Il compositore Vissarion Shebalin, studiato dal neurologo russo Aleksandr Lurija, fu vittima di un ictus che gli tolse quasi del tutto la capacità di parlare e di capire il linguaggio. Nonostante ciò, continuò a comporre almeno 11 opere maggiori tra sonate, quartetti e arie, e a insegnare ai suoi allievi, ascoltandoli e correggendone le composizioni.
Il grande musicista Maurice Ravel, via via che la sua malattia al cervello avanzava, si diceva in grado di comporre la musica nella testa ma incapace di fissarla sulla carta. Altri provetti musicisti, nei casi raccontati dai neurologi, dopo un ictus invece percepiscono la musica come un orribile frastuono.

Poi ci sono persone che, pur avendo un udito normale, non distinguono due note diverse, né riconoscono una melodia, per quanto familiare. Uno dei primi casi descritti, nel 1878, fu quello di un uomo che parlava del suono di un pianoforte come di «una nota musicale, più un tonfo sordo e rumore di fili metallici». Per anni i ricercatori non ci hanno creduto. Ora si sa che questa condizione esiste, si chiama amusia congenita e forse è ereditaria.
E ci sono coloro che, privi di qualunque capacità intellettuale, hanno doti musicali fuori dal comune. Eddie per esempio, un ragazzino americano con grave ritardo fisico e mentale (descritto nel 1989 dallo psicologo Leon Miller), sapeva suonare alla perfezione il pianoforte e compiere variazioni su qualunque brano avesse appena ascoltato. Un po' come Wolfgang Amadeus Mozart bambino. Questi casi clinici di pazienti, famosi e non, sembrano solo stranezze.

In realtà, insieme alle più moderne tecniche di visualizzazione, lo studio di come il cervello ascolta, percepisce o crea una melodia, coinvolgendo tutte le più sofisticate funzioni cognitive, offre agli scienziati una miniera di informazioni.
Alla neuromusica, così si chiama questa nuova disciplina, la rivista Brain ha dedicato di recente un numero speciale, introdotto da un articolo di Oliver Sacks, che ha raccontato storie memorabili legate alla musica, a partire dai casi di allucinazioni descritte in L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Che cos'è la musica? A che cosa serve? Apparentemente, apprezzarla per suonare uno strumento non dà alcun vantaggio nella lotta darwiniana per la sopravvivenza. Nel suo brillante e ponderoso libro Come funziona la mente, del 1997, il neuroscienziato Steven Pinker dedicò poche pagine alla musica dichiarando che era solo un «auditory cheesecake», un dolcetto per le orecchie, insomma un fronzolo, non qualcosa di essenziale per la mente dell'uomo.
Invece, già Charles Darwin riteneva che la musica dovesse avere un valore nell'evoluzione e, nel 1973, in Come è musicale l'uomo? John Blacking scriveva che la musica è «qualcosa che risiede nel corpo e attende di essere espresso e sviluppato», così come avviene per il linguaggio. Un'ipotesi che ha ripreso quota con gli ultimi studi.

La musica sembrerebbe avere molto in comune proprio con il linguaggio. La tesi di Steven Mithen, archeologo inglese di cui sta per uscire in italiano (per l'editore Codice) Il canto degli antenati, è che musica e linguaggio abbiano un'unica origine e si siano separati nel corso della storia evolutiva, mantenendo però molti tratti in comune. «Che cosa linguaggio e musica condividano è difficile dirlo.
Di sicuro sono entrambi sistemi con un altissimo valore comunicativo» dice Giuliano Avanzini, neurologo all'Istituto Besta di Milano che suona pianoforte e spinetta, consulente scientifico per la Fondazione Mariani, che promuove la ricerca su neuroscienze e musica. Secondo gli studi più recenti, musica e linguaggio hanno in comune un sistema sintattico che pone le parti del discorso o della musica in ordine gerarchico.


