Dedicato a tutti i milanisti di questo splendido foro, siano essi di destra o di sinistra.

Il primo fu Claudio Borghi. Berlusconi forse ci pensa ancora, ogni tanto.
Da qualche parte, deve avere un catalogo dei rimpianti. A, b, c, d, e, f…: lo schedario di facce e parole. Ricordi. Tanti.
Quello dev’essere il primo. Claudio. Al Cav. non poteva non piacere uno così: se ne innamorò alla tv. La rabona: piede sinistro d’avanti e il destro dietro a colpire il pallone che pareva nascosto.
Non era ancora il presidente del Milan, l’8 dicembre del 1985. Chi è quello? Borghi. Aveva la maglia rossa dell’Argentinos Juniors. Indio magico e triste. Giocava da solo a Tokyo contro la Juventus nella Coppa Intercontinentale. Anche Agnelli fece la stessa domanda. Più veloce Silvio, però. Tre mesi dopo, Farina era scappato all’estero e il calcio era entrato in Fininvest.
Claudio era un nome già segnato: il Milan aveva un’opzione, come si diceva allora e oggi non si dice più. Il Cav. gli parlò personalmente e lo imbarcò per l’Italia quando aveva già comprato la squadra da un po’.
Gli fece fare il Mundialito: miglior calciatore. In tribuna il presidente accanto a Galliani: gomito, Adriano. Senza parole, tanto si capivano in fretta: Borghi era un affare.
Prima e ultima volta. Sacchi. Sacchi. Sacchi.
Brutta storia dover scegliere se vincere o se dare spettacolo. Poi perché? La filosofia del Cav. ha sempre previsto entrambi. Scartabella quell’archivio e trova la foto nella memoria. Quelle sere Milano sembrava magica: il Mundialito ha inventato il calcio d’estate.
C’erano sogni a San Siro: telecamere, spettatori, gol.
Bisogna esserci cresciuti con quelle immagini: il papà di tutti i trofei Birra Moretti e i trofei Tim, dei tre tempi e degli scudetti estivi. Lì vedevi il pallone del futuro: il Real, il Barcellona, i giocatori che uscivano dal Guerin e dall’Intrepido e diventavano veri.
Se lo ricorda per forza, il presidente. Claudio era stato un fenomeno.
Poi era pure uno che parlava poco. “Belucconi, belucconi. Il dottore, ecco. Sono contento che mi abbia voluto. Andrò in prestito al Como e l’anno prossimo sarò qui”. In testa il Cav aveva disegnato il modulo: Borghi-Gullit-Van Basten.
Arrigo era un rompicoglioni:
“Presidente, a noi Borghi non serve. Dobbiamo prendere Rijkaard”.
E sto Rijkaard era un campione, ma non era Claudio: la rabona l’aveva vista fare solo a Maradona. Però mica si dava torto a uno che aveva vinto lo scudetto. Qualche volta Berlusconi deve aver pensato di aver sbagliato. Sì, vabbè lui sceglie e non sbaglia, ma l’ha pensato. Dai. Poi lo sa che gli allenatori sono quello che sono, sempre. Liedholm, Sacchi, Capello, Tabarez, Terim, Ancelotti: non ce ne è uno perfetto.
Vecchi, dogmatici, permalosi, incompetenti, boriosi, testardi, persino comunisti.
A ognuno ha detto qualcosa. Forse la stessa storiella: “Non si parla mai del Milan di Berlusconi, ma di quello di Sacchi, di Zac, o di Ancelotti: però da anni sono io che faccio le formazioni”.
Secondo la leggenda, Nils nel 1986 non riuscì a frenarlo e alla fine cominciò a sfotterlo sul passato da giocatore ai salesiani.
“Ma si riesce a immaginare Liedholm che dice che io ero un centravanti da oratorio? Non è nel suo costume. Oppure si pensa che io me la prenda con Liedholm perché il Milan perde a Genova ai rigori e poi a Barcellona contro una squadra più avanti nella preparazione? Via, non scherziamo. Io a Barcellona ho detto, a livello tattico, solo una cosa: è la strada giusta quella di mirare sempre e comunque al possesso di palla? L’ho detta e aggiungo che Liedholm la pensa come me. Sapete qual è il mio timore? Di rivedere il Milan dell’ultimo campionato, di vedere che i nuovi giocatori, presi per sveltire il ritmo, si sono fatti condizionare dai vecchi. Il signor Liedholm mi dice che l’anno scorso non aveva gli uomini adatti. Adesso li ha, si è cercato di accontentarlo. Oggi come oggi, il Milan è perfettamente in regola coi programmi, nessuno vuole i risultati subito, nemmeno io. E ripeto quello che chiediamo al Milan: di far meglio dell’anno scorso, di dare il massimo come tecnica ma anche come cuore, di tornare in Europa, di far divertire il pubblico.
Il calcio è tifo, agonismo, ma anche spettacolo, e non si fa spettacolo coi passaggi all’indietro e di fianco”.

