Antonio SOCCI, Roberto FONTOLAN
Tredici anni della nostra storia (2^ puntata)
tratto da Il Sabato, 5.9.1987, n. 36
Divorzio e dintorni. La grande disfatta in nome di valori.
E' il maggio 1974. Una data fatidica. Al referendum per il divorzio l'Italia si spacca in due. Da una parte il fronte del Sì all'abrogazione guidato da Fanfani, dall'altro quello del No guidato dall'Espresso. Ogni pronostico viene sovvertito. I no vincono a valanga. Quello che Andreotti aveva temuto e in ogni modo cercato scongiurare si avvera. All'indomani della vittoria l'Espresso chiede subito la resa dei conti, non in termini di mutamenti di costume, ma di cambiamenti di potere. Ma come si era arrivati ad uno scontro simile? In nome di che cosa i cattolici l'avevano voluto? E dove stava l'errore? Il Sabato con una ricostruzione inedita e sotto certi profili clamorosa, verifica errori, miopie ed equivoci. La sentenza? Il 1974 fu la sconfitta di un cristianesimo arroccato in difesa dei valori e ormai rivitalizzato. Intanto il grande potere laicista conquistava nuove poltrone e partiva all'assalto delle poltrone altrui. La guerra all'Ambrosiano partiva in quei giorni...
Preludio del voto sul divorzio fu il cambio di guardia alla Confindustria. Lombardi, cattolico, venne sostituito da Gianni Agnelli. Intanto l'Espresso, con Eco e Scalfari, inizia la sua offensiva contro alcuni centri di potere economico. Nel suo obiettivo c'era anche l'Ambrosiano. Ispiratore era il misterioso Bancor, che poi si capì essere Guido Carli.
Sul referendum sul divorzio si giocò una grande scommessa politica. Nella Dc dovette piegare invece la cautela di Andreotti che sua Concretezza aveva sin dall'inizio capito quale conseguenza un eventuale sconfitta avrebbe portato.. Andreotti propose anche una via di uscita con una riforma. Ma il fronte antidivodista bocciò il progetto. Così si arrivò alla prova di forza con esiti disastrosi ben noti.
Il 1° dicembre 1970 è sanzionata la legge Fortuna-Baslini che introduce il divorzio in Italia. Contemporaneamente un gruppo di 25 intellettuali (per lo più cattolici) lancia una raccolta di firme per l'indizione di un referendum abrogativo della legge.
Si moltiplicarono i contatti dei partiti laici (e del Pci) con la Dc per correggere la legge ed evitare così il referendum. Fra le varie proposte di revisione ve ne fu una di Giulio Andreotti.
«Le conseguenze del referendum» scriverà Andreotti «ci preoccupavano anche indipendentemente dal risultato, per il fatto di veder parlare gomito a gomito alle folle, ed entrare nei salotti i comunisti e i liberali, i socialisti, i socialdemocratici e gli amici di La Malfa».
Andreotti insomma temeva che un simile referendum finisse per provocare per la prima volta un pericoloso patto d'acciaio anticattolico fra tutti i laici: un evento dalle conseguenze imprevedibili. Ed anche il Papa, con monsignor Bartoletti, aveva lo stesso timore.
Con un articolo su Concretezza dunque Andreotti proponeva un doppio statuto: l'indissolubilità per i matrimoni concordatari (contratti cioè in chiesa) e la dissolubilità per i matrimoni civili. Era una via d'uscita realista e dignitosa.
Paradossalmente furono proprio i cattolici del Comitato per il referendum i più ostili a quella proposta: «Il referendum s'ha da fare e si farà» risposero. E diffidarono la Dc dal tentare ulteriori modifiche per evitare il referendum.
Anche i radicali e Fortuna, sull'altro fronte, erano per celebrare ad ogni costo il referendum. Così, dopo due anni di rinvii, la consultazione veniva messa in calendario per il 12 maggio '74.
Il risultato fu disastroso. Non solo per il numero dei Si (appena 13 milioni). Come temeva Andreotti si presentò ai laici una ghiotta occasione, attesa da anni, per «suonare la carica» (l'espressione è di Scalfari).
Così anche Moro, nel luglio '74, lamenterà l'imprudenza di «quei cattolici che, sia pure per generosa passione, hanno portato ad una grande prova senza avere sufficiente consapevolezza della fragilità di valori ideali calati nella realtà di una società in rapida evoluzione».
