Il libero pensiero dei vescovi su famiglia-bis e omosessualità
Il 12 febbraio scorso il presidente della
Cei, cardinale Camillo Ruini, annunciò
“una parola meditata, una parola
ufficiale” in merito al progetto di legge
governativo sulle unioni di fatto, una
nota dell’episcopato italiano “che sia impegnativa
per coloro che accolgono il
magistero della chiesa e che potra essere
chiarificatrice per tutti”. Il testo di quella
nota non è ancora pronto, ma esiste
una bozza che fa da base autorevole per
la discussione fra i vescovi. Il Foglio ne è
venuto in possesso. Eccola.
Il progetto di legge intende regolare alcuni
diritti, doveri e facoltà di persone, anche
dello stesso sesso, unite da reciproci vincoli
affettivi, che convivono stabilmente e si
prestano assistenza e solidarietà materiale
e morale (cfr. art. 1, n. 1). La convivenza deve
essere provata dalle risultanze anagrafiche
(cfr. art. 1, n. 2). La dichiarazione all’ufficio
di anagrafe deve essere resa contestualmente
da entrambi i conviventi oppure da
un solo convivente che ha l’onere di darne
comunicazione all’altro (cfr. art. 1, n. 3). Sembra
che in tal modo si voglia escludere una
“celebrazione pubblica” della convivenza.
Tuttavia, con il presente progetto di legge il
fatto della convivenza diventa fonte di numerosi
diritti specifici. Ciò non è accettabile
per i seguenti motivi:
1. La convivenza (eterosessuale o omosessuale)
riceve un riconoscimento legale, anche
se non viene equiparata a tutti gli effetti
all’istituzione matrimoniale. Infatti, le risultanze
anagrafiche di fatto costituiscono
un riconoscimento da parte dello stato di diritti
e doveri derivanti proprio dalla convivenza
di due persone, venendo così a dare
riconoscimento giuridico e legale a una
realtà o a uno status che si pone in alternativa
all’istituzione del matrimonio. In questo
modo la registrazione anagrafica costituisce
lo strumento giuridico, che non solo accerta
una realtà di fatto, ma è fonte di riconoscimento
e di attribuzione di un nuovo o diverso
status giuridicamente tutelato. Ugualmente,
tutto ciò che attiene ai diritti acquisiti
in materia di successione, assistenza, obbligo
di prestazione di alimenti, assegnazione
di alloggi eccetera costituisce una realtà
giuridica che la Costituzione italiana riconosce
in modo esclusivo all’istituto del matrimonio
e al suo valore di assoluta preminenza
rispetto a altre forme di legami parentali
o altro, mentre in questo caso tali diritti
vengono a essere riconosciuti per uno
status nuovo, di fatto e di diritto riconosciuto
legalmente. In questo caso viene sconvolto
il favor che la Costituzione riconosce in
modo esclusivo alla famiglia. Si crea così un
nuovo modello di vita, che oscura la percezione
di alcuni valori fondamentali, svaluta
l’istituzione matrimoniale e ha un influsso
negativo sulla mentalità, soprattutto per le
giovani generazioni.
Al riguardo occorre ricordare un brano
del discorso di Papa Benedetto XVI alla Curia
Romana in occasione della presentazione
degli auguri natalizi (22/12/2006): “A questo
punto non posso tacere la mia preoccupazione
per le leggi sulle coppie di fatto.
Molte di queste coppie hanno scelto questa
via perché – almeno per il momento – non si
sentono in grado di accettare la convivenza
giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio.
Così preferiscono rimanere nel
semplice stato di fatto. Quando vengono create
nuove forme giuridiche che relativizzano
il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo
ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico.
In tal caso il decidersi per chi già fa
fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge
poi, per l’altra forma di coppie, la relativizzazione
della differenza dei sessi. Diventa
così uguale il mettersi insieme di un uomo e
una donna o di due persone dello stesso sesso.
