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    Predefinito La comunione ai divorziati , di Sandro Magister

    dal Blog di Sandro Magister e da www.chiesa


    Questioni aperte: la comunione ai divorziati risposati
    La Facoltà Teologica di Milano propone che siano ammessi all’eucaristia senza che rinuncino ai rapporti sessuali. Un suo autorevole teologo spiega perchè e a quali condizioni. Come reagirà Roma?

    di Sandro Magister




    ROMA, 25 luglio 2006 – Sull’ultimo numero di “Teologia”, la rivista della Facoltà Teologica di Milano e dell’Italia Settentrionale, Alberto Bonandi propone una nuova “via” per ammettere alla comunione, a determinate condizioni, i cattolici divorziati risposati.

    Bonandi, prete della diocesi di Mantova, insegna morale fondamentale ed è uno dei teologi più autorevoli nel suo campo. Nel 2003 è stato tra i principali relatori di un convegno organizzato a Roma dalla Pontificia Università del Laterano sull’enciclica di Giovanni Paolo II “Veritatis Splendor”, assieme ai cardinali Georges Cottier, Angelo Scola, Francis George, Camillo Ruini, Joseph Ratzinger.

    Che la comunione ai divorziati risposati sia una questione aperta, è lo stesso Ratzinger, divenuto papa, ad ammetterlo. Ne ha parlato in due occasioni: in un colloquio con i preti della diocesi di Aosta il 25 luglio 2005 e, più ufficialmente, nel discorso al tribunale della Rota Romana del 28 gennaio 2006.

    Entrambe le volte Benedetto XVI ha suggerito di “approfondire” un caso specifico: l’eventuale nullità di un matrimonio ecclesiastico celebrato senza fede, per coloro che passati a una seconda convivenza tornano alla pratica cristiana e chiedono la comunione.

    La “via” proposta da Bonandi è invece più generale. Presuppone sia la permanente validità del precedente matrimonio, sia la continuità piena della seconda convivenza, inclusi i rapporti sessuali. Ed è quest’ultima la vera novità della proposta.

    Le regole attualmente in vigore, infatti, consentono la comunione solo a chi, pur continuando a convivere con una persona diversa da quella validamente sposata, rinuncia ai rapporti sessuali.

    Le attuali regole sono di formulazione relativamente recente, pur basandosi su una prassi antica molto severa. Ancora nel 1973 la congregazione per la dottrina della fede ammetteva la “probata praxis in foro interno”, ossia l’ammissione ai sacramenti per scelta di coscienza approvata dal confessore. L’accesso alla comunione dei divorziati risposati era fenomeno abbastanza diffuso, negli Stati Uniti e in alcuni paesi d’Europa.

    Poi è venuta nel 1981 l’esortazione apostolica “Familiaris Consortio” a fissare la più rigorosa disciplina attuale. Ma nel 1993 i vescovi tedeschi della Renania – tra i quali due teologi di prestigio, Karl Lehmann e Walter Kasper, oggi cardinali – allargarono di nuovo le possibilità di accesso alla comunione dei divorziati risposati: segno che non ritenevano pienamente convincenti e vincolanti le regole stabilite da Roma. La congregazione per la dottrina della fede, all’epoca retta da Ratzinger, li richiamò all’obbedienza.

    In ogni caso, sia questa iniziativa dei vescovi tedeschi, sia l’accondiscendenza di molti preti, sia la diffusione di comportamenti discrezionali tra i fedeli confermano che le regole vigenti a molti non appaiono buone.

    Le pagine centrali del saggio di Bonandi su “Teologia” esaminano precisamente quello che sembra essere il punto debole delle attuali regole: il punto in cui esse impongono, per l’ammissione alla comunione, la rinuncia ai rapporti sessuali tra i due conviventi, pur consentendo tra essi la coabitazione, il rapporto affettivo, il mutuo sostegno, la cura dei figli.

    Con questo – scrive Bonandi – “sembra che la dottrina cattolica finisca per riconoscere la liceità, in una seconda relazione, di molti aspetti che caratterizzano il matrimonio, esclusi solo i rapporti sessuali”.

    Ma ciò sembra contraddire l’insegnamento della Chiesa sull’unità dei “fini” del matrimonio, quello unitivo e quello procreativo: “il primo dei quali sarebbe lecito e anzi doveroso da perseguire anche nella convivenza dopo un matrimonio fallito, mentre l’altro no”.

    “Coerenza vorrebbe – prosegue Bonandi – che si dichiarasse illecita la seconda relazione di coppia nella sua concreta totalità di affetto, coabitazione, relazioni sessuali, generazione ed educazione dei figli, e dunque che il semplice status di conviventi comunque impedisse, finché dura, l’accesso ai sacramenti. Oppure che si cercasse un’altra via...”.