Ma chi erano dunque questi cattolici e quale fu la loro scommessa?
Gli equivoci del referendum
Fra i promotori del referendum c'erano anche uomini come Augusto Del Noce e Giorgio La Pira, così come c'erano Ada Alessandrini (già dirigente nazionale dell'Udi) e Lina Merlin (senatrice socialista), ed i vecchi geddiani.
Ma il nucleo dirigente del Comitato (quello che rifiutò ogni proposta di modifica della legge) proveniva proprio da quei cattolici intellettuali da cui emersero anche i cattolici del no («questi ultimi non senza collegamento con settori dell'istituzione ecclesiastica» ha scritto lo storico Andrea Riccardi su Il Regno).
«Entrambi gli schieramenti» scriverà Scoppola alcuni anni dopo «esprimevano elementi importanti di una comune tradizione culturale». Ai convegni di Lucca del '67, di San Pellegrino del '63, alle settimane sociali, si era elaborata un'analisi comune della secolarizzazione.
E' lo stesso Scoppola ad ammetterlo: «Non era riconducibile semplicemente a un'idea di destra quella che ispirava, nella sua originaria elaborazione, la proposta abrogativa... Nasceva anzi in taluno dei proponenti da un'approfondita riflessione sul significato e sugli esiti ambigui... della "sfida tecnologica"». E' emblematico che all'interno della Cei il più defilato fosse il cardinal Siri che -secondo Andreotti- «non firmò la richiesta di referendum e disse ai preti e alle suore della diocesi di fare altrettanto».
Così il Comitato si muove dentro le coordinate profilate da Lazzati con la sua nota «distinzione dei piani»: critica la Cei rea di aver trasformato una battaglia civile in una guerra clericale; sostiene che «le strutture della società civile hanno una loro logica naturale laica e l'indissolubilità del matrimonio è un valore squisitamente civile e laico»; si oppongono sia «agli integralisti laicisti... che agli integralisti cattolici che non riescono mai a vedere la realtà sociale come una realtà che ha valori propri ed espressioni autonome e quindi considerano problemi sociali sempre e soltanto in chiave strettamente religiosa» (Cotta).
Del resto le stesse motivazioni del referendum sono prese "in blocco" dal Lazzati-pensiero. Nel novembre del '48, un noto editoriale di Lazzati su Cronache sociali, dal titolo Azione cattolica e azione politica, sanzionava due diversi tipi di azione del cristiano: «Quello naturale e quello soprannaturale, cioè quello tecnico e quello spirituale... nel primo egli agisce in quanto uomo, nel secondo in quanto cristiano». E guai alle commistioni. Lazzati tuttavia individuava delle res mixtae che potevano straordinariamente chiedere ai cristiani di varcare la soglia "spirituale" per impegnarsi nella sfera sociale: una di queste materie era appunto il matrimonio.
Si hanno così due fazioni cattoliche (una per il si, l'altra per il no) allievi degli stessi maestri, che ingaggiano su sponde opposte un'identica battaglia: quella dei valori. La divergenza era solo sui posti in classifica: i primi ritenevano di dover «salvaguardare innanzitutto il valore fondamentale della famiglia... per bloccare la corsa della società permissiva... e per una ripresa di serietà nella vita associata». I secondi mettevano al primo posto «i valori del pluralismo civile e della libertà di coscienza».
Per uno strano, inquietante fenomeno il mondo cattolico italiano si impregna di un positivismo volgarizzato e diffuso, che inavvertitamente sostituisce Cristo, sorgente di una creatura nuova, con una speranza vaga e impotente nei valori. I cattolici si riducono -secondo le parole di Feuerbach- «a testimoni di un'assenza, che vivono delle elemosine di secoli ormai trascorsi».
Dominava insomma la pia illusione che il tessuto morale del popolo italiano fosse accora impregnato di un senso comune di derivazione cattolica (e che comunque questo bastasse, e definisse il volto del cristiano nel mondo). Così si diffusero sondaggi preelettorali che davano i sì al 69%, e soprattutto si dichiarava ai quattro venti che la base comunista avrebbe in massa votato sì (secondo la vecchia fissazione della scuola dossettiana per cui la classe operaia era l'unica oasi morale integra e non corrotta dal borghesismo).
