa Gregorio Magno non perse occasione per invitare il popolo ad imitare un simile esempio di verace amore a Cristo. In questa data si commemora la deposizione delle sue spoglie”. Il Messale Romano ed il Breviario, conformemente al calendario liturgico della Chiesa, riportano sempre in tale data la “memoria facoltativa” del santo martire.
    San Pancrazio, patrono dei Giovani di Azione Cattolica, è stato indubbiamente uno dei santi più popolari non solo a Roma ed in Italia, ma anche all’estero. A lui sono stati dedicati chiese e monasteri: quello di Roma venne fondato da San Gregorio Magno e quello di Londra da Sant’Agostino di Canterbury, che da il nome anche ad una stazione della metropolitana londinese. Degno di nota è anche il santuario di San Pancrazio presso Pianezza, nella prima cintura torinese, legato ad un fatto miracoloso avvenuto il 12 maggio 1450 al contadino Antonio Casella. Questi, mentre falciava il prato tagliò inavvertitamente un piede alla moglie, venuta a portargli qualcosa da mangiare. I coniugi, angosciati, pregarono il Signore e furono confortati dall’apparizione di San Pancrazio che promise la pronta guarigione in cambio dell’erezione di un luogo di culto. Nacque così un pilone votivo che si ampliò sino a divenire il grande santuario ancora oggi meta di pellegrinaggi. Non bisogna però confondere il fanciullo martire romano venerato a Pianezza con un altro santo omonimo venerato in Piemonte, che nel grande dipinto del Santuario di Castelmagno (Cn) è raffigurato insieme ai santi Maurizio, Costanzo, Ponzio, Magno, Chiaffredo e Dalmazzo in abiti militari, quali presunti soldati della mitica Legione Tebea.


    Autore:
    Fabio Arduino



    http://santiebeati.it/dettaglio/27200




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    Beati Cristoforo, Antonio e Giovanni Adolescenti, protomartiri del Messico
    23 settembre
    Tlaxcala (Messico), † 1527-1529


    Il 6 maggio 1990 papa Giovanni Paolo II ha proclamati beati i tre adolescenti Cristoforo, Antonio e Giovanni, martiri per la fede cristiana, considerati dagli storici della Chiesa messicana i protomartiri non solo del Messico ma dell'intero Continente Americano; primizie dell'evangelizzazione del Nuovo Mondo.
    I missionari Francescani arrivarono in Messico a Tenochtitlàn nel 1524, quindi tre-quattro anni prima della loro morte, dividendosi poi in quattro regioni, Mexico, Texcoco, Huetzingo e Tlaxcala.
    In quest'ultima località, che nel 1526 divenne la prima diocesi, si svolse la breve vicenda terrena dei tre ragazzi; le cause dell'avversione ai missionari delle popolazioni indigene, fu che queste erano molto attaccate alle loro tradizioni; nel contempo i missionari basavano l'evangelizzazione sul concetto che la salvezza era un bene assoluto da conseguire, soprattutto eliminando gli idoli pagani.
    Bisogna dire che al tempo della conquista spagnola nel 1519 con Cortés, esisteva nel Messico la religione azteca, il cui culto si esplicava con un gran numero di crudeli sacrifici umani e la vita religiosa era dominata dalla casta dei sacerdoti idolatri.
    Questo crudele aspetto della religione pagana, favorì il diffondersi della nuova religione cristiana o per convinzione o per forza perché arrivata con i conquistatori spagnoli; ma i sacerdoti ed i pagani fedelissimi, naturalmente avversavano i missionari.
    I Francescani e poi i Domenicani, lavorarono per la promozione degli Indios e per difenderli da questi sanguinari riti, furono drastici nell'evangelizzazione e presero a distruggere templi e idoli; oggi certamente ciò non sarebbe approvato, ma bisogna ragionare con il pensiero ed i fini di allora.
    Tutto questo portò ad una reazione di buona parte degli Indios, che si sfogò anche sui tre catechisti locali, Cristoforo, Antonio e Giovanni, dei quali naturalmente si sa ben poco della loro vita prima del martirio; essi educati alla scuola francescana di Tlaxcala, furono uccisi in tempi e luoghi diversi dai loro conterranei, perché riprovavano l'idolatria, la poligamia e le orge pagane a cui si abbandonavano.
    Si danno di seguito alcune notizie conosciute su ognuno di essi.

    Il primo di essi fu Cristoforo, chiamato anche col diminutivo 'Cristobalito', nacque ad Atlihuetzia (Tlaxcala) tra il 1514 e il 1515 ed era il figlio prediletto ed erede del principale cacicco Acxotecatl; ben presto seguì l'esempio degli altri tre fratelli, che nel 1524 avevano preso a frequentare la scuola aperta dai missionari francescani.
    Si fece istruire nelle fede cristiana e chiese spontaneamente il Battesimo, ebbe il nome di Cristoforo, i testi non riportano il nome di nascita, certamente lungo e per noi difficile a pronunziare; diventò in breve tempo un apostolo del Vangelo tra i suoi familiari e conoscenti.
    Anzi si propose di convertire il padre e prese ad esortarlo a cambiare le sue riprovevoli abitudini, soprattutto l'ubriachezza; il padre non gli diede importanza e allora Cristoforo prese a rompere gli idoli presenti in casa; fu ammonito e perdonato dal padre più volte, il quale visto il ripetersi del fatto, prese la decisione di ucciderlo.
    La sua fede pagana era superiore all'affetto di genitore, quindi con un tranello fece tornare a casa i figli dalla scuola francescana, mentre i fratelli entravano in casa, Cristoforo fu afferrato per i capelli dal padre che lo buttò a terra, dandogli calci e bastonandolo fino a rompergli le braccia e le gambe; visto che Cristoforo pur nel dolore continuava a pregare, lo gettò su un rogo acceso.
    Pochi giorni dopo fu uccisa anche la madre, che aveva invano tentato di difendere il figlio; la descrizione del martirio del giovane Cristoforo, fa venire alla mente i supplizi di tanti giovani, santi martiri al tempo dei primi cristiani nell'impero romano, uccisi proprio dai loro padri, funzionari potenti dell'imperatore.
    Lo snaturato padre seppellì di nascosto il figlio in una stanza della casa; un testo dice che fu poi condannato a morte per i suoi delitti, probabilmente dagli spagnoli. Il fatto avvenne nel 1527 e Cristoforo aveva 13 anni.
    Uno dei francescani Andrea da Cordoba, un anno dopo, conosciuto il luogo della sepoltura, lo esumò e fece trasportare il corpo incorrotto del giovane martire nel convento di Tlaxcala.
    Molto tempo dopo un altro frate, Toribio da Benevento, che compose anche il racconto del martirio, lo seppellì nella chiesa di Santa Maria a Tlaxcala.

    Antonio e Giovanni nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Giovanni di umile condizione, era il suo servitore e ambedue frequentavano la scuola dei Francescani.
    Nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, pertanto passando loro per Tlaxcala il domenicano Bernardino Minaya, chiese a fra Martin di Valencia francescano e direttore della scuola, di indicargli alcuni ragazzi che volontariamente potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios.
    Riuniti i ragazzi della scuola, fra Martin formulò la richiesta del domenicano, avvisando comunque che si trattava di un compito con pericolo di morte; subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Giovanni e un altro nobile ragazzo di nome Diego (che non morì martire).
    Il gruppo arrivò a Tepeaca, Puebla e i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere gli idoli, poi solo Antonio e Giovanni si spostarono a Cuauhtinchán, Puebla e continuarono la raccolta; Antonio entrava nella casa e Giovanni restava alla porta; in una di queste azioni gli Indios inferociti e armati di bastoni, si avvicinarono e colpirono Giovanni talmente forte che morì sul colpo.
    Antonio accorso in suo aiuto si rivolse agli aggressori: “Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini”. Gli indigeni lo percossero con i bastoni finché morì.
    I corpi di Antonio e Giovanni furono poi gettati in una scarpata vicino a Tecalco; il domenicano padre Bernardino li ricuperò e li trasferì a Tepeaca dove vennero sepolti in una cappella.

