Daniele Scalea

Il 20 novembre 2004 l'Ucraìna era scossa dal fenomeno passato alla storia come "rivoluzione arancione", cioè i moti di piazza che portarono all'annullamento dell'elezione di Viktor Janukovič a presidente della Repubblica, ed alla successiva elezione, in un ballottaggio bis, del suo rivale Viktor Juščenko. In quella contesa intervennero pesantemente, con ingerenze di vario tipo, le grandi potenze mondiali: infatti, con uno schematismo riduttivo ma utile, i duellanti furono definiti come il "filorusso" (Janukovič) e il "filo-occidentale" (Juščenko). Ma di tutti questi elementi crediamo d'aver già dato conto in un precedente saggio pubblicato su "Eurasia", il quale tra l'altro inquadrava, tramite un lungo excursus, le vicende attuali entro la continuità storica dell'Ucraina. (1) Molte delle incognite con cui concludevamo allora si sono oggi svelate.

Un anno di governo arancione

L'anno 2005 s'apriva così per l'Ucraina con una mezza rivoluzione dei vertici politici: Viktor Juščenko diventava il terzo presidente della Repubblica, seguendo a quello stesso Leonid Kučma (2) che l'aveva licenziato dalla carica di primo ministro nel 2001; Julia Timošenko, carismatica multimilionaria (3) con passati guai giudiziari (4), era nominata prima ministra; a sostenerla in Parlamento (Rada) una maggioranza composta dai deputati di Nostra Ucraina (partito occidentalista di Juščenko), Blocco Timošenko (formazione populista e nazionalista) e Partito Socialista Ucraino (alla cui guida è il navigato politico Oleksandr Moroz). Potremmo così sintetizzare il progetto politico con cui si presentava la nuova (5) classe dirigente: sul piano politico, lotta alla corruzione; su quello interno, "ucrainizzazione" del paese a discapito della nutrita componente grande-russa e/o russofona (6); nel quadro dell'economia, accelerata nella realizzazione di riforme liberiste e concomitante rafforzamento produttivo ed economico del paese; in politica estera, integrazione nelle strutture occidentali ed allontanamento dalla Federazione Russa. Alle difficoltà di tener fede a cotanto programma, si sono aggiunte quelle per mantenere unita la coalizione, lacerata da gelosie e incomprensioni. Ad esempio, il posto di primo ministro ottenuto dalla Timošenko faceva gola anche a Petro Porošenko, altro potente oligarca e magnate dei media facente capo a Nostra Ucraina, il partito di Juščenko: quando la "pasionaria" arancione è riuscita a procacciarsi quel posto, Porošenko s'è dovuto "accontentare" della poltrona di presidente del Consiglio per la sicurezza nazionale, ma portandosi dietro una buona dose di rancore verso la direttrice dell'esecutivo di cui si trovò a far parte. Anche i rapporti tra il nuovo Presidente e la sua Prima Ministra sono stati tutt'altro che idilliaci: Juščenko non ha lesinato critiche alla Timošenko (da lui definita come «il peggiore capo di governo d'Europa»), la quale ha reagito passando sotto banco alla stampa alcune notizie poco lusinghiere sul conto del Presidente (7). Questo duro contrasto ha rappresentato l'anticamera della "resa dei conti" avvenuta nell'autunno 2005, con il licenziamento della Timošenko dalla carica di prima ministra (sostituita da Jurij Echanurov, un fedelissimo di Juščenko) motivato da un serie di scandali legati alla corruzione che hanno coinvolto alcuni ministri. Molto significative, in tal senso, le eclatanti accuse di autorevoli personaggi. In un'intervista pubblicata dal quotidiano russo "Izvestia" il 7 settembre 2005, Aleksandr Zinčenko, allora vice-presidente della Rada nonché responsabile della vittoriosa campagna elettorale di Juščenko alle presidenziali, accusò di corruzione, senza mezzi termini, alcuni membri del governo: il già citato Porošenko; il primo assistente del Presidente, Aleksandr Tretjakov; il capo-gruppo parlamentare di Nostra Ucraina, Nikolaj Martinenko. Quest'intervista, che sollevò un polverone nel paese, faceva seguito ad un roboante discorso tenuto dal primo presidente dell'Ucraina indipendente, Leonid Kravčuk, presso il parlamento nazionale. L'ex presidente ha