Nicolas Sarkozy vuole essere il prossimo presidente di Francia, non si fa dettare il programma dai francesi, combatte la rivale Ségolène con le idee e un progetto. E si prepara a contrastare la trame del “tradito” Chirac


Parigi. Nicolas Sarkozy, ministro dell’Interno, l’ex delfino e antagonista e candidato alla successione di Jacques Chirac all’Eliseo, è l’uomo che ha rilanciato il gollismo, rinnovando una tradizione politica di libertà anticonformista e di avanguardia. Ha rifondato la destra repubblicana francese, reinventandosi dalle ceneri del Rassemblement pour la République, partito agonizzante di Jacques Chirac, l’Unione per un movimento popolare, di cui nel 2004 è riuscito a conquistare la presidenza. Tra due settimane, dall’Ump riunito in congresso alla Porta di Versailles, Sarkozy riceverà l’investitura ufficiale come candidato alle presidenziali di primavera. E mentre piovono le adesioni di ex villepinisti e personalità indipendenti, come Bernard Kouchner e Bernard Tapie, il presidente dell’Ump già assapora la vittoria sul concorrente più insidioso che soltanto pochi mesi fa pareva destinato a un’irresistibile ascesa.
Senza nemmeno bisogno di dargli battaglia, Sarkozy ha infatti stravinto su Dominique de Villepin, il primo ministro favorito di Chirac, che un giorno, quando era ancora soltanto segretario generale dell’Eliseo, proclamò senza ironia: “Sono io a gestire il cervello del presidente”. Da responsabile del Quai d’Orsay, nei mesi in cui all’Onu si discuteva dell’intervento in Iraq, Dominique Marie François René Galouzeau de Villepin – questo il suo nome completo – sfidò l’America e la coalizione dei volenterosi in nome dalla République, dell’eccezione francese e di un antiamericanismo dichiarato, che in Francia resta comunque popolare. Animato da ambizioni di rango, Villepin coltivava la retorica, scriveva libri sui poeti romantici e – sebbene non eletto e gravato dall’impegnativo soprannome di “Nerone”, affibiatogli da Bernadette Chirac per la volontà incendiaria mostrata nei confronti dell’Rpr – continuava a sperare in un ruolo magniloquente. Tant’è che un anno fa, nei sondaggi, era in cima al gradimento dei francesi accanto a Sarkozy, che invece è figlio di un emigrato ungherese fuggito a Parigi dopo Yalta; è cresciuto con un nonno medico, ebreo sefardita originario di Salonicco e convertito al cattolicesimo e al patriottismo vecchio stampo. E a differenza di Villepin è così apertamente filoamericano e filoisraeliano da non curarsi di gettare scandalo fra i suoi connazionali rendendo visita al presidente George W. Bush, com’è successo l’11 settembre scorso, quando ha caldeggiato la ripresa dei rapporti transatlantici con un’Europa forte, ha espresso riserve nei confronti delle scelte della chiracchia in politica estera e alla fine si è persino messo in posa per una foto con stretta di mano adorante, dall’alto dei sei centimetri di tacco. Eppure quello che a molti osservatori occidentali è sembrato un gesto di riparazione necessario, agli occhi dei francesi è parso un’imperdonabile gaffe.
Non per niente, era ancora l’aristocratico Villepin a incantare gli interpreti dell’identità nazionale, i quali decretavano: “Villepin rappresenta la Francia. Sarkozy tutt’al più i francesi”. Poi qualcosa è cambiato. Sarkozy ha deciso che anche lui voleva rappresentare la Francia, non soltanto i francesi – o peggio il “coq gaulois” come dicono le malelingue insofferenti al suo successo con le donne e alla sua agitazione perpetua, che si evince dal beccheggiare della spalla destra, fuori controllo. Così ha mandato i suoi emissari dai grandi cultori dell’animo nazionale, Max Gallo e Pierre Nora, per farsi spiegare come, dove e in quale misura l’auspicata metamorfosi potesse diventare possibile. E alla fine è riuscito se non proprio a incarnare “la France” – che nel suo retaggio millenario di grandeur e supponenza resterà sempre una chimera per un Särközy Nagybocsaï oriundo della piana di Puszta sul Danubio – quantomeno a trasformarla in fervido oggetto di amore: “So che cosa vuol dire condividere una storia che non è quella dei propri antenati e di sposarne la causa come un’evidenza che si impone da sola… in fondo, la Francia per me viene da uno slancio del cuore”, ha detto Sarkozy il 9 maggio a Nîmes, mandando tutti in visibilio con il suo pathos da francese di prima generazione.