    Il sangue dei tre ragazzi messicani, fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro Paese; l'opera dei missionari si allargò ad aprire scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana e difendendoli dai soprusi degli “encomenderos”.
    Il 7 gennaio 1982, la Congregazione dei Santi diede il nulla osta per l'introduzione della causa per la loro beatificazione e il 3 marzo 1990 fu riconosciuta la validità del martirio; come detto all'inizio, papa Giovanni Paolo II li ha proclamati beati il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, insieme a Juan Diego, il Messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.
    La celebrazione liturgica dei tre adolescenti è al 23 settembre.


    Autore:
    Antonio Borrelli



    http://santiebeati.it/dettaglio/92283




  6. #6
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    Beato Davide (Daudi) Okelo Catechista martire ugandese
    18 settembre
    m. 18-20 ottobre 1918



    Beati DAVIDE OKELO e GILDO IRWA, i martiri di Paimol

    "Siete disposti ad andare a Paimol? Sapete bene che la gente di quel paese è tanto cattiva e tu Gildo sei tanto piccolo!". "Davide però è grande - rispose - e noi staremo insieme". "Ma se vi ammazzeranno?". "Andremo in paradiso! C'è già Antonio - soggiunge Davide - io non temo la morte. Gesù non è morto per noi?".

    "Io ero commosso - testimonia P. Cesare Gambaretto, il missionario comboniano del distretto di Kitgum, nel Nord Uganda - quasi presentivo qualcosa, ma mi scosse Gildo". "Padre, non temere. Gesù e Maria sono con noi!".

    Inizia così il cammino di fede che porterà al martirio Davide Okelo e Gildo Irwa, due giovani neo-cristiani. Era la festa di Ognissanti - I° novembre 1917 - a Kitgum - in territorio Acholi nel nord Uganda.

    Davide Okelo e Gildo Irwa sono due catechisti molto giovani, da poco convertiti al cristianesimo, battezzati il 6 giugno 1916 e cresimati il 15 ottobre dello stesso anno. Sono legati da una profonda amicizia e dall'entusiasmo giovanile di una comune missione, quella di insegnare la religione cristiana ai loro connazionali. Antonio, catechista di Paimol, è morto e Davide, suo fratello, chiede al P. Gambaretto se ha uno da mandare al suo posto. "Non ho nessuno', è la risposta. Il giorno dopo Davide si presenta con Gildo e gli dice "Padre, se vuoi, andiamo noi due a Paimol". P. Cesare resta sorpreso, espone loro le difficoltà reali di Paimol e cerca di dissuaderli. Poi, come per guadagnare tempo, dice:"Venite domani. Vedremo". I due si presentano il giorno seguente con le loro stuoie e coperte, pronti a partire.

    Era risaputo che la regione attorno a Paimol era in subbuglio. La Gran Bretagna usava le maniere forti per imporre il suo Protettorato e obbligava gli uomini a turni di lavoro forzato, provocando forti reazioni tra la gente.

    I Missionari Comboniani, arrivati nel 1915 nella zona Acholi di Kitgum nel Nord Uganda, erano impegnati nel lavoro di evangelizzazione, coadiuvati da alcuni catechisti nella prima istruzione cristiana dei catecumeni nelle zone non ancora raggiunte dal missionario. C'erano molte difficoltà, alcune create dalla prima guerra mondiale, altre dalla peste, dal vaiolo e dalla carestia. Per i responsabili della religione tradizionale (i cosiddetti stregoni), l'arrivo della nuova religione era la causa di tutte le disgrazie.

    Sorsero movimenti anticristiani e anticoloniali, promossi dagli stregoni e appoggiati da gruppi di rivoltosi locali (Adui) e da musulmani (Abas) che vedevano minacciati i loro commerci di avorio e di schiavi. Le lotte tribali intestine e le azioni di guerriglia contrastavano fortemente sia l'avanzata dello straniero dominatore che l'attività missionaria, e promuovevano il rigetto di tutto ciò che era "nuovo" rispetto agli usi e tradizioni del paese. La rivolta politica fu soffocata dalle autorità britanniche nel 1919.
    Ma nel frattempo Davide e Gildo erano stati uccisi il fine settimana tra il 18-20 ottobre 1918, martiri della fede in Cristo.

    A Paimol Davide e Gildo condividevano la stessa capanna. Testi oculari riferiscono:"Facevano solo il loro dovere di insegnare il catechismo"."Io pure - afferma un altro testimone - andai da loro per essere istruit o nel catechismo. Si comportavano bene e tutta la gente voleva loro bene". Un catechista che insegnava in un villaggio vicino a Paimol ha lasciato una bella testimonianza del loro servizio. "Non c'era alcuna cosa; cattiva nel loro lavoro. I ragazzi andavano volentieri da loro. E tutta la gente del villaggio, senza eccezione, li amava per il bene che facevano, poiché essi inse-~ gnavano ai ragazzi e procuravano che fossero puliti. Le mamme erano assai contente dei catechisti che) aiutavano i loro ragazzi e anche i papà erano contenti. Erano totalmente dediti all'adempimento del loro dovere, finché non li uccisero senza che avesser commesso alcunché di male. Morirono nell'adempimento esatto del loro insegnamento".

    Furono trafitti con le lance da Okidi e Opio, due Adu (rivoltosi che avevano preso le armi contro i cap imposti dalle autorità coloniali). Prima di ucciderli cercarono di convincere Davide e Gildo a lasciare i paese e I'insegnamento del catechismo e tornarsene a loro villaggi. Avrebbero avuto salva la vita. Rifiutarono. A Gildo fu fatto cenno di fuggire. Ma egli rispose: "Abbiamo lavorato nella stessa opera se è necessario morire, bisogna morire insieme". Quando furono portati fuori del villaggio per esser trucidati, Davide piangeva. Fu rassicurato dal piccol Gildo "Perché piangi. Muori senza motivo; non ha fatto male a nessuno". Era poco prima dell'alba del fine settimana 18-20 ottobre 1918. Davide Okelo aveva 16-18 anni e Gildo Irw 12-14 anni. Alcuni missionari considerarono da subito la morte dei due giovani non solo come conseguenza dell'odio verso lo straniero, ma soprattutto del rigetto della nuova religione. Anche la gente di Paimol espresse la stessa convinzione e venerazione per i suoi martiri. Le testimonianze raccolte tra i cattolici, i protestanti e i pagani di Paimol, tra i quali c'era anche uno degli uccisori, parlano chiaramente di martirio. Parlano di due giovanissimi catechisti africani che si offronospontaneamente al servizio dell'evangelizzazione e sacrificano volontariamente la vita piuttosto che rinnegare la fede e fuggire davanti ai loro uccisori.

    Il 23 aprile 2002 il Papa ha dato il suo assenso a questa visione della storia di Davide e Gildo, li ha riconosciuti martiri e li ha proposti alla venerazione dei fedeli.