constatato il collasso della coalizione arancione (si era giunti all'acme del dissidio tra Presidente e Prima Ministra: l'8 settembre ci fu il licenziamento dell'intero governo), rammaricandosi però ch'esso fosse giunto solo dopo che i "rivoluzionari" avevano già gettato il paese nel caos. Egli ha giudicato contro-producente l'atteggiamento da «professore di democrazia» adottato da Kiev nei confronti di Mosca, ammonendo che gli effetti si sarebbero «risentiti per anni». Inoltre, la corruzione che gli arancioni proclamavano di voler combattere ha dilagato, poiché Juščenko ha permesso ai circoli economico-finanziari che l’hanno sostenuto in campagna elettorale d’assumere il pieno potere nel paese, ed ora lui stesso non è che un «procuratore degli oligarchi», più che un presidente. Tuonava infine Kravčuk: «Bisogna dire chiaro e forte che questo potere non è competente!». Poche settimane più tardi l'ex presidente ucraino ha affermato, prove alla mano, che il mafioso russo Boris Berezovskij aveva finanziato la campagna elettorale di Juščenko (8), il che costituisce una grave violazione della legge, la quale vieta finanziamenti esteri ai politici nazionali.
Lo stesso cavallo di battaglia su cui si reggeva la pretesa "lotta alla corruzione" degli arancioni - vale a dire la revisione delle privatizzazioni - è stata brandita in modo strumentale per colpire i nemici politici del governo. La Timošenko, che ha sempre considerato - almeno a parole - prioritaria questa revisione, s'è ben guardata dal colpire le fortune di dubbia origine degli oligarchi (categoria alla quale appartiene anche lei, assieme a quello ch'è oggi il maggiore finanziatore del suo partito, Igor' Kolomyskij, capo di Privat, megacorporazione della regione di Dnipropetrov'sk) ed ha invece ripetutamente minacciato le imprese russe che avevano investito nel mercato ucraino. Questo clima d'insicurezza è alla base della forte (il 10% circa) diminuzione degl'investimenti diretti dall'estero, a sua volta una delle cause concorrenti ai pessimi risultati economici conseguiti dall'Ucraina in questi ultimi mesi. Tra gennaio e settembre 2005, periodo in cui fu prima ministra Julia Timošenko, il PIL crebbe appena del 2,8%. Il risultato complessivo di quell'anno, sommando dunque il periodo settembre-dicembre di governo di Jurij Echanurov, è ancora più basso: 2,6% di crescita del PIL. Tale dato risulta estremamente negativo se confrontato col 12,1% di crescita del 2004 (quand'era primo ministro Janukovič). Evidente come, anche sul piano economico, la coalizione arancione abbia fallito su tutta la linea.

Una "nuova" politica estera per l'Ucraina

Giungendo a trattare l'ultimo punto di quest'analisi dell'anno abbondante di governo degli arancioni - cioè la politica estera - sarà bene sgombrare immediatamente il campo da un equivoco diffuso a causa delle semplicistiche ed inesatte cronache dei media. La "rivoluzione arancione" non ha affatto causato un cambiamento di campo geopolitico dell'Ucraina da "filo-russa" a "filo-americana". Come abbiamo già reso ampiamente conto nell'articolo precedentemente citato in nota (9), la presidenza di Leonid Kučma è stata molto ambigua su questo punto. Da un lato, egli era tra i fondatori del GUUAM, s'impegnava per l'integrazione del suo paese in UE e NATO, inviava truppe d'occupazione in Iraq, reprimeva il sentimento nazionale russo in Ucraina; dall'altro, stringeva importanti accordi diplomatici (economici e militari) col Cremlino, aderiva allo Spazio Economico Comune (SEC) con Russia, Kazakistan e Bielorussia, condannava l'aggressione atlantista alla Jugoslavia e (pare) vendeva sistemi anti-aerei all'Iraq di Saddam Hussein. Di fatto, potremmo così descrivere il bivio geopolitico cui s'è trovata davanti l'Ucraina alle elezioni presidenziali del novembre 2004: o proseguire nell'ambigua linea d'equidistanza (Janukovič), oppure privilegiare l'orientamento occidentale (Juščenko). Gli elettori - o chi per loro - ha scelto d'imboccare la seconda via, ed il nuovo Presidente ha tenuto fede alle aspettative. Proseguiamo però con ordine.