Ma perché è così piacevole ascoltare musica? Le emozioni che suscita, per la maggior parte delle persone, sono più intense di quelle provocate da qualsiasi forma d'arte. Robert Zatorre, neuroscienziato e musicista, ha studiato con tecniche di neuroimmagine un'emozione molto caratteristica, quei brividi lungo la schiena che la bella musica talvolta fa provare. Che cosa succede nel cervello in questi momenti?
«Negli studi svolti con la collega Anne Blood» dice a Panorama Zatorre «abbiamo scoperto che la musica può attivare parti del cervello di solito associate a stimoli importanti dal punto di vista biologico, per esempio aree legate all'euforia e al piacere del cibo o a quello sessuale. La musica quindi sembra attivare circuiti neurali molto antichi, anche se nessuno sa perché».
I bambini, come svariate ricerche hanno mostrato, nascono in qualche modo musicisti: sanno riconoscere note, accordi, scale diverse suonate a distanza di giorni. Segno che la capacità musicale è connaturata al cervello e non è solo questione di cultura.
Qualunque significato evolutivo abbia, la musica come il linguaggio sembrano prerogativa solo umana.
È vero che il canto degli uccelli o i versi di molti animali hanno una importante componente comunicativa, ma non è mai stato dimostrato che gli animali riconoscano o apprezzino la musica. Josh McDermott, del Mit di Boston, e Marc Hauser, dell'Università di Harvard, hanno fatto esperimenti con due specie di scimmie lasciandole libere di andare verso un altoparlante che trasmetteva un tipo o un altro di melodia.

Al contrario degli uomini, che hanno una spiccata preferenza, forse innata, per le combinazioni di note consonanti, le scimmie non hanno mostrato alcuna avversione per gli accordi dissonanti, e neppure per altri suoni sgradevoli, come lo stridere di unghie su una lavagna o di metallo sopra un vetro. I ricercatori hanno visto che le scimmie preferiscono, al contrario delle persone, i ritmi lenti tipo la ninna nanna. Ma, potendo scegliere tra suoni e silenzio, preferiscono il silenzio, come se non trovassero la musica né piacevole né rilassante.
C'è un'altra questione calda che interessa la ricerca neuroscientifica. È vero che la musica è un'ottima ginnastica per il cervello? Quasi 15 anni fa due ricercatori si dissero convinti di aver scoperto quello che è poi stato definito l'effetto Mozart: subito dopo aver ascoltato una sonata del compositore, alcune persone sembravano in grado di svolgere meglio certi compiti cognitivi.

La maggior parte dei ricercatori è oggi abbastanza scettica sull'esistenza di una specifica funzione della musica di Mozart, anche se nel frattempo questa scoperta è diventata talmente famosa che i cd del compositore hanno fatto la loro apparizione anche nei corsi preparto sperando di sviluppare l'intelligenza dei nascituri.
Assai più verosimile che il fenomeno sia dovuto ad altri fattori, anche se alcuni studi continuano a trovare un effetto specifico per Mozart, addirittura sui topi, e non, per esempio, per Ludwig van Beethoven. «Probabilmente, come altre indagini hanno mostrato, l'effetto immediato era dovuto all'aumento della vigilanza.

Ma altre ricerche alimentano la convinzione che effettivamente ci sia un effetto cognitivo più a lungo termine prodotto dall'insegnamento della musica» sostiene Luisa Lopez, neurofisiologa all'Università Tor Vergata di Roma e curatrice scientifica del progetto neuroscienze e musica della Fondazione Mariani.
Uno studio di ricercatori canadesi pubblicato su Brain mostra che i bambini di 4-6 anni, dopo un anno di lezioni di musica, eseguono alcuni test di memoria meglio dei coetanei che non hanno seguito corsi. Altri ricercatori hanno evidenziato che l'insegnamento musicale migliorerebbe le capacità nei test spaziali, linguistici e matematici nei bambini.

Chiara Palmerini