    La beatificazione è avvenuta in Piazza S. Pietro il 20 ottobre 2002, Giornata Missionaria Mondiale.

    Il ruolo del Catechista oggi

    La storia dell'avvento e della crescita del cristianesimo in Uganda si imbatte da subito nella figura del catechista, la persona che ha avuto il ruolo più importante nella diffusione della parola di Dio nei villaggi e nelle comunità cristiane. In effetti i catechisti hanno rappresentato, e tuttora rappresentano, il più stretto legame tra i sacerdoti e le piccole comunità, perché essi vivono tutto il tempo con la gente e altrettanto bene conoscono i luoghi dove abitano.

    Anche oggi continuano ad essere indispensabili nella crescita e nel sostegno delle parrocchie e delle cappelle. Infatti garantiscono il contatto immediato con la gente del posto e l'organizzazione del lavoro pastorale nelle loro comunità. Senza di loro, i sacerdoti troverebbero veramente arduo poter condurre avanti il lavoro pastorale nelle loro parrocchie. I catechisti quindi, tanto sono vitali per la comunità cristiana, quanto sono i riconosciuti leaders del loro popolo: insomma punto di riferimento in ogni tempo ed evenienza.

    Si capisce allora che in questa parte del paese, concretamente nell'Arcidiocesi di Gulu, tra il 1986 e il 2002, almeno 66 abbiano perso la vita nell'esercizio del loro ministero. La drammaticità dei numeri non scoraggia però lo sforzo intrapreso per la loro formazione. Al momento, 630 di loro sono attivamente presenti sul campo.


    http://santiebeati.it/dettaglio/91201


    Beato Gildo (Jildo) Irwa Catechista martire ugandese
    18 settembre
    m. 18-20 ottobre 1918



    Beati DAUDI OKELO e JILDO IRWA

    Non avevano neanche 18 anni, per la precisione 16 anni Daudi Okelo e 13 anni circa Jildo Irwa, i due giovanissimi catechisti ugandesi, che il papa Giovanni Paolo II ha beatificato il 20 ottobre in piazza S. Pietro.
    Significativamente il loro stendardo che li raffigurava, scendeva dalla loggia centrale della basilica al centro della sfilata di stendardi di altri sei nuovi beati; sono i primi catechisti africani saliti agli onori degli altari.
    I missionari comboniani fondati in Italia dal beato Daniele Comboni, tentarono più volte dal 1878 al 1915 di giungere nella Regione del Nord Uganda, ben tre spedizioni fallirono, finché nel 1915 i primi missionari giunsero prima a Gulu e poi a Kitgum dove stabilirono delle missioni e a quella di Kitgum appartenevano i villaggi natali di Daudi Okelo e Jildo Irwa e soprattutto il luogo del loro martirio, il villaggetto di Mutu.
    Essi appartengono al popolo Acholi, l’etnia più numerosa e geograficamente più consistente del Nord Uganda; l’ambiente, il luogo e il tempo in cui nacquero e vissero i due giovani, era quello tradizionale dell’Africa degli inizi del secolo, con le sue strutture immemorabili, che dovevano fare i conti con una presenza straniera inglese sempre più incombente, con i protestanti e per ultimi, i missionari cattolici.
    Daudi nacque nel 1902 ca. nel villaggio di Ogom-Payra da genitori pagani, fu tra i primi a contattare i missionari e venne battezzato il 6 giugno 1916, il missionario padre Gambaretto lo descrive come un giovane serio e timido, sul quale influì positivamente il fratellastro Antonio, cristiano esemplare.
    Jildo Irwa invece era più giovane, nato non oltre il 1906 a Labongo Bar-Kitoba, fu battezzato e cresimato nel 1916 insieme a Daudi, di lui diceva il padre, che preferiva passare i suoi giorni alla missione con i Padri e ritornava talora a visitare i suoi ad aiutarli nel lavoro dei campi. Padre Gambaretto lo ricorda come un ragazzo gioviale, gentile e dotato di bella intelligenza.
    I missionari tendevano ad istruire catechisti del luogo, per una più efficace propagazione della dottrina cristiana; Daudi aveva in famiglia già il fratellastro Antonio che era catechista a Paimol; non si sa bene il perché ma Antonio morì, forse ucciso, e Daudi andò a Paimol a raccogliere le poche cose personali rimaste, verso la fine del 1916 inizi del 1917, proponendo poi ai padri di sostituirlo.
    Un anno dopo fu scelto Jildo per affiancare Daudi che era rimasto solo a fare il catechista a Paimol; i genitori e gli stessi missionari però erano incerti di mandarlo, così piccolo (12 anni) in un posto distante 80 km, in situazioni sociali difficilissime per la presenza di rivoltosi locali ed elementi musulmani (Abas) procacciatori di oro bianco (avorio) e oro nero (schiavi).
    I due giovanetti insistirono per restare insieme e rispondendo che se li avessero ammazzati sarebbero andati in paradiso, già c’era andato anche Antonio. La loro situazione nel villaggio di Mutu dove erano stati destinati, per un anno andò bene, operavano discretamente, visitando i fedeli, insegnando con semplicità il catechismo e lavorando nei campi per sostenersi, tra la stima e il benvolere di tutti.
    Ai primi del 1918 la situazione cambiò, per lotte che si instaurarono fra il capo del villaggio accusato di nascondere armi dagli inglesi, ma poi liberato perché innocente e il capo che nel frattempo era stato imposto; lo scontro fu alimentato da mercanti musulmani e rivoltosi locali e trasformato abilmente dagli stregoni in scontro antireligioso.
    Il capo catechista Bonifacio arrivato a Paimol si rese conto che la situazione stava precipitando, costatando un astio contro la nuova religione, mai prima di allora avvertito; quindi suggerì ai due giovani catechisti di fuggire, cosa che fece anche lui; sarà un testimone d’eccezione del loro martirio.
    I giovani furono sollecitati a tornare al loro villaggio, ma Daudi rispose che loro stavano là per insegnare al popolo la religione, compito che avrebbe svolto con chiunque fosse stato a capo del villaggio, erano stati collocati lì dal Signore e solo Lui poteva rimuoverli; così Daudi fu ucciso, allora Jildo disse “ se avete ucciso lui, perché lasciate stare me? Anche io sono insegnante di religione” allora fu preso e ucciso anche lui.
    Dopo la loro uccisione avvenuta fra il 18 e il 20 ottobre 1918, si scatenò una reazione violenta contro chiunque fosse cristiano o portasse segni religiosi; l’odio alla fede che era stato abilmente nascosto, poteva ora manifestarsi senza freni.
    Successivamente negli anni la Comunità cattolica locale ugandese ritrovò la sua fede, stringendosi attorno alle figure dei due martiri, perché di martiri si tratta, essi pur essendo giovani da così poco tempo convertiti e destinati ad una vita cariche di promesse per il futuro, affrontarono le ore che precedettero la loro morte con fortissima determinazione e con una fedeltà veramente stupefacente.
    Essi vanno ad aggiungersi a quella schiera di santi e beati, che stanno onorando l’Africa cattolica in tutti i campi, compreso il martirio.


    (Una diversa versione della biografia dei due martiri e' disponibile nella scheda agiografica del Beato Davide (Daudi) Okelo).