Arrigo gli diede la soddisfazione.
Però un giorno glielo disse chiaramente: “Non sa quanto la invidio, vorrei essere al suo posto”. Quello, faccia di bronzo, rispose: “Non sa quanto io vorrei essere al suo”.
Buona, ma fuori sincrono. Perché il Cav. avrebbe rinunciato a qualcosa nella vita per potersi sedere in panchina, per poter mettere in campo due punte, per ordinare ai suoi giocatori di tenere la palla e non buttarla. Per organizzare il giuoco, come dice lui arrotondando le parole.
E’ l’origine dei rimpianti pallonari del Berlusca, questa.
Bello essere il padrone, bello sapere che senza di te non ci sarebbe stato nulla, bello vedere vent’anni di videocassette e in ognuna trovare Baresi o Maldini che alzano una coppa. Bello tutto, ma incompleto.
“Chiudi, stringi, pressa. Dai, dai, dai”: lui avrebbe voluto una volta urlare tutto questo dal campo. Lo vorrebbe ancora. Vorrebbe chiamare una riserva, dirgli di riscaldarsi, mandarlo dentro e vederlo segnare. Il massimo.
Allora la panchina è una piccola ossessione confessata solo col sorriso della battuta.

Un po’ è colpa di Dell’Utri che lo lasciò nelle mani sbagliate. Era molti anni fa, epoca di una squadretta che si chiamava Torrescala e diventò Edilnord: Berlusconi sponsor e presidente. Allenatore l’amico Marcello.
Il campionato era quello Allievi: la Milano di sabbia e terriccio. Dell’Utri mollò e lasciò la panchina al suo secondo: era un ragazzo giovane, figlio di un giornalista. Silvio l’aveva incontrato in un circolo cattolico. “Dottor Berlusconi, le presento il mio Vittorio”. Zucconi, ecco.
Altro rimpianto. Che oggi il presidente legge Repubblica e si chiede perché dalle righe di Zuc esce veleno. Magari qualche volta gli avrà contestato la formazione: per sua stessa ammissione, Vittorio giocava con un 9-1. Una sola punta e tutti dietro a coprire un portiere che Zucconi ricorda soprannominato “Man de Merda”: era Massimo Nava, che oggi racconta la Francia sul Corriere della Sera. Il Cav. se la ricorda ancora l’Edilnord.
Al suo ex allenatore difensivista nel 1994 raccontò i flash del passato: “C’era solo uno bravo in quella squadra e si chiamava Radice”. Tredici anni fa sapeva già che Repubblica non lo amava. Sapeva anche che non era stato sempre così.
Nel 1986 aveva organizzato una conferenza stampa ad Arcore: la prima da presidente del Milan. Era finito il mercato. La Repubblica mandò Gianni Mura: “Giro del parco, verdissimo, rapida occhiata a un Rembrandt che dev’essere costato più di Bonetti, sfioramento di un sontuoso piano Steinway a coda i cui tasti non sono estranei al tocco alquanto professionale delle dita di Sua Emittenza, impeccabile colazione in piedi con apprezzata presenza di vini italiani poco noti e molto validi (‘è un settore che curo io’, diavolo di uno, le cose che riesce a fare in un giorno mi mettono in crisi), con la dolcezza di quest’aria di Brianza texana. Ci parla all’aperto, affondati in poltrone sul prato. A 360 gradi si parla, direbbe Berlusconi, prima di calcio, poi di tv, mescolando Donadoni e Craxi, Lèotard e Galbraith”.
Gli dovevano essere parsi dei complimenti, al Cav. Il Berlusconi del Milan era nuovo: piaceva a tutti, anche se molti adesso non sarebbero più disposti ad ammetterlo. C’era ironia. Come qualche mese prima. Sempre Mura, che raccontava il mercato del presidente.
Aveva appena fatto il primo acquisto: “Dario Bonetti. Primo acquisto non casuale, anzi Berlusconi dimostra chiaramente le sue simpatie politiche. ‘Adori Bettino’ è infatti l’anagramma del nuovo acquisto”. Bonetti era uno stopper. Praticamente l’anticalcio, secondo il presidente. Non ne ha più comprato uno per più di quindici anni. Tutto quello che aveva, tutto quello che voleva erano calciatori che lo facessero divertire. A lui piaceva atterrare con l’elicottero a Milanello e fermarsi a guardare.
Però non i fabbri: il tocco, anche in allenamento, la giocata. L’invenzione.
La prima volta che lo videro sorvolare il campo del Milan fu nella preparazione estiva del campionato 1986-87. La squadra era in ritiro a Vipiteno. C’era stata la presentazione all’Arena, qualche giorno prima: la squadra era arrivata planando sul vecchio stadio di Milano mentre suonava la cavalcata delle Valchirie. C’erano le majorette e i riflettori. C’era un presentatore. C’era tutto quello che c’è oggi, solo con 21 anni di anticipo. Troppo futuro per il passato. Scrissero di eccessi e di fantascienza, di manie e protagonismi.
A Vipiteno, il Berlusca atterrò su uno striscione dei Commandos Tigre.
Scese sul prato e si avvicinò alla squadra:
“Scusate se vi ho interrotto”.
C’erano tremila persone sulle tribunette:
“Questa atmosfera di festa è bellissima. Questo non è un pubblico, è un partito, c’è dentro qualcosa di più, la famiglia. Mi fa sorridere chi definisce hollywoodiane le nostre iniziative. La presentazione all’Arena fu un atto civile in un ambiente adatto con alcuni amici protagonisti di Canale 5 che sono milanisti. Quel colpo di teatro ci ha portato a 47 mila abbonamenti e ci ha messo per sempre sotto i riflettori”.