L’uscita di scena di Villepin
La fortuna poi ha aggiunto del suo. Premiando come al solito gli audaci, nel caso di Sarkozy ha liberato il campo dall’abuso di posizione dominante. E infatti Galouzeau de Villepin ha dovuto riporre ogni ambizione, dopo esser stato sentito come teste dai giudici che indagano sull’affaire Clearstream, losca vicenda di sospetti elenchi di depositi presso una banca lussemburghese, frutto di bustarelle nella vendita di fregate a Taiwan nel 1991. In quegli elenchi – poi dimostratisi falsi – c’era anche il nome del ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, che appariva così la vittima di una macchinazione ordita ai suoi danni.
Dopo essersi costituito parte civile, Sarkozy ha denunciato l’esperto informatico libanese Imad Lahoud, sospettato di essere l’autore dei falsi. Ora però lo stesso ruolo di vittima lo rivendica per sé pure Villepin. Ma prima di Natale, nell’interrogatorio fiume durato diciassette ore, Villepin avrebbe offerto una versione così lacunosa e piena di incongruenze da suscitare la smentita di Sarkozy.
S’erano appena scambiati gli auguri in un clima di ritrovata concordia che l’indomani, letti i verbali dell’interrogatorio, il ministro dell’Interno ha reso noto, attraverso il suo avvocato, di non aver mai pronunciato la fatidica frase che Villepin gli attribuiva, citando una conversazione dell’ottobre 2004: “Se esce fuori che lei, primo ministro, e il presidente della Repubblica avete nascosto un rapporto dei servizi segreti, saltate tutti e due”. In realtà quella stessa frase risultava esser stata citata, in seguito a una conversazione con Villepin, dall’asso dei servizi segreti francesi, il generale Philippe Rondot, in un appunto scritto tre mesi prima, nel luglio 2004. Come che sia, exit Galouzeau. Sulla corsa per le presidenziali plana ora soltanto la minaccia della discesa in campo di un’altra pedina della chiracchia con ambizioni rilevanti: il ministro della Difesa Michèle Alliot-Marie. Lei, è vero, in questi giorni ha escluso una candidatura all’interno dell’Ump, ma ha lasciato aperta l’opzione di una corsa da indipendente, fuori dal partito e quindi libera dai vincoli di tempistiche e di finanziamenti imposti dalla macchina elettorale dell’Ump, promettendo però di dichiararsi prima del congresso di metà gennaio. Ma nessuno sa dire se, oltre quel termine, godrà dell’eventuale appoggio di Chirac. E c’è persino chi paventa, come Patrick Jarreau sul Monde di oggi, l’ingresso nella campagna del presidente uscente, magari a favore di Ségolène.
Nell’attesa dunque l’incognita più temibile per Sarkozy resta la candidata socialista. Ségolène Royal sta dimostrando grinta, certo. Forse non è soltanto una bolla mediatica, come molti pensano. Non è soltanto il simbolo dell’emancipazione, brandito da un’opportunista che insegue l’aura dell’incarnazione e cerca di accreditarsi come la madonna repubblicana, protettrice degli umili e redentrice degli oppressi. Forse il suo non è soltanto marketing della politica, con distribuzione del kit ai militanti, consigli per non antagonizzare la platea e l’uso indiscriminato delle aspettative dei blogger, che in un paese a forte tradizione letteraria e altrettanto forte desertificazione sociale superano ormai i dieci milioni. Eppure, lunga è la strada per dimostrare il contrario, e disseminata di dubbi e molti ostacoli, come ora recepisce anche Newsweek. C’è, per esempio, la dottrina a geometria variabile sperimentata in medio oriente. Ségolène, il venerdì, è contro il sorvolo degli aerei israeliani sulle truppe dell’Unifil, quando parla a Beirut coi deputati di Hezbollah. Ma la domenica è a favore, se discute a Gerusalemme con il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni. E poi c’è l’arte di schivare le domande sgradite o imbarazzanti, insistendo nel proporsi come la facilitatrice, come l’artefice della pace nel mondo, capace di gettare ponti e prestare ascolto a tutti quanti.

La macchina mitterrandista
E’ successo due settimane fa in tv, nel corso del programma di Serge Moati, su France 5. Seduta attorno a un tavolo, Ségolène doveva vedersela con il presidente del Medef, la confidustria francese, Laurence Parisot, che è un’esperta di sondaggi, azionista dell’Ifop, nonché l’erede del primo costruttore di mobili francese. E’ da lei che per la prima volta, dopo aver salmodiato per un quarto d’ora il suo credo nella qualificazione professionale e nelle relazioni industriali alla scandinava, Ségolène deve aver appreso l’esatta entità del prelievo fiscale che ogni anno grava sulle imprese francesi: 280 miliardi di euro, a fronte dei 220 che esige il fisco in Germania, con un terzo di abitanti in più rispetto alla Francia e un pil in crescita al 2,5 nell’ultimo anno, e rispetto ai 150 del Regno Unito, che ha quasi la stessa popolazione della Francia, ma il triplo della sua produttività. Quanto all’idea di valorizzare il lavoro lanciata da Ségolène, incoraggiando il passaggio dal reddito minimo di inserimento a un lavoro produttivo attraverso un nuovo reddito di solidarietà, nessuno dei presenti in studio, né Nathalie Kosciuscko Morizet, deputato dell’Ump, né il centrista Jean Louis Bourlanges, eurodeputo dell’Udf, è riuscito a capire se Ségolène avesse mai sentito parlare del premio all’occupazione, misura adottata da anni allo stesso scopo.
Ségolène è la candidata scelta per vincere, non per governare, osservano i più cinici. Dietro di lei, però, prima dei vertici del partito che in parte la detestano, in parte ne diffidano e in parte la sostengono sgomenti, si è messa in moto la macchina mitterrandista. Macchina rodata da vent’anni di potere e assai complessa, dove un realpolitiker come Jean Louis Bianco, segretario generale dell’Eliseo ai tempi di François Mitterrand, asseconda l’utopia futurista di Jacques Attali, che dell’ex presidente fu il consigliere speciale, il segretario, il biografo e lo sherpa nei tanti summit internazionale dove Ségolène imparò l’arrampicata in alta quota. Governeranno loro al posto suo? Chi lo sa, posto che ci riescano. Di fatto, sinora di Royal c’è soltanto il metodo, non un programma.