    Autore:
    Antonio Borrelli



    http://www.santiebeati.it/search/jump.cgi?ID=91202


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    Servo di Dio Gustavo Maria Bruni Fanciullo
    Senza data
    Torino, 6 maggio 1903 – 10 febbraio 1911


    Essere santi non è un privilegio di pochi, ma una meta per tutti, senza limiti di età o condizione sociale, i ragazzi e gli adolescenti in particolare, non sono mai mancati nella storia della santità cristiana, anche se per un lungo periodo, la Chiesa non ha preferito proclamare santi o beati dei fanciulli o adolescenti.
    Poi, sia pur con molta cautela, si è dato il via ai processi per la beatificazione e santificazione di bambini e adolescenti, che hanno vissuto la loro breve vita nell’innocenza, nella santità, nell’immolazione di vittime, di testimoni o prescelti di fatti prodigiosi.
    Ed ecco sulla scia dei Santi Innocenti, vittime di Erode, della beata Imelda Lambertini (1320-1333) di Bologna, morta di desiderio dell’Eucaristia, dei beati Francesco e Giacinta Marto veggenti di Fatima, di s. Domenico Savio oratoriano di don Bosco, di s. Maria Goretti, martire della purezza; altri ragazzi e adolescenti hanno intrapreso la lunga strada del riconoscimento ufficiale della Chiesa delle loro virtù vissute eroicamente in rapporto alla loro età.
    Ne citiamo alcuni: Venerabile Mari Carmen Gonzalez-Valerio, bambina di 9 anni spagnola; venerabile Maggiorino Vigolungo 14 anni, aspirante paolino; servi di Dio Silvio Dissegna 12 anni di Moncalieri, Angela Iacobellis 13 anni di Napoli, Angelo Bonetta 13 anni di Cigole (Brescia), Giuseppe Ottone 13 anni di Torre Annunziata (NA), ecc. e tantissimi altri definiti “Testimoni del nostro tempo”, dei quali non esiste procedura in corso, ma tutti insieme, con la loro breve vita e santa morte, hanno trasmesso in vari modi e con il loro esempio, dei messaggi spirituali al distratto, convulso, frettoloso, mondo dei giovani di oggi.
    E a Torino nacque uno di questi fiori di santità precoce, il 6 maggio 1903; si chiamava Gustavo Maria Bruni e la sua esistenza fu brevissima, quasi 8 anni, ma talmente intensa spiritualmente, tale da suscitare l’interesse, l’ammirazione e la venerazione dei suoi contemporanei; con l’interessamento della Società Salesiana la devozione per il piccolo Gustavo Maria Bruni, è giunta lungo un secolo fino a noi.
    In quella piccola anima, era presente visibilmente l’Amore di Dio, perché non si spiega che già in età tenerissima (3 anni) Gustavo già faceva intendere di ricevere Gesù, con richieste innocenti e non capricciose, specie quando era condotto in chiesa dai religiosissimi genitori.
    Ed era ancora un bambino, sei anni, quando nel 1909, il beato Michele Rua, successore di don Bosco, dal 1888 alla guida della Società Salesiana, lo ammise a ricevere la Prima Comunione nella chiesa dell’Oratorio.
    Da quel giorno di autentico paradiso, tutti i suoi pensieri, tutti i suoi atti, tutte le sue parole, rivelavano l’amore che egli nutriva per Gesù.
    Era tale l’ardore della sua anima, che parlava con tutti di Gesù, desiderando di diventare presto sacerdote, cosicché avrebbe potuto comunicare Gesù alle anime.
    Gustavo Maria Bruni, fu ed è conosciuto come il “Piccolo Serafino di Gesù Sacramentato”; è un dono che si riceve nel tempo e nella compenetrazione del mistero, ma ad alcuni bambini è dato di amare angelicamente già nella loro tenera età, come la già citata beata Imelda Lambertini, che tanto desiderò di ricevere Gesù Eucaristia, da morirne inginocchiata nel banco della chiesa.
    Gustavo faceva parte dell’Associazione dei ‘Piccoli Serafini di Gesù Sacramentato’ per l’adorazione quotidiana; di carattere gioviale e vivacissimo, amava tutti con grande trasporto, si privava di qualsiasi cosa da donare agli altri con generosità, come pure sapeva essere riconoscente per ogni servizio ricevuto.
    La mano di Dio lo provò con molte sofferenze; si era in un’epoca in cui le malattie spesso erano inguaribili, perché tanti medicinali non erano stati ancora scoperti ed i ragazzi erano colpiti come e più degli adulti, la mortalità infantile era enorme.
    La sofferenza vissuta da ragazzi e adolescenti è straziante, perché oltre il dolore, è visibile una vitalità, tipica dell’età, compressa e bloccata dal male e dallo stare a letto, inoltre in tanti colpisce la serenità e l’accettazione della volontà di Dio, a volte difficile a trovarsi negli adulti.
    E tale fu la malattia per il piccolo Gustavo Maria Bruni, sopportata con forza e rassegnazione, tale da far meravigliare anche i più allenati nella via della perfezione; morì santamente il 10 febbraio 1911, edificando tutti, genitori, parenti e quanti l’avevano visitato nel suo piccolo Calvario.
    Venti giorni prima del suo trapasso, il beato Filippo Rinaldi, allora Prefetto Generale della Pia Società Salesiana, che l’assisteva da tempo, dichiarò: “Il nostro Gustavo, ha raggiunto il più alto grado della perfezione cristiana”.
    Questa autentica dichiarazione dell’esperto direttore di anime, contiene la sintesi luminosa della breve vita terrena di Gustavo, nella luce della sua esemplare santità e del suo soave Apostolato Eucaristico, che suscitò poi tante vocazioni sacerdotali e religiose; procurando con le sue grazie varie Borse Eucaristiche di studio in loro favore.
    I suoi funerali furono il trionfo dell’innocenza e la sua tomba nel cimitero di Torino, diventò meta di visite devote. Su di lui fu scritta una biografia di ben 200 pagine, a cura del salesiano don Anziani, tradotta nelle principali lingue propagò nel mondo la fama di santità del Piccolo Serafino.


    Autore:
    Antonio Borrelli



    http://santiebeati.it/dettaglio/92699


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    Beata Laura Vicuna Vergine
    22 gennaio
    Santiago del Cile (Cile), 5 aprile 1891 - Junin de los Andes (Argentina), 22 gennaio 1904