Si infilava così la Chiesa nel cul de sac dei valori. «L'errore sul quale erano fondate tali speranze» per dirla con Carl Schmitt «è paragonabile a quello del nobil cavaliere, il quale vede un riconoscimento del suo cavallo ed una assicurazione della sua esistenza cavalleresca nel fatto che la tecnica moderna calcola l'energia in cavalli vapore».
Così i cattolici italiani (imbevuti di ideologia maritainista) convinti che i valori della pace, della responsabilità, della libertà rappresentassero la realizzazione storica della fede (o fossero la fede tout-court) non erano neanche sfiorati dal dubbio sulla loro consistenza. E come il nobil cavaliere di Schmitt non vollero capire che i cavalli-vapore hanno in comune con il noto quadrupede appena il nome.
Ecco perché Umberto Eco, esultando su L'Espresso per la vittoria dei no, poteva scrivere con disprezzo: «Di fronte c'era la disinformazione, il rifiuto ottuso di leggere i nuovi libri, la scrollata di spalle dello stupido che assiste alla presa della Bastiglia e dice: 'ragazzate'».
E intanto i gesuiti...
Ragazzate infatti non erano. Per anni i cattolici avevano continuato a pascersi di vento illudendosi sulle «magnifiche sorti e progressive» della fede, surrogata nel mondo moderno in una specie di religione dei valori. Emblematico il caso de La Civiltà Cattolica in quel 1974.
L'ordine dei gesuiti in Italia stava subendo in quegli anni un vero crollo (nel periodo 1900-1950 in media 40 giovani ogni anno entravano nei loro noviziati in Italia; nel periodo 1970-1975 la media era di 2 l'anno). I gesuiti de La Civiltà Cattolica erano fra i più convinti assertori di una grande universale religione dei valori fino alla sostanziale riabilitazione ecumenica della massoneria: «Sul piano operativo» scriveva la rivista in quel 1974 «esistono diversi punti di contatto: l'impegno in difesa della libertà e dei diritti dell'uomo, le opere di beneficienza, la posizione assunta nei confronti del materialismo».
Filantropia massonica e carità, per i padri gesuiti erano tutt'uno (in quegli anni peraltro la filantropia delle grandi organizzazioni massoniche internazionali consisteva -come si sa- in colossali finanziamenti a piani di sterilizzazione e aborto di massa nel Terzo Mondo).
Per padre Sorge i cattolici «sale della terra» devono guardarsi non tanto dal sale che diventa insipido (come fa il Vangelo) ma dal «trasformare il mondo in una saliera».
Per questo fin dal 1968 Giovanni Caprile s.j. era stato fra i promotori delle «Conversazioni cattolico-massoniche» con dirigenti del Goi come Roberto Ascarelli e Augusto Comba (valdese). Nel luglio del '74, rendendo pubblica una lettera del cardinal Seper (Prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede) al cardinal Krol, La Civiltà Cattolica lascia presentire addirittura una caduta della secolare scomunica: «possa ciò favorire quel dialogo» scriveva la rivista «a cui la Chiesa è sempre disposta, nel comune interesse di servire il mondo e di affrancarlo dal prevalere delle forze della materia, in nome dei valori spirituali e di una fede, spesso comune, nell'unico vero Dio, al di sopra di ogni appellativo Padre di tutti!» (il corsivo è nostro, ndr).
Era la prima volta, dopo due secoli e 450 documenti di condanna da parte della Chiesa, che una fonte cattolica identificava il dio massonico con una «fede comune nel Dio Padre di tutti» (bisognerà attendere il 1981 perché una nuova Dichiarazione scritta della Sacra congregazione, tronchi ogni ambiguità ribadendo da parte della Chiesa la condanna della massoneria e la scomunica per i suoi aderenti).
Ma è impressionante collocare questo abbraccio sui valori comuni accanto al contemporaneo progetto di potere della finanza laicista di quegli anni e alla devastazione umana che quel progetto doveva determinare: «Le vittime principali di questo penitenziario sono i giovani ...che stanno pagando questa falsità -il cinismo del nuovo potere che ha tutto distrutto- nel modo più atroce» scriveva Pasolini proprio in quel 1974.