Partiamo da un'organizzazione citata poco sopra, il GUUAM. Essa doveva il proprio nome ai paesi che la componevano: Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldova. Quest'organizzazione, di carattere prettamente strategico, è sorta con lo scopo dichiarato di «consolidare l'indipendenza degli Stati membri», cercando di controbilanciare la preponderante influenza della Russia all'interno della CSI. Ad oggi, nessun analista ignora più che il GUUAM sia nato dietro la spinta degli USA, desiderosi d'instaurare un nuovo "cordone sanitario" attorno alla Federazione Russa e creare motivo di scontro tra quest'ultima e l'Unione Europea, incoraggiata infatti ad appoggiare le rivendicazioni dei suoi vicini orientali contro Mosca. Finora il GUUAM è stato in effetti capace di conseguire risultati solo su quest'ultimo piano, seminando ripetutamente discordia tra Bruxelles e Mosca. Per il resto, le divisioni interne l'hanno reso un organismo poco efficace. Nel maggio 2005, dopo un lungo periodo d'auto-sospensione, Islam Karimov ha infine deciso di ritirare l'Uzbekistan dall'organizzazione, da allora ridotta a GUAM (10). Quello del paese centroasiatico è stato un vero e proprio cambio di campo: pochi mesi dopo (in agosto, per la precisione), l'Uzbekistan è entrato a fare parte dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (OTSC), lo zoccolo duro della CSI che prevede forme di cooperazione strategica e militare tra la Russia e gli altri Stati membri (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan ed ora, appunto, anche Uzbekistan). A ciò s'aggiunga che già dal 2001 l'Uzbekistan è membro anche dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS), una sorta di lega centroasiatica a guida sino-russa. (11) Se sommiamo la perdita dell'Uzbekistan ai sempre maggiori dubbi nutriti dall'Azerbaigian in merito al suo allineamento filo-occidentale, possiamo affermare che il GUAM sia stato estromesso dall'Asia Centrale e tagliato fuori dal Mar Caspio; vale a dire, definitivamente o quasi escluso dalle risorse energetiche. Quasi, abbiamo scritto, perché resta ancora in gioco la carta dell'oleodotto Bakù-Tblisi-Ceyhan. Bisogna però dire che la sua influenza sul "grande gioco" geopolitico delle risorse, la quale sembrava enorme fino a pochi anni fa (quando cioè l'opera, nota anche come "BTC", era ancora in fase di realizzazione), appare oggi notevolmente ridotta dal nuovo orientamento dei paesi centroasiatici, in primis il Kazakistan, decisi a privilegiare la vendita di petrolio e gas naturale alla Cina, in collaborazione con la Russia. Ciò riduce di fatto il BTC ad un mero mezzo d'esportazione delle risorse azere che taglia fuori Mosca: un risultato certo considerevole, ma molto modesto se confrontato con le aspettative nutrite un tempo. Il petrolio prodotto in Azerbaigian non riuscirà neppure a sfruttare a pieno regime il BTC, dunque non potrà far fronte ai bisogni energetici dell'Ucraina (la quale, oggi, dipende in tutto e per tutto dal gas naturale russo). (12)
Gl'indiscutibili fallimenti del GUAM hanno portato i suoi animatori principali, vale a dire l'asse Kiev-Tblisi instaurato da Juščenko-Saakašvili, a metterlo in secondo piano a favore d'un nuovo progetto, la "Comunità per la Scelta Democratica" (CSD). Varata ufficialmente il 2 dicembre 2005, essa include, oltre a Ucraina e Georgia: Moldova, Polonia, Estonia, Lituania, Lettonia, Macedonia e Slovenia. La Romania ha invece optato addirittura per l'adesione al GUAM. Ciò palesa uno spostamento del baricentro geopolitico dalla CSI e dal Caspio all'UE ed all'Europa Orientale. Se ciò diminuirà notevolmente il potenziale dell'organizzazione nel determinare le vie di smercio delle risorse naturali, senz'altro consoliderà l'altro ruolo assegnato da Washington, cui già accennavamo, e cioè moltiplicare i motivi di scontro tra Bruxelles e Mosca per impedire una loro saldatura politica (come l'ormai congelato se non defunto "asse Parigi-Berlino-Mosca" lasciava presagire nel 2003). Come potrebbe del resto accogliere, Putin, l'impegno di Stati membri dell'UE in un'alleanza strategica dichiaratamente antirussa? Forse le polemiche europee per l'accordo Gazprom-Sonatrach avrebbero avuto tenore diverso, se solo si fosse tenuto conto che Mosca, in questo momento, sta ribattendo alle ostilità lanciate da Bruxelles.