    Laura del Carmen Vicuna, questo il suo nome completo, nacque nella capitale cilena, Santiago, il 5 aprile 1981,primogenita di José Domingo e di Mercedes Pino. La città era attraversata da tensioni politiche e militari ed a causa di ciò fu necessario atendere quasi due mesi per procedere alla celebrazione del suo battesimo, che ebbe luogo il 24 maggio successivo. Tra gli antenati di Laura figuravano parecchi personaggi illustri e per tal motivo la rivoluzione imperante si scagliò anche sulla famiglia di Laura. Il padre fu forzatamente costretto all’esilio e dovette trasferirsi verso sud, alla frontiera con l’Argentina sulle Ande. L’intera famiglia traslocò dunque a Temuco. La famiglia si ritrovò repentinamente in una triste situazione di precarietà a seguito della morte del padre avvenuta nel 1893. Alcuni mesi dopo, l’anno successivo, nacque una seconda bambina, Giulia Amanda. La madre si ritrovò così sola con due figlie a dover vincere la fame e la disperazione.
    Nel 1899 il residuo nucleo familiare si trasferì nella vicina regione argentina del Neuquén. La madre potè così trovare lavoro nella tenuta agricola di Manuel Mora, uno dei tanti colonizzatori che avevano intrapreso lo sfruttamento dei terreni incolti della Patagonia. In seguito a pressioni subite dal datore di lavoro, ne divenne la compagna. Ciò conseguentemente influì purtroppo negativamente sull’educazione delle due bambine. Laura, seppur ancora piccola, si rese conto della precarietà e dell’irregolarità dal punto di vista religiosa della mamma, che in tal modo non poteva essere ammessa ai sacramenti.
    Nonostante ciò la mamma non abbandonò mai completamente le figlie e tentò nei limiti del possibile di educarle anche religiosamente. Al fine di assicurare loro un’istruzione adeguata e continua, le affidò nel gennaio 1900 ad un piccolo collegio missionario tenuto dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, situato a Junin de los Andes ai confini con il Cile, patria natia di Laura.
    Di quest’ultima, nel consegnarla alla superiora, la madre assicurò: “Non mi ha mai dato dispiaceri. Fin dall’infanzia è stata sempre obbediente e sottomessa”.
    Repentinamente catapultata in questo nuovo ambiente, Laura si trovò comunque subito a proprio agio. Il suo animo fu tempestivamente conquistato dalle verità evangeliche infusele mediante la catechesi e ciò la portò a rendersi maggiormente conto della contrarietà della situazione di convivenza della madre rispetto alla legge divina. Il 2 giugno 1901 potè ricevere la prima Comunione, ma in tal giorno divenne ancor più profonda la sua sofferenza nel vedere la mamma non accostarsi ai sacramenti. Non potè dunque astenersi dal pregare intensamente per la pacifica conclusione di tale relazione. Purtroppo la sua speranza non ebbe compimento, ma ciò non toglie che questa esperienza fu decisiva nel provocare una grande svolta nella sua vita, che fu così descritta: “Notammo in lei da quel giorno un vero e solido progresso”.
    Il giorno della prima Comunione scrisse alcuni propositi, molto simili a quelli del santo allievo di don Bosco, Domenico Savio: “O mio Dio, voglio amarti e servirti per tutta la vita; perciò ti dono la mia anima, il mio cuore, tutto il mio essere. Voglio morire piuttosto che offenderti col peccato; perciò intendo mortificarmi in tutto ciò che mi allontanerebbe da te. Propongo di fare quanto so e posso perché tu sia conosciuto e amato, e per riparare le offese che ricevi ogni giorno dagli uomini, specialmente dalle persone della mia famiglia. Mio Dio, dammi una vita di amore, di mortificazione, di sacrificio”.
    Con questi propositi Laura si abbandonò totalmente al Signore pur di ottenere la conversione di sua madre e le Figlie di Maria Ausiliatrice non tardarono a comprendere di trovarsi dinnanzi ad una bambina eccezionale.
    Sin dal suo primo anno di permanenza nel collegio si distinse per la volenterosa applicazione nello studio e per l’intensità della sua vita interiore. Dall’8 dicembre 1900 si iscrisse alla Pia Unione delle Figlie di Maria.
    Nel secondo anno le sorelle Vicuna furono mandate in vacanza dalla madre, ma Laura restò negativamente scossa dall’impatto con il suo convivente. Era sofferente fin nel più profondo della sua intimità, ma ciò non traspariva se non nei momenti di maggiore amarezza. Una di queste occasioni fu per esempio la mancata partecipazione della mamma alla missione popolare che fu predicata a Junin de los Andes. L’anno successivo le due sorelle raggiunsero nuovamente la mamma a Quilquihué nel periodo delle vacanze. Mora esternò un eccessivo interesse nei confronti di Laura, la quale se ne accorse prontamente e si cinse come di una corazza di ferro per combatterne i malvagi propositi. Questi reagì crudelmente e si vendicò rifiutandosi di pagare la retta del collegio. Mossa da pietà e comprensione la direttrice accolse ugualmente le due bambine.
    Il 29 marzo 1902 le due sorelline ricevettero la cresima, presente la madre che però perseverò nell’astensione dai sacramenti. In tale occasione Laura fece richiesta di poter essere ammessa tra le postulanti delle Figlie di Maria Ausiliatrice, ma ottenne una risposta negativa a causa della situazione familiare. Dovette dunque rassegnarsi, senza però desistere dal suo intento.
    Il mese successivo, infatti, emise privatamente i voti di castità, povertà ed obbedienza, consacrandosi così a Gesù ed offrendogli la propria vita. Verso fine anno iniziò a manifestarsi in Laura un leggero deperimento fisico.
    Trascorse l’intero anno successivo rinchiusa nel collegio e nel settembre 1903 non riuscì neppure a prendere parte agli esercizi spirituali, tanto era diventata cagionevole la sua salute. Tentò un cambiamento climatico, tornando dalla madre, ma ciò non si rivelò alquanto salutare. Allora tornò a Junin e vi si trasferì anche la madre, alloggiando però privatamente.
    Nel gennaio 1904 giunse in visita il Mora, con il proposito di trascorrere la notte nella medesima abitazione. “Se egli si ferma qui, io me ne vado in collegio dalle suore” minacciò Laura scandalizzata, e così dovette fare seppur stravolta dal male. Mora la inseguì e, raggiuntala, la percosse violentemente lasciandola traumatizzata. Giunta poi in collegio si confessò dal suo direttore spirituale, rinnovando l’offerta della propria vita per la conversione della madre.
    Il 22 gennaio ricevette il Viatico e quella sera fece chiamare la madre per trasmetterle il suo grande sogno: “Mamma, io muoio! Io stessa l’ho chiesto a Gesù. Sono quasi due anni che gli ho offerto la vita per te, per ottenere la grazia del tuo ritorno alla fede. Mamma, prima della morte non avrò la gioia di vederti pentita?”. Questa le promise allora di cambiare completamente vita. Laura potè allora spirare serenamente dopo aver pronunciato queste ultime gioiose parole: “Grazie, Gesù! Grazie, Maria! Ora muoio contenta!”
    In occasione del funerale la mamma tornò ad accostarsi ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia.
    La tomba di Laura è collocata nella cappella del Collegio Maria Ausiliatrice di Bahia Blanca, in Argentina, dove è metà di pellegrinaggi in particolare per le popolazioni cilena ed argentina.
    Venerata fin dalla sua morte, l’apertura della sua causa di canonizzazione avvenne solo il 19 settembre 1955, portando al riconoscimento delle virtù eroiche ed al conferimento del titolo di “venerabile” il 5 giugno 1986.
    A seguito del riconoscimento ufficiale di un miracolo avvenuto per sua intercessione, Laura del Carmen Vicuna, poema di candore, di amore filiale e di sacrificio, fu beatificata dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II il 3 settembre 1988 sul Colle delle beatitudini giovanili, presso Castelnuovo Don Bosco. Il nuovo Martyrologium Romanum la commemora dunque il giorno della sua morte, nel quale è fissata anche la sua memoria liturgica per la Famiglia Salesiana.
    Con il riconoscimento di un ulteriore miracolo, verificatosi dopo la beatificazione, Laura potrà essere la più giovane santa non martire della storia della Chiesa.

    PREGHIERA PER LA CANONIZZAZIONE

    Concedimi, Signore, nella tua immensa bontà e misericordia,
    le grazie che fiduciosamente imploro per intercessione di Laura Vicuna,
    eletto fiore di santità sbocciato sulle Ande Patagoniche.
    Della sua tenera esistenza la Tua grazia fece un modello
    di pietà, di obbedienza, di vittoriosa purezza; l’ideale della Figlia di Maria;
    la vittima nascosta e gradita dell’amor filiale più sollecito e fecondo.
    Degnati, pertanto, di esaltare anche in terra l’emula di Agnese, Cecilia e Maria Goretti:
    e fa che alla luce dei suoi esempi si accresca il numero
    delle giovani forti nel combattimento spirituale e pronte al sacrificio,
    per la Tua gloria, la gloria dell’Immacolata e i trionfi della chiesa.