E' ancor più impressionante ricordare che molti anni fa Comte auspicava nei gesuiti un mutamento che li rendesse «utili ausiliari che potranno aiutare a riorganizzare l'Occidente, purché riconoscano la normale superiorità della religione positiva». Scriveva un suo discepolo: «Comte non ha tentato la folle avventura di sovvertire il quadro dei valori... egli oppone alla Buona Novella il Vangelo del buon senso sistematizzato».
Ma, osservava il De Lubac, «il buon senso non basta per portarci il Verbo della salvezza... Noi crediamo che la minaccia positivista sia una di quelle che gravano più pericolosamente sopra di noi... Essi (i positivisti) seducono i credenti con formule equivoche, con lo scopo, secondo Comte, di meglio evacuare lo spirito cristiano... Anche uomini di Chiesa troppo poco curanti del Vangelo» aggiungeva De Lubac «si lasciano adescare... Essi sono seguiti da un periodo di assimilazione spontanea e la fede, che un tempo fu adesione vitale al mistero del Cristo, ora si riduce a non essere altro che un attaccamento ad una formula di ordine sociale, essa stessa falsata e sviata dal suo fine. Apparentemente senza crisi, sotto esteriorità che sono talvolta il contrario di un'apostasia, questa fede si è lentamente svuotata della sua sostanza» (da Il dramma dell'umanesimo ateo).
Di fronte ad «un cristianesimo sempre più minorato, semplificato, e ridotto in fine a teismo vago e impotente» (Comte), il profeta del positivismo può proclamare ai suoi: «Impadronitevi del potere... Non bisogna dissimulare che i servitori della religione dell'Umanità oggi finiscono per eliminare radicalmente i servitori di Dio da ogni posto direttivo degli affari pubblici... Quanto a quelli che vorrebbero invece combinare Dio e l'umanità, la loro inferiorità mentale è evidente, polche vogliono conciliare due regimi totalmente incompatibili».
La notte dei valori
Quella dei valori è una notte dove tutte le vacche sono nere. Così lo stesso padre Caprile scorgeva nella contestazione della Chiesa «un segno dei tempi, cioè un avvenimento attraverso il quale lo Spirito che parla alla Chiesa stimola a riflettere sulle proprie responsabilità... raccogliere queste voci positive, approfittare della contestazione per far maturare un nuovo stile pastorale» (Concilium, 7, '71).
La riduzione del cattolicesimo alla grande religione dei valori, la riduzione della carità a filantropia, la sostituzione del dogma con un vago umanitarismo, «trasforma la Chiesa» come dichiarava lo storico Gianni Vannoni «in una massoneria per il popolo». La religione dei valori semplicemente è la fine della Chiesa. «La sconfitta degli antidivorzisti» notava nel '74 un cattolico antidivorzista come Rodolfo Quadrelli «è dovuta anche alla banalità giuridica e sentimentale con cui la battaglia è stata condotta... Una Chiesa sentimentale» aggiungeva «che si esprime in una prosa melensa, timida, euforica non può opporsi al divorzio. E infatti... poco tempo fa, il portavoce della Cei difendeva l'indissolubilità del matrimonio adducendo la comune credenza dell'umanità, 'visibile perfino nelle canzonette', diceva. Il lettore capirà» concludeva Quadrelli «a cosa egli alludesse: all'amore romantico di due che si promettono fedeltà eterna, cioè a quella nauseosa porcheria che può essere sopportata soltanto da una plebe che non è più popolo, che non ha più dignità né grandezza, che tollera la propria condizione soltanto perché non possiede niente di meglio».
Era gioco facile perciò per Raniero La Valle (uno dei cattolici del No poi candidato nelle liste del Pci) rovesciare l'accusa di 'secolarismo' sugli antidivorzisti: «Quando dei cristiani riducono tutto il discorso ad una dimensione puramente umana e giuridica dietro c'è una teologia, ma è la teologia della secolarizzazione radicale, è la teologia della morte di Dio» (da Per una scelta di libertà).