Torniamo però alla fondamentale questione dell'energia. L'Ucraina, s'è detto, patisce una dipendenza pressoché totale, per la sua produzione elettrica, dalle forniture di gas naturale provenienti dalla Russia. È proprio sulla questione del gas che si sono scatenate le maggiori tensioni e gli scontri più aspri tra Kiev e Mosca.
Il prologo della vicenda s'è consumato nella primavera-estate del 2005. L'Ucraina, soprattutto nella sua parte occidentale (ch'è anche quella che sostiene le formazioni nazionaliste e filo-americane), è un paese agricolo. In primavera le esigenze della raccolta comportano un notevole incremento nel consumo d'elettricità. Proprio in quest'occasione l'allora prima ministra Julia Timošenko (contro la volontà del Presidente) impose un calmiere dei prezzi dei combustibili, trovando la comprensione delle aziende russe anche grazie alla disponibilità di Vladimir Putin. Quando però la Timošenko, unilateralmente, decise d'estendere sine die la misura eccezionale, le compagnie energetiche si ribellarono, tagliando le forniture ed imponendo il razionamento ai cittadini, cosicché la Prima Ministra fu costretta ad un umiliante passo indietro.
La Timošenko ha atteso solo poche settimane per cercare la rivincita, ricorrendo ad un trucchetto in cui le malelingue la considerano esperta: il furto di gas naturale russo dalle riserve sotterranee in territorio ucraino, in questo caso gas destinato al mercato europeo. La pubblica denuncia della Gazprom ha infine costretto Kiev a rimborsare, almeno parzialmente, il gas rubato. Ma si trattava solo d'un assaggio di quanto sarebbe successo sul finire del 2005, in ribattezzata dai media "guerra del gas". Val la pena notare che in questo nuovo frangente la "estremista" Timošenko aveva già fatto spazio al "moderato" Echanurov.
La Federazione Russa ha sempre utilizzato il petrolio e il gas naturale come strumento politico nelle sue relazioni, soprattutto con i paesi post-sovietici, concedendo prezzi di favore a quelli che desidera tenere politicamente legati a sé. L'Ucraina ancora nel 2005 acquistava gas naturale russo a 50$ per mille metri cubi, contro un prezzo di mercato di 160$, tra l'altro in ulteriore ascesa nel 2006, fino a circa 250$ per mille metri cubi. Mosca, di fronte al raffreddamento politico sancito da Kiev nelle loro relazioni, nonché in risposta alle provocatorie azioni di cui sopra, decise sul finire dell'anno di elevare il prezzo prima a 160$, poi a 230$ per metro cubo. La resistenza di Kiev era motivata dall'esistenza d'un accordo tra i due paesi, la cui validità cessa solo nel 2013, che sancisce l'inapplicabilità delle tariffe di mercato allo scambio russo-ucraino. Tuttavia, come fatto notare dalla Gazprom, l'articolo 2 del presente accordo prevede che ogni tariffa (quella della vendita di gas dalla Russia all'Ucraina e i diritti di transito che Mosca deve a Kiev per gli oleodotti che ne attraversano il territorio) sia ridefinibile di anno in anno. L'1 gennaio 2006, visto l'ostruzionismo di Kiev che impediva di trovare un accordo, la Russia ha deciso di sospendere ogni fornitura di gas all'Ucraina. Com'è noto, nei primi giorni di gennaio gli Ucraini hanno sottratto centinaia di milioni di metri cubi di gas russo destinato all'Europa, la quale ha sofferto così d'un rifornimento lacunoso in pieno inverno, per fortuna senza gravi conseguenze - ma solo perché la situazione d'emergenza durò pochissimi giorni. L'accordo provvisorio tra Kiev e Mosca si fissò su un prezzo pari a 95$ per mille metri cubi, reso possibile innestando quote di più economico gas turkmeno (sempre proveniente dalla Russia) nella fornitura russa all'Ucraina. Ma la querelle è destinata a riesplodere non appena scadrà anche questo accordo. La continua tensione