    PREGHIERE PER OTTENERE GRAZIE

    Ci rivolgiamo a te, Laura Vicuna, che la Chiesa ci propone
    come modello di adolescente, coraggiosa testimone di Cristo.
    Tu che sei stata docile allo Spirito Santo e ti sei nutrita di Eucaristia,
    concedici la grazia che con fiducia ti domandiamo…
    Ottienici fede coerente, purezza coraggiosa, fedeltà al dovere quotidiano,
    fortezza nel vincere le insidie dell’egoismo e del male.
    Fa che anche la nostra vita, come la tua, sia totalmente aperta alla presenza di Dio,
    alla fiducia in Maria e all’amore forte e generoso verso gli altri. Amen.

    O beata Laura Vicuna,
    tu che hai vissuto fino all’eroismo la configurazione a Cristo
    accogli la nostra fiduciosa preghiera.
    Ottienici grazie di cui abbiamo bisogno…
    E aiutaciad aderire con cuore puro e docile alla volontà del Padre.
    Dona alle nostre famiglie pace e fedeltà.
    Fa che anche nella nostra vita, come nella tua,
    risplendano fede coerente, purezza coraggiosa,
    carità attenta e sollecita per il bene dei fratelli. Amen.

    PREGHIERA

    Signore nostro Dio,
    ti lodiamo per i doni di grazia che hai effuso
    nell’anima dell’adolescente Laura Vicuna.
    Glorifica questa tua fedele serva
    E fa che il suo cammino di fede coerente,
    di purezza coraggiosa, di eroismo nella carità filiale
    sia per le giovani di oggi richiamo efficace
    all’impegno di vita cristiana.
    Concedi a noi le grazie che per sua intercessione ti domandiamo
    e dona alle famiglie la pace e l’unione,
    frutto del vero amore. Amen.

    COLLETTA

    Padre d'immensa tenerezza,
    che nell'adolescente Laura Vicuña
    hai unito in modo mirabile
    la fortezza d'animo e il candore dell'innocenza,
    per sua intercessione
    donaci il coraggio di superare le prove della vita
    e di testimoniare al mondo la beatitudine dei puri di cuore.
    Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
    e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo,
    per tutti i secoli dei secoli. Amen.


    Autore:
    Fabio Arduino



    http://santiebeati.it/dettaglio/38450




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    Santa Maria Goretti Vergine e martire
    6 luglio - Memoria Facoltativa
    Corinaldo (Ancona), 16 ottobre 1890 - Nettuno, Roma, 6 luglio 1902