Fin dall'Unità d'Italia, scrivono due storici protestanti, Aurelio Penna e Sergio Ronchi (Protestantesimo, editore Feltrinelli), «si era avuta l'impressione che gli statisti italiani volessero dar mano libera al protestantesimo come arma nella lotta contro la Chiesa cattolica». Con il '900 «tra i nomi di maggiore rilevanza c'è Giuseppe Gangale, stretto collaboratore di Piero Gobetti, che fu l'animatore del cosiddetto 'neoprotestantesimo' verso il quale indirizzarono la propria attenzione anche... Lelio Basso, Ugo La Malfa e Giorgio Amendola» (che era poi l'entourage di Mattioli alla Comit). L'antico sogno laicista cominciava dunque negli anni '70 ad avverarsi. Era una vittoria storica di portata enorme. Così all'indomani del referendum del 12 maggio in un editoriale L'Espresso scriveva: «Sta di fatto che gli italiani devono essere grati alla Dc, al suo capo, alla Cei e a quei leader cattolici che hanno voluto ed imposto al Paese una prova assurda e tuttavia non inutile. Mai un test etico-politico, applicato ai nostri connazionali, era approdato ad un risultato più confortante».
La sconfitta di Fanfani
Il vero sconfitto fu Fanfani. Il referendum «è innanzitutto la sconfitta di Fanfani, cioè dell'ultimo rappresentante dell'ambiguità dossettiana e post-dossettiana» (Raffaele G. Longo, La sinistra cattolica in Italia, Bari '75). Il segretario Dc aveva fatto una grossa scommessa politica sul referendum. Intendeva coagulare attorno ad un progetto di repubblica presidenziale, e al potere economico delle Partecipazioni statali (con Cefis), una grande opinione pubblica orientata sui valori tradizionali, verso una prospettiva di tipo gollista.
«Attraverso Cefis» scriveva L'Espresso del 31 marzo '74 «Fanfani si è assicurato il saldo appoggio dell'ala basista di Marcora e De Mita». E' curioso che proprio questa sinistra Dc, peraltro dichiaratamente filo-divorzista, facesse blocco con il progetto di Fanfani.
Il risultato segnò il tracollo definitivo del Fanfani-pensiero, ovvero dell'ultima traduzione politica 'dossettiana' (di lì a poco anche Cefis uscirà di scena).
Ma quel blocco d'alleanze è significativo. Cosa poteva saldare Fanfani, i basisti e Cefis (sostenuto da Cuccia e Carli)?
Si tratta di un episodio-chiave i cui antefatti meritano di essere raccontati. Era stato Enrico Mattei a volere e finanziare la nascita della corrente di Base nel 1953, con 3 milioni affidati a Marcora (che fu vice di Cefis nelle brigate partigiane) per finanziare una rivista politica. La corrente di Base serve a Mattei come copertura politica per i suoi traffici e i suoi progetti nell'industria di Stato. Dove peraltro sarà appoggiato anche da Fanfani che vi intravede la possibilità di sottrarsi ai condizionamenti della Confindustria e di realizzare una terza via dossettiana in economia. Mattei del resto si era formato alla scuola 'maritainiana' della Cattolica dove, insieme a Dossetti, Lazzati e Fanfani insegnava Marcello Boldrini (il suo maestro, che poi Mattei vorrà alla presidenza dell'Agip), convinto assertore dell'intervento statale in economia (che per Sturzo era come fumo negli occhi).
Questo gruppo di potere sarà curiosamente riconosciuto e accettato dall'establishment della borghesia laicista: è grazie al finanziamento di Mattioli (la Comit sborsò un miliardo) che Mattei (in odore di massoneria come Mattioli) pose le fondamenta dell'Eni.
Così anche l'Iri del Gran Maestro Beneduce accoglierà una nuova classe dirigente: Marcello Glisenti (che aveva diretto Cronache sociali di Dossetti), Felice Balbo e poi Pasquale Saraceno ('maritainiano' convinto e dirigente dei Laureati cattolici).
Saraceno (che nel '74 sarà fra i firmatari dell'appello dei cattolici del no con Scoppola, La Valle ecc.) con la Svimez -il centro studi dell'Iri per il Mezzogiorno- è il grande ispiratore della politica di programmazione e di controllo pubblico dell'economia che porterà alla nascita della Cassa per il Mezzogiorno.
Sulla sua posizione convergono sia la Base (Mattei intravedeva nella Programmazione una grossa chance per la sua Eni) che Fanfani e Moro. I convegni di San Pellegrino del '62 e '63, non a caso, vedranno in primo piano Saraceno, Andreatta e Ardigò.