si regge sul potenziale ricattatorio reciproco: l'Ucraina ha bisogno della Russia per gli approvvigionamenti energetici, la Russia dell'Ucraina per far transitare il gas destinato all'Europa. Ovviamente, entrambi i contendenti stanno ora muovendosi per far venir meno la loro dipendenza dall'altro e così assumere una posizione di forza. Kiev è alla ricerca d'esportatori alternativi. Saltata la possibilità di sfruttare il BTC (da cui comunque riceverà solo le briciole, anche se Astana decidesse di prendervi parte, dato ch'esso risponde ad un ben preciso disegno di Washington che non prevede certo l'Ucraina), il Turkmenistan si presenta quale una possibilità: ma in tal caso si dovrebbero costruire da zero nuove infrastrutture per evitare il transito in Russia, e comunque i rapporti col presidente Nijazov sono pessimi, il che esclude l'avvio di seri progetti comuni. Julia Timošenko da tempo porta avanti l'idea d'una condotta che colleghi l'Iran all'Ucraina, ma anche tale progetto è per ora accantonato: oltre ai costi enormi, esso violerebbe l'embargo sancito dagli USA, protettori degli "arancioni". A ciò s'aggiunga che Putin stesso s'è impegnato per fare in modo che sia Iran sia Turkmenistan vendano le proprie risorse a India e Cina, anziché all'Europa: un esempio è il finanziamento garantito dalla Gazprom alla costruzione dell'oleodotto Iran-Pakistan-India. Se dunque i progetti di Kiev sembrano tutti impraticabili, quelli di Mosca vanno invece a gonfie vele: si pensi soltanto al Gasdotto del Nord Europa (GNE), il quale dal 2011 circa collegherà direttamente la Russia alla Germania, passando sotto il Mar Baltico, aggirando così gl'infidi Stati della "Nuova Europa", tra cui l'Ucraina. E da quel momento in poi Kiev avrà ben poche frecce nel suo arco per negoziare, e con tutta probabilità dovrà piegarsi docilmente al volere del Cremlino. L'Ucraina non può più permettersi ulteriori rialzi del prezzo dell'energia, o la sua economia, in primis il settore metallurgico, cadrà in ginocchio.

Il crollo della coalizione arancione e il ritorno di Janukovič

I duri contrasti tra i due capi carismatici della "rivoluzione arancione" ed il licenziamento della Timošenko sono stati i primi segnali d'incrinatura in seno alla coalizione filo-occidentale. Julia Timošenko col suo Blocco omonimo è passata all'opposizione del primo ministro Jurij Echanurov, pur rifiutandosi di unire le proprie forze col Partito delle Regioni di Viktor Janukovič (13) e continuando a sostenere il governo su temi ben precisi, come la politica estera. Ciò non le ha però impedito di votare, lei e i suoi uomini, al fianco di quelli di Janukovič per deporre il primo ministro Echanurov, il 10 gennaio 2006, in aperta protesta con l'accordo appena siglato con i Russi, a suo giudizio «un tradimento». Quel voto non ebbe in verità effetto, in quanto si fondava su prerogative affidate al parlamento dalla nuova costituzione appena varata dal governo arancione, ma allora non ancora in vigore: in effetti, il 24 luglio 2006 la neo-eletta V Rada ha votato l'annullamento formale di quella decisione presa dalla IV. Quando il 26 marzo 2006 s'è giunti alle elezioni parlamentari, la Timošenko non ha però avuto dubbi nello schierarsi nuovamente con gli ex alleati "arancioni", cioè Nostra Ucraina e Partito Socialista Ucraino. S'è verificato in seguito come le basi su cui rinasceva tale coalizione fossero estremamente labili. Innanzi tutto, però, i risultati (tra parentesi la guida d'ogni formazione):

- Partito delle Regioni (Viktor Janukovič): 31,26%;
- Blocco Julia Timošenko (Julia Timošenko): 22,27%;
- Nostra Ucraina (Viktor Juščenko): 13,94%;
- Partito Socialista Ucraino (Oleksandr Moroz): 5,67%;
- Partito Comunista Ucraino (Petro Symonenko): 3,66%.

