Maurizio Blondet
29/03/2007
Mubarak ha vinto. O ha perso?
IL CAIRO - La buona notizia per Mubarak è che gli gli egiziani hanno approvato, al 75,9 %, la riforma costituzionale da lui voluta e che gli dà poteri dittatoriali ancora più forti.
La cattiva notizia è che, secondo gli stessi dati ufficiali, sono andati a votare solo 27 egiziani su cento, e secondo i partiti d'opposizione solo il 5%.
Poiché in Egitto non c'è il quorum minimo, Mubarak, formalmente, ha vinto.
Ma poiché tutti i partiti d'opposizione hanno chiamato la gente a boicottare il referendum, possono cantare vittoria: su 36 milioni di aventi diritto, i due terzi hanno obbedito al loro appello.
Il vice-presidente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Habibi, ha già dichiarato che il risultato è effetto di brogli presidenziali: «Falso al 100 %».
Per noi occidentali, il problema è di capire se Mubarak è indebolito da questa sua iniziativa, con cui intendeva rafforzare il suo potere.
Perché il dittatore egiziano, ex ufficiale d'aviazione, è un sicuro amico dell'Occidente, ed è un laico. E il suo tramonto può dare il potere in Egitto ai Fratelli Musulmani, ossia ai progenitori di tutti i fondamentalismi del Medio Oriente.
I Fratelli Musulmani sono così radicati nella società e nella storia (esistono dal 1928) che il regime, pur dichiarandoli illegali, li deve tollerare.
Nelle elezioni semi-libere del 2005 hanno avuto oltre il 20 % dei voti: oggi un deputato su cinque è un affiliato al movimento.
E non è che i «Fratelli» abbiano seguito solo fra le masse impoverite; inquadrano le corporazioni sindacali dei medici, degli avvocati, della buona borghesia professionale del Cairo.
Per contro Mubarak, nonostante i nerissimi capelli (tinti), ha 78 anni.
Proprio perché è un pragmatico e realista filo-occidentale, non ha mai scaldato i cuori delle masse. E' al potere dal 1981, quando successe ad Anwar Sadat massacrato dai terroristi musulmani e subito - data la situazione - emise leggi di emergenza che gli davano pieni poteri.
E ancora governa con quella «emergenza» di 26 anni fa.
Gli egiziani anche moderati speravano in un addolcimento di quei poteri d'eccezione, un modesto ritorno alla democrazia e alla libertà di stampa e d'associazione.
Invece il referendum di Mubarak dà poteri ancora più duri di arresto e sorveglianza alla polizia, con la motivazione della «lotta al terrorismo» (articolo 179).
Sottrae alla magistratura la supervisione dello spoglio elettorale (articolo 88), consentendo al regime qualunque manipolazione.
E dichiara illegali i partiti fondati sulla religione (articolo 5): una misura concepita apposta contro i Fratelli Musulmani, che dovrebbe impedire loro di presentare un candidato alle elezioni presidenziali del 2011.
Mubarak ha certamente voluto assicurare, per il 2011, la successione di suo figlio Gamal, che si sta creando un'immagine di tecnocrate liberale.
Ma la misura anti-islamista può essere facilmente aggirata, e lo dimostra il caso della Turchia: dove i militari dopo aver disciolto come fondamentalista il Partito del Benessere e messo in galera il suo fondatore, Recep Erdogan, si trovano oggi Erdogan primo ministro, vincitore delle elezioni a capo del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, che è lo stesso di prima, solo che oggi si dichiara «di ispirazione islamica», un po' come la DC nostrana si diceva «di ispirazione cristiana».
Per giunta, Condoleezza Rice ha criticato apertamente il referendum, e difatti ha sempre premuto su Mubarak perché aprisse l'Egitto alla democrazia.
Peccato che, per compiacere Israele, Washington abbia emarginato e reso irrilevante Mubarak come storico mediatore fra israeliani e palestinesi, e abbiano fatto perdere all'Egitto il prestigio di potenza regionale e Paese-guida dell'Islam moderato.
Ora gli americani si accorgono di aver indebolito un amico-dittatore ottantenne, la cui scomparsa avrà conseguenze imprevedibili nel «nuovo Medio Oriente» esacerbato dalle invasioni dell'Iraq e dell'Afghanistan e dall'aggressivo unilateralismo di Bush.
La situazione è così grave, che due esperti analisti USA, Joshua Stacher (Storia Araba all'università americana del Cairo) e Samer Shehata (Studi Arabi alla Georgetown University di Washington) consigliano a Bush di «cominciare ad ascoltare i Fratelli Musulmani».
Dopotutto, dicono, è il solo movimento fondamentalista che «non tiene a sua disposizione un braccio armato».
Non compie atti di terrorismo.
Non è catalogato come terrorista nella lista del Dipartimento di Stato che comprende Talebani, Hamas ed Hezbollah.
Insomma, il consiglio a Bush è di scegliere il male minore, visto quel che può succedere in Egitto dopo Mubarak.
E c'è del vero: i Fratelli Musulmani, un po' come il nostro PCI negli anni '60, sono «massimalisti» ed estremisti a parole, ma pragmatici nei fatti.
Come i nostri comunisti governavano regioni e colludevano con la DC, così la Fraternità Musulmana ha imparato a vivere nelle pieghe del regime e a colludere con lo status quo.
Il guaio è che, come il PCI anni '60 fu scavalcato a sinistra dalle Brigate Rosse che lo accusavano di parlare di rivoluzione ma di fare compromessi col capitalismo, anche i Fratelli Musulmani sono accusati dai jihadisti di doppiezza irreligiosa.
La Fratellanza non ha alcun controllo su Al Qaeda e movimenti similari, che predicano la guerra santa e senza quartiere.
Per questi terroristi veri, è un partito di vecchi: e il 50% della popolazione egiziana ha meno di 17 anni.
Giovani quasi tutti disoccupati, che ogni sera guardano su Al Jazeera le atroci immagini delll'occupazione dell'Iraq e dell'Afghanistan e covano sogni di vendetta.
Ecco cosa hanno guadagnato gli americani con la loro politica in Medio Oriente.
Come ha detto qualcuno, hanno dato un calcio ad un nido di vespe.
Maurizio Blondet