E' una politica che raccoglie l'appoggio entusiasta de L'Espresso di Scalfari e dei gruppi finanziari che esso rappresenta, che fin dagli anni Trenta avevano capito i vantaggi dell'intervento statale in economia... Sarà lo stesso Scalfari nel suo 'memoriale' che ricorda «fra coloro che dedicarono una vita a realizzare quel progetto per tanti versi illuministico, oltre a La Malfa, a Lombardi e ad Antonio Giolitti, anche Pasquale Saraceno, i democristiani della corrente di Base, il folto gruppo dei cosiddetti 'giovani economisti' e cioè Sylos Labini, Andreatta, Spaventa, Pedone, Lombardini, Forte... la Banca d'Italia, il cui direttorio era allora composto da Carli, Ossola e Baffi. Nella medesima direzione osserva Scalfari «si muoveva lo staff della Comit, guidato da Mattioli, Bombieri e Cingano».
Scalfari parla e scrive con devozione di Mattei che peraltro contribuì 'finanziariamente' alla nascita de L'Espresso e che da questo sarà sostenuto non poco. E' a Mattei che Scalfari confida per primo il progetto di fondazione di un nuovo giornale: del resto il grosso della redazione de La Repubblica proverrà da Il Giorno di Mattei (ad esempio Giorgio Bocca e Mario Pirani, vice di Scalfari che era stato uno stretto collaboratore di Mattei). Una curiosità. Proprio in quegli stessi anni all'ufficio studi dell'Eni sarà assunto -anche per le raccomandazioni de] professor Faleschini- il giovane Ciriaco De Mita, che fonderà poi la Base nel Meridione.
Il successore di Mattei, Cefis, sarà anch'egli nelle grazie di Scalfari, oltreché in quelle di Carli e Cuccia. E del vecchio Mattioli, che dopo la morte di Mattei, confiderà a Giancarlo Galli: «Adesso mi restano Agnelli e Cefis e qualcosa di Cuccia». Del resto il gruppo di potere Mattei-Cefis aveva fatto blocco comune con l'oligarchia laicista contro altri finanzieri o industriali legati all'area cattolica.
Questi antefatti spiegano perché nel '74 Cefis, insieme a Fanfani e la Base, goda ancora dei favori di Carli e Cuccia. Ma è l'inizio della fine. I 'privati' (Agnelli, Visentini, La Malfa e Pirelli) cominciano a rompere l'alleanza con Cefis che tende a diventare sempre più potente e ingombrante.
Nello stesso anno esce Razza padrona dei «tamburini» Scalfari e Turani: un attacco durissimo all'industria di Stato di Cefis che pochi anni prima avevano osannato. E' la carica. Il referendum sul divorzio deve decidere le sorti di questa guerra. Sta finendo il placet che la finanza laicista aveva concesso a questi cattolici 'laicizzati' (Mattioli muore nel '73).
La carica de L'Espresso
Fu dunque un referendum politico. Fanfani era quasi certo di vincere. Forse anche per questo aveva risposto picche al tentativo di Andreotti di evitare il referendum (Fanfani del resto aveva bisogno di un pronunciamento plebiscitario dell'opinione pubblica per il suo progetto neo-gollista). Ma, come Andreotti aveva previsto, il referendum innescò la grande riscossa laicista.
Infatti è proprio con il 12 maggio che gli assetti del potere nazionale subiscono una svolta radicale, con una escalation precipitosa e impressionante.
Il governatore della Banca d'Italia vola a New York in primavera e il New York Times scrive: «A tenere in pugno la soluzione della crisi italiana non sono gli uomini politici di Roma, ma le principali potenze monetarie del mondo». L'asse Cuccia-Carli-La Malfa (a Mediobanca, alla Banca d'Italia e al governo) è la quinta colonna laicista nel Palazzo, ma il generale è mister Fiat.
Il tamburino dell'esercito, Scalfari, lo scrive chiaramente su L'Espresso alla vigilia del referendum: «Agnelli è il punto di raccolta oggettivo di tutte le forze che si opponevano all'avanzata di Fanfani e Cefis... dai liberali ai comunisti... La presidenza della Confindustria assumeva in questo contesto il significato di un messaggio in codice, una specie di squillo di tromba prima della carica».
Infatti in primavera era stato Umberto Agnelli, parlando al centro Il Mulino di Bologna, ad attaccare la Confindustria del cattolico Lombardi.