Come si può notare, la seconda coalizione arancione aveva i numeri per governare, se fosse riuscita a trovare un accordo. Ciò non è avvenuto. Non ostante i tre partiti ufficializzassero la formazione d'una maggioranza parlamentare, essa naufragava ancora prima dello scoglio principale (la scelta del primo ministro), sull'elezione del presidente della camera: gli accordi prevedevano che tale ruolo finisse a Petro Porošenko, ma questi era sconfitto a sorpresa da Moroz, con i voti determinanti di comunisti e "regionalisti". Consumata così la rottura della seconda coalizione arancione, è sorta la cosiddetta "coalizione anticrisi" tra Partito delle Regioni, Partito Socialista e Partito Comunista, con Janukovič candidato al ruolo di primo ministro. Il presidente Juščenko, la cui approvazione era necessaria a norma di costituzione, ha cincischiato un po', nel tentativo di ottenere concessioni, prima di dare il nulla osta. Il clima di tensione così instaurato - col Presidente che preconizzava nuove elezioni, i deputati del Blocco Julia Timošenko che si dimettevano in massa nel tentativo (fallito) di far mancare il numero legale, la coalizione anticrisi che minacciava di deporre il Presidente, e migliaia di persone nelle piazze per sostenere l'una o l'altra posizione - aveva alfine termine nei primi giorni d'agosto, con la nomina ufficiale di Viktor Janukovič a primo ministro. Egli si trovava allora alla guida d'un esecutivo "d'unità nazionale", e la maggioranza alla Rada era composta da tutti i partiti eccetto quello della Timošenko. Il presidente Juščenko aveva però imposto condizioni pesantissime per dare il via libera all'ex rivale: egli ha dovuto sottoscrivere un documento pubblico, lo "Universal Nazional'nogo Edinstva", col quale accettava di proseguire sulla via dell'integrazione nell'UE e nella NATO già tracciata dal governo precedente, e rinunciava anche ad uno dei suoi cavalli di battaglia, cioè il conferimento dello status di lingua ufficiale al russo. (14) Inoltre, ruoli chiave nel governo, quali il ministero della difesa e quello degli esteri, sono finiti ad esponenti di Nostra Ucraina. In questa situazione il Partito delle Regioni avrebbe potuto perdere molti favori tra gli abitanti russofoni e grandi-russi dell'Ucraina orientale, i quali lo avevano votato in massa, a favore del PCU (che esternò subito i suoi malumori nei confronti del corso preso dal nuovo governo, pur continuando ad appoggiarlo) e di Opposizione Popolare, formazione guidata da Natalja Vitrenko che ha sfiorato l'ingresso in parlamento ed ha guidato il "blocco di Feodosiia" contro i militari NATO. (15) Sia Janukovič sia Juščenko avrebbero potuto vedere la propria credibilità minata, aprendo così la strada della presidenza (le elezioni si terranno nel 2009) a Julia Timošenko. Era insomma possibile che, come spesso avviene in occasione di "larghe intese", ad essere favorite fossero le posizioni più radicali. Non sorprende, perciò, che la soluzione della "Grosse Koalition" sia abortita in tempi rapidissimi. I membri di Nostra Ucraina hanno accusato il nuovo Primo Ministro di non tener fede agl'impegni presi, in particolare riguardo all'ingresso nella NATO. Il 17 ottobre 2006 il partito ha ufficializzato la propria posizione, abbandonando la coalizione di "unità nazionale" ed aggregandosi al Blocco Julia Timošenko per comporre una nuova opposizione parlamentare. Tuttavia, Juščenko ha chiesto solo ad