    Un’”altra via” è appunto quella che Bonandi esplicita nella parte finale del suo saggio, senza la minima intenzione – sottolinea – di introdurre un’eccezione all’indissolubiliutà del matrimonio, ma “come saggia prassi ecclesiastica verso coloro che si presentano in situazione di irregolarità al ministro ordinato della Chiesa per chiedere i sacramenti”.

    Ecco qui di seguito la formulazione testuale della proposta, a partire dalla descrizione di una situazione tipica e “tutt’altro che rara”.

    Il saggio integrale è nel numero di giugno 2006 di “Teologia”, alle pagine 222-248, sotto il titolo: “Riflessioni sulla prassi ecclesiastica circa l’ammissione ai sacramenti di fedeli divorziati risposati”.

    Il brano che segue è ripreso dalle pagine 240-243, per gentile concessione dell’editore:


    ”Ecco dunque una descrizione del caso tipico...”

    di Alberto Bonandi


    Al ministro ordinato si presenta un fedele il quale ha maturato, con l’aiuto di Dio e di alcuni credenti, una chiara consapevolezza della propria situazione morale e spirituale. Dieci anni addietro egli iniziò, dopo un certo degrado interiore e affettivo, a tradire la moglie, la quale invece non cessò di rimanergli fedele. A un certo punto decise di abbandonare moglie e figlio, di accompagnarsi con un’altra donna e infine di divorziare, per passare con la seconda donna a nozze civili. Da queste nacque dopo qualche anno un figlio.

    L’uomo ora assolve con precisione agli impegni finanziari derivati dal matrimonio, e partecipa, per quanto possibile, alla educazione del primo figlio. Egli comincia a riapprezzare il Vangelo, col quale era entrato in contrasto, nonostante la buona educazione cristiana ricevuta. Ne riconosce profondità e valore anche a proposito del matrimonio. Da tempo egli nutre un profondo sentimento di pentimento e volontà di riconciliazione con Dio e la Chiesa.

    Confrontato dal ministro con le richieste della Chiesa in ordine alla riconciliazione sacramentale, egli fa presente che la sua condizione di vita per molti aspetti importanti non è reversibile.

    Non lo è affettivamente, per i legami nuovi che ha di propria iniziativa contratto: egli riconosce onestamente di non riuscire a pensare se stesso nella condizione del single.

    Non lo è moralmente, in quanto la compagna e il secondo figlio dipendono effettivamente ed emotivamente da lui, che liberamente ha preso l’iniziativa di vincolarsi ad essi.

    Egli confessa ancora di non poter assicurare, nonostante un sincero impegno personale, una continenza sessuale permanente con la compagna con la quale ha iniziato una relazione personale seria; anche e anzitutto perché la compagna chiede di continuare ad alimentare una normale affettività e un sano esercizio della sessualità, come pure di generare un altro figlio. L’idea di troncare le relazioni sessuali, cosa di cui peraltro egli non aveva mai parlato prima di riprendere in tempi recenti un cammino di vita cristiana, trova lei totalmente contraria, come pure la negazione a priori della generazione di un secondo figlio. L’uomo stesso onestamente ammette di essere in una condizione affettiva simile, per quanto riconosca e assuma fino in fondo le proprie colpe e responsabilità verso il matrimonio del cui fallimento si giudica principale artefice.

    Ecco un possibile percorso ulteriore. Il sacerdote lo accoglie sottolineando quanto segue.

    Egli accetta di buon grado che il fedele cominci a comprendere il proprio peccato, e intenda sinceramente convertire il proprio cuore, e lo incoraggia a proseguire sulla via del pentimento e del rinascimento.

    Gli ricorda che la prima unione fu e rimane l’unico matrimonio della vita. E di conseguenza non è pensabile una seconda unione quale sacramento dell’amore di Cristo per la Chiesa.

    Propone quindi un cammino di riconciliazione con Dio e con la Chiesa.

    Il fedele irregolare deve sottoporre la propria buona volontà alla disciplina penitenziale della Chiesa secondo le forme indicate più avanti.

    Inoltre la sua riconciliazione e riammissione alla comunione eucaristica al termine o a un certo stadio del cammino penitenziale esige naturalmente l’adempimento dei doveri verso le persone coinvolte nel matrimonio e recentemente nella nuova relazione.

    Tuttavia la sua riconciliazione futura in nessun modo significa:

    a) che il suo matrimonio sia dichiarato giuridicamente o riconosciuto moralmente nullo, o comunque non più sussistente nel senso di spianare la via ad un secondo matrimonio;

    b) che la presente unione abbia validità e qualità precisamente matrimoniale e sacramentale. Essa, come atto di quell’uomo che l’ha voluta e compiuta, porta il segno del suo peccato a modo di pena, anche se, avvenuta la riconciliazione, non porta più il peccato come colpa.