Puntualmente di lì a poco Renato Lombardi è defenestrato, sostituito dallo stesso Giovanni Agnelli grazie all'alleanza con Pirelli, Orlando e Visentini.
Ma per suonare la carica bisogna aspettare il 12 maggio. Non si tratta solo di sconfiggere Fanfani e Cefis (antico alleato), ma anche di eliminare tutta la presenza cattolica nel mondo economico. Scalfari, su L'Espresso, fa nomi e cognomi. Il 31 marzo scrive ad esempio un editoriale intitolato: «Due, tre cose sul Banco Ambrosiano». E vi sostiene: «Il Banco Ambrosiano è divenuto uno dei gruppi più pericolosi della finanza italiana». Guarda caso proprio in quel periodo hanno in corso grosse e delicate operazioni finanziarie: la Centrale (Ambrosiano), la Invest (gruppo Bonomi), la Generale Immobiliare (gruppo Sindona), Fingemina (Cefis), e Finambro (Sindona).
Carli e La Malfa riescono a prorogare per mesi le relative autorizzazioni. A sostenerli in questa condotta, sull'Espresso oltre a Scalfari e Visentini, compare un misterioso collaboratore che si firma Bancor: si verrà a sapere alcuni anni dopo che si trattava (incredibilmente) dello stesso governatore della Banca d'Italia Carli: «in quell'occasione (la lotta contro Sindona) il gruppo, che s'era diviso nello scontro con Cefis, si ricompattò» scrive Scalfari «perché dalla stessa parte si schieravano, oltre a noi (cioè Agnelli, Visentini, La Malfa e Pirelli), anche Carli e Cuccia». Il referendum segna la svolta decisiva di questo colossale braccio di ferro.
Subito dopo il referendum L'Espresso (19 maggio) apre con un titolo rivelatore: «Cento poltrone da occupare subito». E per chi non avesse capito ancora più chiaro è il sottotitolo: «Conclusa col voto di domenica la battaglia per il divorzio, si apre quella per i posti di comando in alcuni settori chiave della vita pubblica italiana: banche, potentati politici, Rai-Tv, quotidiani. Nelle prossime settimane il chi è del potere subirà una vistosa revisione. E Scalfari personalmente commenta: «Il voto del 12 maggio ha certamente rafforzato l'ala 'laica' della Confindustria, della quale Agnelli, Pirelli e Visentini sono i naturali rappresentanti».
Una questiona di poltrone
Subito dopo il referendum si fa decisiva anche la guerra del nuovo potere (con Cuccia a Mediobanca e La Malfa nel governo) contro un corpo estraneo, l'italo-americano Michele Sindona (che godeva la fiducia delle banche cattoliche): il 27 settembre La Malfa impone la liquidazione coatta della Banca Privata Italiana. Sindona sta crollando.
Il personaggio era strano e come tutti gli gnomi non era uno stinco di santo. «Voleva a tutti i costi essere il più grande» hanno scritto Panerai e De Luca. E aggiunge Giancarlo Galli: «Il trionfo di Sindona avrebbe significato per i nostri finanzieri la loro emarginazione». Per questo fu stritolato.
I tamburini del nuovo potere han ripetuto in mille lingue che Sindona fu fatto fuori perché era un corrotto: ma c'è da pensare piuttosto che si potesse dire peste e corna di lui proprio perché aveva perduto. E' la legge degli gnomi.
Le alchimie finanziarie degli gnomi vincenti, infatti, in questi anni, hanno ben superato lo spregiudicato Sindona. Non è stato forse Merzagora (dunque uno di famiglia) a dichiarare a Panorama (8/2/87): «E' lui (Cuccia) che vuole Antonio Maccanico... alla presidenza. In Mediobanca e paraggi ci sono grossi grovigli da dipanare, sarebbe un disastro se arrivasse gente troppo desiderosa, per un motivo o per l'altro, di aprire gli armadi...». (A proposito di 'famiglia', non è curioso che il nuovo presidente di Mediobanca, Maccanico, sia il nipote di Adolfo Tino, quello che Scalfari definisce 'l'amico più amico di Mattioli', quel Tino che presiederà anche il comitato dei garanti de L'Espresso?). Ma a chi vince si perdona tutto. Perciò per anni -dopo l'eliminazione di Sindona- si è usata l'arma della delegittimazione morale per eliminare i cattolici dal mondo finanziario e bancario. Il risultato? «In questi anni -notava di recente uno studioso del sistema bancario, Gianni Manghetti- un grande cambiamento nella storia del sistema bancario è stata la scomparsa pressoché totale della banca privata» (in I soliti noti, Agnelli, Pirelli, De Benedetti e pochi altri, editore Feltrinelli). A sparire pero è stata soprattutto la presenza cattolica: il Banco Ambrosiano, la Banca cattolica del Veneto con i relativi gruppi.