Da quella volta non s’è più fermato: l’elica sorvolava Carnago per scendere a Milanello e ripartire per Arcore. L’immagine sbiadisce: Van Basten che si ferma col presidente. Scherzano. Poi Gullit, Baresi, Baggio, Shevchenko.
Tutti in quell’archivio adesso. Perché con ognuno c’è un tocco di nostalgia:
Marco è durato troppo poco, Ruud è stato mollato troppo presto, Franco s’é giocato male la fiducia, Roby non è stato protetto abbastanza, Andriy ha tradito.
Il catalogo è un album con figurine che non si stracciano. C’è anche Gianluca Vialli, un altro grande desiderio rimasto in gola. Il Cav. lega pezzetti di storia.
Il Milan è il suo: ha delegato molto, ha strutturato, ha creato il marketing, la dirigenza, lo staff tecnico.
Però il meglio ha sempre cercato di tenerselo per sé: la sua azienda più divertente, il calcio. Allora quando ha potuto ha deciso tutto lui.
A Oscar Washington Tabarez scrisse un foglietto con le regole da seguire:
“Il Milan è diventato la squadra più prestigiosa del mondo attraverso le vittorie. La raccomandazione sul gioco spettacolare è stata realizzata, anche se non in modo costante”.
Lui voleva quello. L’ha sempre voluto. Poi c’era altro:
“I giocatori devono conoscere in anticipo le decisioni dell’allenatore. La comunicazione franca e tempestiva evita inutili tensioni. Attenzione alla vita, anche familiare, dei singoli…”.
Raccomandazioni, sempre:
“Anche il barista di Milanello deve rifiutare di servire una bevanda alcolica a un giocatore, se ne venisse richiesto, sapendo di compiere un’azione utile per la squadra”.
Con Tabarez non andò bene. Non era all’altezza il mister, forse. Comunque il concetto è valso per tutti. Se c’è, decide lui. Tutto.
I primi anni entrava anche nelle foresterie e nelle mense di Milanello:
“A me basta che i calciatori del Milan siano bravi calciatori, ma consapevoli del meccanismo d’identificazione che scatta in parte del pubblico, che li vuole eroi. Quanto alle crostate, mi piacciono molto, ma trovo strano che al menu dei calciatori non si applichino certe norme dietetiche. Tutto fa parte di un discorso d’immagine globale. Sarà una sciocchezza, ma a Barcellona, in uno stadio con 120 mila persone, i nostri giocatori avevano le tute nuove ma cinque della panchina, sotto la tuta, magliette vecchie e brutte. Sono dettagli, ma anche a quelli è giusto badare”.