    Pertanto la remissione del peccato e la comunione eucaristica vengono concesse, come scelta sub-ottimale rispetto all’impegno richiesto ai cristiani nel matrimonio, a queste condizioni:

    a) riconoscimento della gravità del peccato dell’infedeltà e della intangibilità dell’unico matrimonio;

    b) accoglimento della penitenza proposta dal sacerdote;

    c) serietà piena dell’impegno nell’unione presente, che coinvolge l’intera vita di persone quali la convivente e i figli.

    Insomma, la prassi riconciliatrice della Chiesa non esige ‘ex post’, in questo caso dopo dieci anni, né la rottura della seconda convivenza come coabitazione effettiva, comunione affettiva e unione sessuale, né lo status di coabitazione a modo di amicizia [senza l’esercizio della sessualità].

    Ciò non significa l’accettazione della convivenza da parte della Chiesa come condizione normale della vita cristiana, ossia come stato pubblico nella Chiesa. Significa solo – alle condizioni dette – il perdono del peccato compiuto e la riammissione alla comunione eucaristica.

    Insomma, la Chiesa subisce ‘ex post’ la condizione presente del fedele irregolare, – condizione non modificabile se non per dismissione delle nuove responsabilità assunte, mentre peraltro non viene neppure ripristinato il matrimonio iniziale – ma non la benedice.

    La prassi qui proposta verrebbe quindi a distinguere tra validità del matrimonio – che resta unico – e condizioni per la riconciliazione sacramentale.

    Mantenendo intatta la validità del matrimonio, mutano in parte [rispetto alla disciplina vigente] solo le condizioni di accesso ai sacramenti, che tengono conto di alcuni aspetti irreversibili (non in senso fisico, ma morale: si tratta di veri e propri obblighi morali assunti e non dismissibili) di una situazione che coinvolge altre persone, come appunto quella di relazioni affettive e sessuali e di generazione di figli: situazione che l’interessato non può più, per la struttura intrinseca di quelle relazioni, regolare tra sé e sé soltanto.

    Quanto al cammino penitenziale, esso potrebbe cominciare prima della celebrazione del sacramento della penitenza, con un colloquio spirituale.

    Prevede ovviamente l’intervento di un sacerdote il quale fa riferimento al vescovo o a un suo delegato penitenziere.

    Richiede inoltre una certa durata da stabilire con sapienza e comprende alcune delle seguenti opere penitenziali, secondo il tradizionale triplice modello di preghiera, digiuno ed elemosina, ritmate su una scadenza giornaliera o settimanale per alcuni mesi, a modo di itinerario: lettura delle Scritture, preghiera dei salmi o della liturgia delle ore, partecipazione alla celebrazione dell’eucaristia (ma senza ricevere la comunione) e a corsi di catechesi per adulti, recita del rosario, pellegrinaggi, digiuno moderato dal cibo e dal divertimento specie in preparazione alla liturgia domenicale, offerte in denaro a poveri vicini o lontani, assunzione di ruoli sociali di servizio nell’ambito delle professione o del volontariato, impegno di perdono e riconciliazione con il coniuge, eccetera. Certo il cammino dovrebbe essere modulato in riferimento alla confessione dei peccati e quindi alla condizione effettiva del penitente.

    Risulta chiaro a questo punto che secondo la nostra proposta l’ammissione ai sacramenti non può essere decisa privatamente dal singolo fedele in base a un proprio individuale giudizio di coscienza, ma passa integralmente attraverso la celebrazione ecclesiastica e il ministero sacerdotale.

    E ancora, essa non può essere permessa in talune circostanze straordinarie di nuovo decise dal singolo fedele, come la prima comunione di un figlio o le esequie di un parente. Neppure può essere lasciata solo alla decisione prudente del singolo sacerdote. È bene che vi sia una comune e determinata prassi ecclesiastica.

    __________


    L’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II del 1981 che stabilisce (al paragrafo 84) le regole attuali sulla comunione ai divorziati risposati:

    > “Familiaris Consortio”

    E la successiva lettera del 1994 della congregazione per la dottrina della fede, all’epoca presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger:

    > Circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati

    __________


    I due discorsi nei quali Benedetto XVI è intervenuto sul tema:

    > Incontro con il clero della diocesi di Aosta, 25 luglio 2005

    > Al tribunale della Rota Romana, 28 gennaio 2006

    __________


    La rivista “Teologia” su cui è uscito il saggio di Alberto Bonandi è espressione della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, che ha sede in Milano, via dei Cavalieri del Santo Sepolcro 3, telefono +39.02863181:

  2. #2
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    ecco perchè con una condanna esemplare del vescovo di lugano , si istruiscono tutti gli altri .
    colpisci uno per istruirne cento dicevano le brigate rosse , e avevano ragione !

 

 

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