una parte dei neo-nominati ministri d'uscire dal governo: vale a dire a Roman Zvarič (ministro della giustizia), Jurij Pavlenko (ministro della famiglia, della gioventù e dello sport), Jurij Poljačenko (ministro della sanità) e Ilhor Lichovoj (ministro della cultura), i quali hanno immediatamente rassegnato le loro dimissioni. Invece, dietro indicazione del partito, sono rimasti al proprio posto il ministro dell'interno Jurij Lutzenko, il ministro della difesa Anatolij Hrytsenko ed il ministro degli esteri Boris Tarasjuk. Conservando questi tre posti-chiave, Nostra Ucraina ambisce a costituire - per usare le parole di Juščenko - «un governo ombra», che contrasterà in senso filo-occidentale il primo ministro Janukovič. Ad essere maligni, si potrebbe pensare che la precedente manovra di Nostra Ucraina sia stata un'azione premeditata volta a conquistare la conferma di tre ministri, cosicché da guadagnare, grazie all'ingenuità dei suoi rivali, importanti posizioni in quello che si delinea come un scontro al vertice interno alle istituzioni. Da una parte, il partito occidentalista controlla ora la Presidenza della Repubblica, il Ministero della Difesa, quello dell'Interno e quello degli Esteri; dall'altra, il partito russofilo ha in mano il Consiglio dei Ministri (compreso il capo, ma esclusi i tre suddetti) e la Rada. Si ripropone così il tradizionale scontro etnico, geografico e politico tra Ovest ed Est. Al momento, è da registrare come Janukovič sia riuscito a raggiungere un accordo con la Russia circa la fornitura di gas naturale: nel 2007 il prezzo salirà da 95$ per mille metri cubi a 130$. Il presidente Juščenko ha però già esternato la sua opposizione a tali condizioni contrattuali.

Note:
1 Il saggio in questione è: Daniele Scalea, "Ucraina, terra di confine", in "Eurasia" nr.2/2005, pp. 137-160.
2 Solo erroneamente definito dai media occidentali come un "filo-russo".
3 "Oligarca", secondo la definizione solitamente adottata per gli uomini d'affari nei paesi post-sovietici.
4 Nel febbraio 2001 fu arrestata con l'accusa di falsificazione di documenti ed evasione fiscale, in merito alla sua attività di presidentessa dell'azienda elettrica ucraina, tra il 1995 e il 1997. Seppur liberata in Ucraina dopo poche settimane, la Russia ha invece mantenuto contro di lei una richiesta di cattura internazionale fino a che non è ritornata al potere: infatti, la presunta truffa all'erario ucraino passava per il furto di gas naturale russo, poi rivenduto in nero. Anche il marito di Julia, Oleksandr Timošenko (il cognome da signorina della politica ucraina è ignoto), è comparso nel registro degl'indagati ed ha persino passato due anni da latitante pur d'evitare l'incarcerazione. Durante le proteste di piazza contro Kučma in merito all'affaire Gongadze (giornalista anti-governativo assassinato), la Timošenko è stata ripresa mentre infrangeva i vetri delle finestre d'un penitenziario. Vanno inoltre citati i suoi rapporti d'affari e politici con l'ex primo ministro Pavlo Lazarenko, condannato lo scorso agosto negli USA per frode, corruzione e riciclaggio di denaro sporco. Casualmente solo il 28 gennaio 2005, dopo il successo della sua "rivoluzione", Julia, il marito Oleksandr ed il fratello Chenadij sono stati definitivamente scagionati da ogni accusa.
5 In realtà molti elementi - primi fra tutti proprio Juščenko e la Timošenko - provenivano dalle fila del precedente establishment.