La passione per il mercato, poi. I grandi colpi se li è fatti da solo: lo staff del Milan portò al presidente una videocassetta per osservare Van Basten. Dopo 30 secondi, dopo il replay di un gol in rovesciata, partì l’ordine di acquistarlo.
S’incontrarono nella notte tra il 19 e il 20 novembre del 1986, all’Amstel Hotel di Amsterdam. Era appena finita Olanda-Polonia, i dirigenti del Milan organizzarono una cena con Marco e Ruud. A lume di candela. Van Basten venne pagato un miliardo e 750 milioni alla scadenza del contratto con l’Ajax.
Con Papin lo stesso: volò lui in Francia per convincerlo.
Lentini uguale: lo fece prelevare in elicottero e portare ad Arcore. Poche parole per convincerlo. Gli disse semplicemente che non sarebbe stato uno dei tanti.
Allenatore per forza, allora. “Non credo ci sia nulla di sacrilego a intervenire nelle scelte tecniche. Se un uomo gestisce 34 mila dipendenti e ha successo, perché deve mettere in soffitta le proprie capacità di analisi?”.
Il modo di giocare del Milan per il Cav. non è mai stato solo pallone. L’ha sempre visto come una cosa diversa. Stile di vita: “Diventare la squadra più forte del mondo, cambiare la mentalità delle squadre di calcio, entrare in campo per vincere, senza tatticismi prudenti, imporre sempre il nostro giuoco. Far comportare i ragazzi come eroi positivi, secondo valori che si impongano all’ammirazione di tutti”.

Non ama perdere il Cav. Praticamente lo detesta. Però riesce ad ammettere la sconfitta.
Nell’ultimo derby con l’Inter l’ha fatto, ma lo fece pure quattordici anni fa, a Monaco. Finale di Coppa dei Campioni, contro il Marsiglia.
Un’altra notte di rimpianti, santo cielo. Bolì, il colpo di testa, Tapie paonazzo. Quando gli raccontarono che l’Olympique forse aveva fregato, non chiese la vittoria a tavolino:
“Eventualmente voglio giocarmi la finale con i Rangers”.
La sconfitta ha imparato a sopportarla dopo aver metabolizzato un altro capitolo col Marsiglia.
Quello della sera del Velodrome e delle luci spente, della telefonata con Galliani e dell’idea di abbandonare il campo.
“Un errore”, avrebbe detto poi.
Allora quella serata non è neanche un rimorso. Baggio sì, invece.
Quando lo prese, il Cav. disse d’aver realizzato un sogno: “Ci eravamo dati appuntamento, come tra fidanzati. Ci siamo ritrovati”.
Il giorno della presentazione fu un altro show: “Dimmi Roberto, hai già fatto degli assist? Guarda che ti mettiamo in camera con Weah, così di notte prendi paura”. Una dietro l’altra. Una dopo l’altra.
Poi ecco Capello, cioè la stessa cosa di Sacchi con Borghi.
La scheda di Roby è nello stesso faldone di quella di Claudio. Si trova presto. Si legge e si rimette a posto.
Rivaldo è arrivato anche per quello, per non pensare un giorno di aver perso un’occasione.
Sheva è andato via solo perché l’ha deciso lui. Se lo riprenderebbe anche adesso, il presidente. Meglio ingoiare un tradimento che sentire di aver perso uno che ti fa battere il cuore.
Ronaldo fa parte del piano, magari serve pure a tenere Kakà e a spingere Ronaldinho verso Milano. Ancelotti non lo vuole? Mourinho non lo vuole? Lippi non lo vuole?
L’allenatore non può contare sempre. Poi l’allenatore chi è? Forse sarà Rijkaard. Forse no.
In Sudamerica ce n’è uno che sta facendo miracoli.
Allena il Colo Colo in Cile, gli hanno dato il premio di miglior mister del Continente.
Claudio, si chiama.
Non ha ancora imparato a chiamarlo Cav.: dice sempre dottore Belucconi.

Beppe Di Corrado (pseudonimo di chissà chi) su il Foglio di sabato 24 marzo.

Saluti e FORZA MILAN!!