    Dopo il gran numero di vergini martiri, del lontano tempo delle persecuzioni contro i cristiani, che oltre a rifiutare l’adorazione degli idoli, rifiutavano soprattutto le offerte ed i desideri sessuali dei loro carnefici, come ad esempio s. Lucia, s. Agata, s. Cecilia, s. Agnese, ecc. ci fu un lungo tempo in cui nella Chiesa non comparvero figure eclatanti di martiri per la purezza.
    Ma nel nostro tempo la Chiesa ha posto sugli altari figure esemplari di giovani donne e adolescenti, che nella difesa della virtù della purezza, oggi tanto ignorata, persero la loro vita in modo violento, diventando così delle martiri.
    È il caso della beata Pierina Morosini († 1957) di Fiobbio (Bergamo); della beata Carolina Kozka († 1914) della Polonia; della beata Antonia Mesina († 1935) di Orgosolo (Nuoro); della Serva di Dio Concetta Lombardo († 1948) di Staletti (Catanzaro), ecc., prima di loro ci fu la dodicenne Maria Goretti, oggetto di questa scheda, beatificata nel 1947 e proclamata santa nel 1950 da papa Pio XII durante quell’Anno Santo.
    Forse ai nostri giorni parlare della difesa estrema della purezza, fa un po’ sorridere, visto il lassismo imperante, la sfrenatezza dei costumi, il sesso libero fra molti giovani; ma fino a qualche decennio fa la purezza era un bene e una virtù, a cui specialmente tutte le ragazze tenevano, come dono naturale da difendere e preservare per un amore più completo e benedetto dal sacramento del Matrimonio, oppure come dono da offrire a Dio in una vita consacrata.
    Con il riconoscimento ufficiale della Chiesa di questa forma di martirio, quello che fino allora poteva considerarsi, secondo il linguaggio di oggi, come uno stupro finito tragicamente per la resistenza della vittima, assunse una luce nuova di martirio, visto la personale spiritualità della vittima, il concetto di difesa della purezza come dono di Dio, il ribellarsi coscientemente fino alla morte; piace qui ricordare s. Domenico Savio che nella sua pura adolescenza, diceva: “La morte ma non il peccato”.
    In quest’ottica va inquadrata la vicenda terrena di Maria Goretti, nata a Corinaldo (Ancona) il 16 ottobre 1890 e battezzata lo stesso giorno, fu poi cresimata, secondo l’uso dei tempi in piccola età, il 4 ottobre 1896 quando il vescovo Giulio Boschi, giunse in visita pastorale nel paesino.
    Nel 1897, i genitori Luigi Goretti e Assunta Carlini che avevano oltre la primogenita Maria, altri quattro figli, essendo braccianti agricoli e stentando nel vivere quotidiano con la numerosa famiglia, decisero di trovare lavoro altrove; mentre tanti compaesani tentavano l’avventura dell’emigrazione nelle Americhe, essi scelsero di spostarsi nell’Agro Pontino nel Lazio, che essendo infestato dalla malaria, pochissimi sceglievano di trasferirsi lì.
    Giunsero dapprima nella tenuta del senatore Scelsi a Paliano, come mezzadri insieme ad un’altra famiglia già residente i Serenelli, pure di origine marchigiana, composta solo da padre e figlio, essendo la madre morta da tempo.
    Poi i rapporti con il proprietario si guastarono, ed i Serenelli ed i Goretti dovettero lasciare Paliano e fortunatamente trovarono, sempre come mezzadri, un’altra sistemazione nella tenuta del conte Lorenzo Mazzoleni a Ferriere di Conca, nelle Paludi Pontine; zona che prima della bonifica, iniziata nel 1925 e completata soltanto nel 1939, fungeva da diga naturale fra la parte settentrionale e l’immenso acquitrino a sud; non era certamente un luogo salutare, perché d’estate era invaso dalle zanzare e dalla malaria; il chinino unico farmaco efficace, era soprattutto usato per scopo terapeutico, ma non serviva per lo scopo preventivo.
    Mentre i genitori si adoperavano nel lavoro massacrante dei campi, Maria accudiva alle faccende domestiche, tenendo in ordine la casa colonica e badando ai fratellini più piccoli. Dopo alcuni anni, il 6 maggio 1900, il padre non ritornò a casa, stroncato dalla malaria ai margini della palude, Maria aveva allora 10 anni; prese a confortare la mamma rimasta sola con la famiglia e con un lavoro da svolgere superiore alle sue forze; nonostante che il raccolto fosse buono quell’anno, la famiglia rimase in debito con il conte Mazzoleni dei diritti di mezzadria, di ben 15 lire dell’epoca.
    Il proprietario dopo aver invitato la madre a lasciare quel lavoro e la casa, perché era impossibile mantenere il rapporto lavorativo legato ad un mercato esigente e ad un raccolto abbondante e sicuro; ma dietro la disperata richiesta di mamma Assunta di restare, perché con cinque figli non aveva dove andare, il conte acconsentì purché nel rimanere si associasse ai Serenelli, che abitavano nella stessa cascina e coltivavano altri terreni.
    La soluzione sembrò ideale, i Serenelli padre e figlio coltivavano i campi e Assunta accudiva i figli e le due case, oltre ai lavori sull’aia; mentre Maria si dedicava alla vendita delle uova e dei colombi nella lontana Nettuno, al trasporto dell’acqua che non era in casa come oggi, alla preparazione delle colazioni per i lavoratori nei campi, al rammendo del vestiario.
    Non aveva più potuto andare a scuola, che già frequentava saltuariamente; era definita dalla gente dei dintorni “un angelo di figliola”; recitava il rosario, era molto religiosa come d’altronde tutta la famiglia.
    Aveva insistito di fare la Prima Comunione a meno di undici anni, invece dei dodici come si usava allora; con grandi sacrifici riuscì a frequentare il catechismo, e così nel maggio del 1902 poté ricevere la Santa Comunione.
    Fino ad allora la sua fu una vita di stenti, duro lavoro, sacrifici, poche Messe alle quali assisteva nella chiesa della vicina Conca, oggi Borgo Montello, ma che da giugno a settembre chiudeva, quando i conti Mazzoleni partivano per sfuggire alla malaria e alle zanzare che proliferavano con il caldo. Allora sacrificando ore al sonno, si recava a Messa a Campomorto distante parecchi km.
    Intanto i rapporti fra il Serenelli padre e Assunta Goretti si incrinarono, in quanto egli essendo vedovo fece ben presto capirle che se voleva mangiare lei e la sua famiglia, doveva sottomettersi alle sue richieste non proprio oneste.
    Siccome Assunta non era disposta a cedere, il Serenelli cominciò a controllare tutto, persino le uova nel pollaio e a passarle gli alimenti con il contagocce. Maria intanto giunta ai dodici anni, cominciava a svilupparsi nel fisico, diventando di bell’aspetto, ma il suo animo era semplice e puro e non aveva avuto tempo di sognare per il suo futuro, tutta presa ad aiutare nel lavoro, sostenere e incoraggiare la mamma, accudire i fratelli piccoli.
    Il figlio del Serenelli, Alessandro, aveva intanto raggiunto i 18 anni, di fisico robusto era l’orgoglio del padre, non solo perché sapeva lavorare sodo nei campi, ma cosa rara in quei tempi fra i contadini, sapeva leggere e scrivere; quando si recava in paese, ritornava sempre con qualche rivista poco raccomandabile, che portata in casa, suscitava le proteste di Assunta, ma il padre lo giustificava dicendo che doveva esercitarsi nella lettura.
    Alessandro ormai guardava Maria con occhi diversi da qualche anno prima e cominciava a cercare di avere degli approcci non buoni, insidiandola varie volte, sempre respinto dalla ragazza; un giorno fece apertamente delle proposte peccaminose e al rifiuto di Maria, temendo che ne parlasse in famiglia, la minacciò di morte se lo avesse fatto.
    Maria per non aggravare i già tesi rapporti fra le due famiglie, stette zitta, rimanendo meravigliata dalla situazione che non capiva, perché aveva sempre considerato Alessandro come un fratello. Il 5 luglio 1902 i Serenelli ed i Goretti erano intenti alla sbaccellatura delle fave secche e Maria seduta sul pianerottolo che guardava l’aia, rammendava una camicia del giovane Alessandro.
    Ad un certo punto questi lasciò il lavoro e con un pretesto si avviò alla casa; giunto sul pianerottolo invitò Maria ad entrare dentro, ma lei non si mosse, allora la prese per un braccio e con una certa forza la trascinò dentro la cucina che era la prima stanza dove s’entrava.
    Il racconto è dello stesso Alessandro Serenelli, fatto al Tribunale Ecclesiastico; Maria Goretti capì le sue intenzioni e prese a dirgli: “No, no, Dio non vuole, se fai questo vai all’inferno”. Ancora una volta respinto, il giovane andò su tutte le furie e preso un punteruolo che aveva con sé, cominciò a colpirla; Maria lo rimproverava e si divincolava e lui ormai cieco nel suo furore, prese a colpirla con violenza sulla pancia e lei ancora diceva: “Che fai Alessandro? Tu così vai all’inferno…”, quando vide le chiazze di sangue sulle sue vesti, la lasciò, ma capì di averla ferita mortalmente.
    Le grida della ragazza a malapena sentite dagli altri, fecero accorrere la madre, che la trovò in una pozza di sangue, fu trasportata nell’ospedale di Orsenico di Nettuno, dove a seguito della copiosa perdita di sangue e della sopravvenuta peritonite provocata dalle 14 ferite del punteruolo, i medici non riuscirono a salvarla.
    Ancora viva e cosciente, perdonò al suo assassino, dicendo all’affranta madre che l’assisteva: “Per amore di Gesù gli perdono; voglio che venga con me in Paradiso”; fu iscritta sul letto di morte tra le Figlie di Maria, ricevé gli ultimi Sacramenti e spirò placidamente il giorno dopo, 6 luglio 1902.
    Alessandro arrestato e condannato al carcere, già nel 1910 si era pentito e aveva sognato “Marietta”, come veniva chiamata, in Paradiso che raccoglieva fiori e glieli donava con il suo inconfondibile sorriso.
    Quando uscì dal carcere nel 1928, andò da mamma Assunta a chiederle perdono e in segno di riconciliazione
    si accostarono entrambi alla Comunione, nella notte di Natale di quell’anno.
    Il 31 maggio 1935 nella Diocesi di Albano si apriva il primo processo per la sua beatificazione, che avvenne come già detto, il 27 aprile 1947 con Pio XII, lo stesso papa la canonizzò il 24 giugno 1950, di fronte ad una folla immensa, dopo essersi congratulato con la madre, che ammalata e seduta su una sedia a rotelle, assisté al rito da una finestra del Vaticano.
    Il suo corpo di novella martire moderna, riposa nella cappella a lei dedicata, nel santuario della Madonna delle Grazie a Nettuno, custodito dai Padre Passionisti e meta di innumerevoli pellegrinaggi da tutto il mondo cattolico; la sua festa si celebra il 6 luglio.