Spiega don Gino Oliosi del Comitato di collegamento dei cattolici: «La finanza massonica inglese e tedesca fu capace di spedire (con i suoi finanziamenti) Lenin a Mosca perché lo zar non si rassegnava a porre il suo sistema bancario sotto il loro controllo; con molto meno, in Italia, hanno potuto eliminare Banco Ambrosiano e Banca cattolica del Veneto».
Vittimismo cattolico? Fatto sta che oggi il gruppo 'Ambrosiano' (con la Cattolica del Veneto, e poi Toro Assicurazioni, ecc.) è controllato da Gemina (ovvero Agnelli e Mediobanca).
Fra i più zelanti collaboratori alla liquidazione dell'Ambrosiano è giusto ricordare Nino Andreatta, che a suo tempo, come ministro del Tesoro, rifiutando un possibile salvataggio del Banco attraverso una grossa banca americana, decretò la liquidazione coatta.
Andreatta, che attraverso Il Mulino e l'Arel, è oggi uno dei colonnelli di De Mita (che dall'83 ha assicurato un seggio senatoriale anche a Guido Carli) è stato un protagonista della battaglia contro lo Ior. Secondo don Oliosi «è connaturato alla massoneria un progetto di controllo totale delle coscienze attraverso un nuovo ordine tecnocratico nelle sue mani: ed essa sa che solo la presenza della Chiesa può resistergli».
Per questo gli alfieri più funzionali a quel progetto sono «i cattolici dell'autodemolizione» della Chiesa. Politici, intellettuali, dirigenti di associazioni. Ma sì, eccone qualche esempio fra i moralisti.
La Fuci, ad esempio, che già nelle tesi del 40° Congresso nel 1969, chiedeva «il superamento dell'ideologia e della dottrina sociale e la rinunzia all'integralismo, l'abolizione del regime concordatario, il distacco dal potere economico, essendo scandalo e compromesso per i poveri».
Sarà proprio un ex presidente della Fuci 'maritainiana', l'onorevole Franco Bassanini, eletto nelle liste del Pci, uno dei più implacabili militi contro l'ora di religione nelle scuole, contro il Concordato e contro lo Ior.
E' l'altro lato della scelta religiosa. Nessuno è più vezzeggiato, adulato, applaudito dai giornali del nuovo potere, quanto i cattolici «moralizzatori», quelli della «Chiesa povera», e quelli della «Chiesa religiosa», con l'annessa distinzione dei piani.
Pochi mesi dopo il referendum sul divorzio, l'autorevole The Economist così disegnava la nuova situazione italiana: «A dirigere l'Italia ci sono adesso i supergrandi della finanza mondiale o delle multinazionali. Il massimo delle decisioni economiche che un governo può ancora prendere è quello di far pressione sulla gente per indurla a consumare meno combustibile». Stando così le cose è penoso e tragicomico rileggere il documento dei cattolici progressisti (le riviste: Com, Idoc, Il Regno, Il Tetto e Testimonianze) a favore del divorzio: «Per una società nuova, autonoma, laica non più controllata dal potere economico né dalla Chiesa sua alleata».
Il 9 giugno del '74 Scalfari su L'Espresso delineava già una prospettiva: «Nello spazio di pochi giorni le strutture economiche del Paese hanno registrato mutamenti di grande portata, dei quali sembra difficile sottovalutare gli effetti prossimi e quelli remoti. La Banca d'Italia, la Confindustria e i sindacati operai hanno preso quasi simultaneamente le distanze non solo dal governo, ma dalla classe politica nel suo insieme».
Il capitale massonico decide di cavalcare la tigre rivoluzionaria per portare a compimento la conquista e l'omologazione. E' l'inizio del grande conformismo. E degli anni di piombo.
Data inserimento: 2003-08-27