Con ciò vengono tacitamente confermate
quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza
alla mascolinità e alla femminilità della
persona umana, come se si trattasse di un
fatto puramente biologico; teorie secondo cui
l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà
– deciderebbe autonomamente che cosa sia
o non sia. C’è in questo un deprezzamento
della corporeità, da cui consegue che l’uomo,
volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla
‘sfera biologica’ – finisce per distruggere se
stesso. Se ci si dice che la chiesa non dovrebbe
ingerirsi in questi affari, allora noi
possiamo solo rispondere. Forse che l’uomo
non ci interessa? I credenti, in virtù della
grande cultura della loro fede, non hanno
forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo?
Non è piuttosto il loro – il nostro – dovere
alzare la voce per difendere l’uomo, quella
creatura che, proprio nell’unità inseparabile
di corpo ed anima, è immagine di Dio?”.
2. Molti dei diritti di cui parla il presente
progetto di legge potrebbero essere garantiti
per altre vie non nocive per il corpo sociale,
ad esempio attraverso un contratto
delle persone interessate a partire dalla loro
autonomia di cittadini. In tal caso si tratterebbe
di diritti che hanno la loro base
nella scelta individuale di due persone e
non nel fatto, legalmente riconosciuto, della
loro convivenza.
In questa linea si è anche espressa la
Congregazione per la Dottrina della Fede
nelle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento
legale delle unioni tra persone
omosessuali” del 3 giugno 2003: “Non è
vera l’argomentazione secondo la quale il
riconoscimento legale delle unioni omosessuali
sarebbe necessario per evitare che i
conviventi omosessuali perdano, per il semplice
fatto della loro convivenza, l’effettivo
riconoscimento dei diritti comuni che essi
hanno in quanto persone e in quanto cittadini.
In realtà, essi possono sempre ricorrere
– come tutti i cittadini e a partire dalla loro
autonomia privata – al diritto comune
per tutelare situazioni giuridiche di reciproco
interesse. Costituisce invece una grave
ingiustizia sacrificare il bene comune e
il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere
dei beni che possono e debbono essere
garantiti per vie non nocive per la generalità
del corpo sociale” (n. 9).
3. Per quanto riguarda, quindi, il comportamento
dovuto ai politici cattolici, valgono
le disposizioni ribadite da due documenti
recenti della Congregazione per la
Dottrina della fede, e cioè:
a) “Nota dottrinale circa alcune questioni
riguardanti l’impegno e il comportamento
dei cattolici nella vita politica” del 24 novembre
2002: “La coscienza cristiana ben
formata non permette a nessuno di favorire
con il proprio voto l’attuazione di un programma
politico o di una singola legge in
cui i contenuti fondamentali della fede e
della morale siano sovvertiti dalla presentazione
di proposte alternative o contrarie
a tali contenuti… Devono essere salvaguardate
la tutela e la promozione della famiglia
fondata sul matrimonio monogamico tra
persone di sesso diverso… ; ad essa non possono
essere giuridicamente equiparate in
alcun modo altre forme di convivenza, né
queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento
legale” (n. 4).
b) “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento
legale delle persone omosessuali”
del 3 giugno 2003: “Se tutti i fedeli
sono tenuti a opporsi al riconoscimento
legale delle unioni omosessuali, i
politici cattolici lo sono in particolare, nella
linea della responsabilità che è loro
propria. In presenza di progetti di legge favorevoli
alle unioni omosessuali, sono da
tener presenti le seguenti indicazioni etiche.
Nel caso in cui si proponga per la prima
volta all’Assemblea legislativa un progetto
di legge favorevole al riconoscimento
legale delle unioni omosessuali, il parlamentare
cattolico ha il dovere morale di
esprimere chiaramente e pubblicamente
il suo disaccordo e votare contro il progetto
di legge. Concedere il suffragio del proprio
voto a un testo legislativo così nocivo
per il bene comune della società è un atto
gravemente immorale” (n. 10).