    Autore:
    Antonio Borrelli



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    Beate Agnese Phila, Lucia Khambang e 4 compagne Protomartiri della Tailandia
    26 dicembre
    m. Songkhon (Thailandia), 26 dicembre 1940


    Il cristianesimo venne introdotto in Tailandia nel 1881 e nel 1940 i fedeli cattolici erano già settecento. Nei quattro anni successivi i missionari francesi furono costretti ad abbandonare il paese, in preda alla guerra tra Tailandia e l’allora Indocina francese. Come è solito in circostanze simili, venne considerata quale priorità l’unità nazionale ed invece “declassato” a pericolo il pluralismo religioso.
    Il villaggio di Songkhon, sito sulle rive del grande fiume Mekong alla frontiera con il Laos, fu teatro nel 1940 del glorioso martirio di sette cristiani indigeni: Filippo Siphong Onphitak, Agnese Phila, Lucia Khambang, Agata Phutta, Cecilia Butsi, Bibiana Khamphai e Maria Phon.
    Filippo Siphong Onphitak, padre di famiglia, guida della comunità cristiana di Songkhon in mancanza di un sacerdote, allo scatenarsi della persecuzione contro i cristiani fu attirato con l’inganno vicino al fiume Tum Nok e quindi ucciso a colpi d’arma da fuoco il 16 dicembre 1940 da un gruppo di gendarmi, primo indigeno tailandese a spargere il suo sangue per testimoniare la sua fede in Cristo.
    Scopo della presente scheda biografica è soffermarsi in particolar modo sulla vicenda delle sei donne a cui toccò la medesima sorte dieci giorni dopo, commemorate infatti in data odierna dal Martyrologium Romanum, che cita i santi ed i beati nei rispettivi anniversari della loro nascita al Cielo. Si presentano dunque sinteticamente alcune notizie su ciascuna delle sei beate:

    AGNESE PHILA religiosa
    Ban Nahi (Tailandia), 1909 - Songkhon (Tailandia), 26 dicembre 1940
    Agnese Phila (al secolo Margherita) era nata nel 1909 presso il villaggio pagano di Ban Nahi, figlia di Gioacchino Thit Son ed Anna Chum. La famiglia emigrò poi nel villaggio cristiano di Viengkhuk, ove la beata ricevette il Battesimo nel 1924. Sua madrina fu la zia della celebre Suor Lucia di Fatima. Il 7 dicembre fece il suo ingresso nella Congregazione delle Amanti della Croce presso Siengvang nel Laos. Due anni dopo al 26 novembre iniziò il postulandato ed il 10 novembre 1927 entrò col nome di Agnese nel noviziato, che culminò con la professione il 16 novembre 1928. Nel 1932 fu inviata come insegnante presso la scuola di Songkhon ove fu uccisa il 26 dicembre 1940.

    LUCIA KHAMBANG religiosa
    Viengkhuk (Tailandia), 22 gennaio 1917 - Songkhon (Tailandia), 26 dicembre1940
    Lucia Khambang nacque nel villaggio cristiano di Viengkhuk il 22 gennaio 1917, figlia di Giacomo Dam e Maria Mag Li. Fu battezzata il 10 marzo successivo, mentre il 4 giugno 1925, all’età di soli otto anni, ricevette il sacramento della Confermazione e ricevette per la prima volta la Santa Comunione. Il 3 settembre 1931 entrò poi nella Congregazione delle Amanti della Croce. Postulante per tre anni, iniziò il noviziato il 18 ottobre 1935 che durò due anni. Emanò la sua professione a Siengvang nel Laos il 15 ottobre 1937. All’inizio del 1940 fu inviata come maestra a Songkhon, ove fu uccisa il 26 dicembre 1940 a soli ventitrè anni di età.

    AGATA PHUTTA laica
    Bi Ban Keng Pho (Tailandia), 1881 - Songkhon (Tailandia), 26 dicembre 1940
    Agata Phutta nacque nel villaggio di Bi Ban Keng Pho nel 1881 da una famiglia pagana. Figlia unigenita, si convertì al cristianesimo ormai trentenne e fu battezzata e cresimata il 3 marzo 1918 a Siengvang. Essendo nubile, decise di prestare servizio nelle cucine delle missioni di Songkhon, Mong Seng, Pkasè e nuovamente Songkhon, ove risiedeva quando fu anch’essa uccisa il 26 dicembre 1940 a cinquantanove anni di età.

    CECILIA BUTSI fanciulla laica
    Songkhon (Tailandia), 16 dicembre 1924 – Songkhon (Tailandia), 26 dicembre 1940
    Cecilia Butsi, figlia di Amato Sinuen ed Agata Thep, nacque presso Songkhon il 16 dicembre 1924 e fu battezzata dopo soli due giorni. Addetta alla cucina della missione, era caratterialmente gioiosa e coraggiosa. Il giorno prima del martirio, durante una riunione dinanzi alla chiesa, si dichiarò cristiana nonostante le minacce di morte subite dalla polizia. Fu dunque uccisa il 26 dicembre 1940, appena sedicenne.

    BIBIANA KHAMPAI fanciulla laica
    Songkhon (Tailandia), 4 novembre 1925 - Songkhon (Tailandia), 26 dicembre 1940
    Bibiana Khamphai nacque a Songkhon il 4 novembre 1925, figlia di Benedetto Lon e Monica Di. Fu battezzata e cresimata dopo neppure due mesi il 28 dicembre. Adolescente dalla condotta irreprensibile, ottima cristiana, assidua nell’accostarsi ai sacramenti, frequentando la missione di Songkhon, fu anch’essa uccisa il 26 dicembre 1940, appena compiuti quindici anni di età.

    MARIA PHON fanciulla laica
    Songkhon (Tailandia), 6 gennaio 1925 - Songkhon (Tailandia), 26 dicembre 1940
    Maria Phon nacque a Songkhon il il 6 gennaio 1926 dai genitori Giovanni Battista Tàn e Caterina Pha. A soli sei giorni dalla nascita fu già battezzata e cresimata. Viveva con una zia di nome Maria e frequentava la locale missione. Particolarmente assidua all’Eucaristia ed agli altri sacramenti, fu anch’essa uccisa il 26 dicembre 1940, non avendo ancora compiuti quindici anni di età.

    Occorre però ora soffermarsi anche sull’insieme delle vicende che portarono queste donne cristiane tailandesi a spargere il loro sangue per Cristo.
    La sera successiva all’uccisione del catechista Filippo Siphong Onphitak la notizia si sparse a Songkhon, provocando una grande tristezza. I soldati, sperando nell’immediata conversione dei fedeli, non avevano però calcolato la presenza delle due religiose Agnese Phila e Lucia Khambang, le quali capirono che ben presto sarebbe venuto anche il loro momento di dare l’estrema testimonianza della loro fede.
    Lu cercò infatti con ogni mezzo di persuadere le suore ad abbandonare la loro religione, ma falliti i vari tentativi la sera di Natale convocò l’intero villaggio dinnanzi alla chiesa, per comunicare l’ordine ricevuto di distruggere la religione cristiana a costo di ucciderne i fedeli. Durante la notte le religiose scrissero allora una lettera a Lu dichiarandosi pronte a morire piuttosto che rinnegare Cristo. Lu tornò poi da loro nel primo pomeriggio chiedendo: “Allora, il vostro Dio, l’abbandonate, sì o no?”. Esse ribatterono: “No, non l’abbandoneremo mai”. Lu le invitò allora a scendere al fiume, ma Suor Lucia e Suor Agnese, capite le sue intenzione, preferirono essere fucilate al cimitero. Qui, inginocchiate contro un tronco d’albero, furono giustiziate con le giovani Cecilia, Bibiana e Maria.
    Furono dunque sepolte a Songkhon, ove furono poi solennemente traslati anche i resti di Filippo Siphong Onphitak, ritrovati solo nel 1959.
    La beatificazione di questi sette martiri tailandesi, è stata celebrata a Roma da papa Giovanni Paolo II il 23 aprile 1989, in seguito al riconoscimento del loro eroico martirio avvenuto il 1° settembre dell’anno precedente.
    Il martirologio ufficiale della Chiesa Cattolica commemora dunque separatamente al 16 dicembre il Beato Filippo Siphong Onphitak, mentre al 26 dicembre le Beate Agnese Phila e Lucia Khambang, vergini delle Sorelle Amanti della Croce, e le compagne Agata Putta, Cecilia Butsi, Bibiana Hampai e Maria Phon, rispettando così la coincidenza con i rispettivi anniversari del martirio.


    Autore:
    Fabio Arduino



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