6 Stiamo parlando di circa un quarto della popolazione ucraìna. Quando si parla di "grandi-russi", s'utilizza un termine etnologico che contraddistingue la porzione numericamente maggioritaria e storicamente più importante dei Russi propriamente detti, che comprendono però anche i piccolo-russi (o "ruteni") e i russi bianchi. Nel linguaggio di tutti i giorni, siamo soliti identificare (impropriamente) i "Russi" con i soli grandi-russi, mentre per le altre due componenti usiamo, rispettivamente, il termine "ucraìni" e quello "bielorussi"; ciò a cagione della confusione tra gruppi etnici e nazionalità (nel senso di "cittadinanza"). Dal punto di vista linguistico, l'ucraìno e il bielorusso possono essere visti quali semplici dialetti del russo, e tale è la posizione della maggior parte degli esperti, benché ciò risulti inaccettabile per i due corrispondenti Stati di recente indipendenza, i quali mirano a costruirsi una propria identità nazionale per contrastare sia le spinte centrifughe (separatismo regionale e minoranze etniche) sia quelle centripete (nostalgismo sovietico, panslavismo, eurasiatismo, ecc.).
7 Si tratta, in primo luogo, dei reportage sul figlio di Viktor Juščenko, il quale conduce una vita lussuosa e dispendiosa che ha suscitato scandalo tra la popolazione, che invece da oltre un decennio vive, se non di stenti, certo di gravi difficoltà. Del resto, pare che in ciò il padre gli sia stato d'esempio. Nel dicembre 2005 hanno destato scalpore le rivelazioni, comparse sulla stampa russa e ucraina, riguardanti il nuovo aereo presidenziale ordinato da Juščenko: gl'interni sono decorati con finezze in legno pregiato, ambra e persino oro a 18 carati, la cabina del Presidente è ammobiliata con divani in cuoio bianco, un tavolo da caffé e un frigo-bar. La spesa totale per l'aereo (una versione speciale dell'An-74TK300) ammonterebbe a 12 milioni di dollari. Cfr. "Viktor Yushchenko to fly new gorgeuos $12-million jetliner", "Pravda.ru", 30 dicembre 2005.
8 Oggi Berezovskij vive in Ucraìna, nuova meta del suo "esilio" dopo Londra, ed ha anche ottenuto la cittadinanza del paese. Pochi mesi or sono s'è vantato d'essere intento all'organizzazione d'un colpo di stato ai danni di Putin. Vedi notizia SDA-ATS del 23 gennaio 2006 ("Russia: Berezovski minaccia Putin, colpo di stato entro il 2008").
9 Vedi nota 1.
10 Invero, i residui Stati membri hanno optato per questo nuovo nome completo: "Organizzazione per la Democrazia e lo Sviluppo Economico - GUAM".
11 Per approfondire l'argomento dell'OCS ancora una volta rimandiamo agli articoli già pubblicati da "Eurasia". Sul numero 1/2006: Daniele Scalea, "La sfida eurasiatica parte da Shanghai", pp. 131-139; sul numero 2/2006: K. Gajendra Singh, "Mosse strategiche attraverso l'Eurasia", pp. 171-184; sul numero 3/2006: Spartaco Alfredo Puttini, "Il patto di Shanghai", pp. 77-82 e Daniele Scalea, "Quindici giugno a Shanghai", pp. 83-90.
13 Cfr. Aleksej Makarkin, "GUAM as an energy alternative to Russia", "Novosti", 24 maggio 2006.
14 Pare quasi certo che vi siano stati contatti e colloqui segreti tra le due formazioni, dal licenziamento della Timošenko fino a poco dopo le elezioni parlamentari, ma essi sono stati evidentemente vani.
15 Cfr: "Političeskaja elita delaet Ukrainy bragom Rossii - mnenie", "Novosti", 24 agosto 2006; "Ukraine's PM downplays Russian language status hopes", "Novosti", 11 agosto 2006.
16 Alla fine di maggio 2006 militari nordamericani sono giunti nella cittadina della Crimea a bordo della USS Advantage per allestire i preparativi in vista dell'esercitazione tattica congiunta ucraino-statunitense Sea Breeze 2006. Benché l'operazione fosse segreta ed il Ministero della Difesa ucraino avesse presentato quello della USS Advantage come un semplice "carico di materiali civili" (in realtà ha poi dovuto ammettere la presenza di armi), la popolazione s'è spontaneamente mobilitata contro quello percepito come "l'invasore yankee", ed ha posto d'assedio il porto per settimane. Il blocco s'è risolto solo quando i nordamericani hanno accettato di ripartire. Val la pena notare che il Partito delle Regioni ha rifiutato di schierarsi coi manifestanti.

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