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    Predefinito L'omicidio di Pier Paolo Pasolini e il cuore di tenebra dell'Italia

    L'omicidio di Pier Paolo Pasolini e il cuore di tenebra dell'Italia
    [di Flavio Santi]



    La notte del 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia Pier Paolo Pasolini, attirato in un agguato, fu massacrato da una banda di sicari siciliani perché conosceva il nome del mandante dell’omicidio di Enrico Mattei. Lo conoscevano anche il giornalista del quotidiano L’Ora Mauro De Mauro, sparito nel nulla il 16 settembre 1970, e il giudice Pietro Scaglione, che su De Mauro indagava. Il mandante era il successore di Mattei all’Eni, Eugenio Cefis, temutissimo e vorace uomo di potere, futuro presidente dell’Eni e poi della Montedison, coetaneo di Pasolini e suo corregionale (era di Cividale del Friuli), morto nel 2004.
    Chi tocca Mattei muore. Perché scende nel cuore di tenebra dell’Italia, fatto di corruzioni, complicità politiche e industriali (da un appunto del Sismi, Cefis risulta il fondatore della Loggia P2), servizi segreti deviati, golpisti (Cefis fu indicato come finanziatore del fallito golpe Borghese del 1970), stragi di massa usate come strumento politico (in un discorso del 1986 a Salsomaggiore Amintore Fanfani, cui Cefis era legato profondamente, definì la morte di Mattei «il primo gesto terroristico nel nostro Paese»: ma da dove gli veniva tutta questa certezza, visto che solo dieci anni dopo, nel 1997, il pm Vincenzo Calia giunse alla conclusione dell’incidente doloso?). Se poi aggiungiamo che negli ultimi anni di vita Cefis si era interessato a società televisive (già in passato aveva tentato di scalare il Corriere della Sera, proprio negli anni in cui vi scriveva Pasolini...), e che una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali, già Edilnord s.a.s. del socio piduista Berlusconi, si chiamava Cefinvest... Semplici, per quanto inquietanti, casualità?
    Questo è quanto emerge dal coraggioso libro di Gianni D’Elia, Il petrolio delle stragi (Effigie, pp. 80, euro 10,00): laddove la giustizia tace - ricordiamo la chiusura lo scorso settembre, repentina e immotivata, da parte della Procura di Roma del fascicolo sull’omicidio Pasolini, a pochissimi mesi dalla riapertura -, sono gli intellettuali, quei pochi rimasti vigili in questo Paese che li detesta e li disprezza fino a ucciderli, a farsi carico della giustizia. Perché la porta della giustizia, come ricorda Walter Benjamin emblematicamente citato da D’Elia, è lo studio, la volontà di capire. E se i tribunali chiudono porte e indagini, non può e non deve tacere l’intelligenza dell’intellettuale e la sua ricerca della verità. Ma, come già sapevano gli antichi, la verità genera odio. Odio omicida, nel caso di Pasolini - come scrive D’Elia: «Pasolini con Petrolio ha scritto la critica dell’economia politica delle stragi in Italia, prefigurando il passaggio dal regime di Cefis (nell’ombra) al regime del Caf (Craxi- Andreotti- Forlani) e poi di Berlusconi».
    Odio censorio e repressivo nel caso del libro di D’Elia, la cui recensione è stata “sconsigliata” nelle redazioni dei principali quotidiani nazionali (e sappiamo che ci sono mille modi, uno più subdolo dell’altro, per mettere a tacere una notizia). Come dire: Mattei, e quanto ne consegue, fa paura ancora oggi.
    Il libro si avvale di una documentazione importante, innanzi tutto le carte giudiziarie di Vincenzo Calia sul caso Mattei, dove si legge: «Anche Pier Paolo Pasolini aveva avanzato sospetti sulla morte di Mattei, alludendo a responsabilità di Cefis». Ecco il passo di Petrolio in questione (di una lucidità impressionante):

    «Troya (il nome romanzato di Cefis) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti)».

    Le fonti di Pasolini erano molteplici. Innanzi tutto un libro scottante, fatto subito sparire: Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente di tale Giorgio Steimetz (presumibilmente pseudonimo di Corrado Ragozzino, titolare dell’Agenzia Milano informazioni, che stampò il volume, oggi introvabile). Pasolini lo parafrasa costantemente; basti pensare alle società amministrate da Troya/Cefis: la reale “Iniziative Partecipazioni Immobiliari” è trasfigurata in “Immobiliari e Partecipazioni”, “DA. MA” in “Am. Da”, “System-Italia” in “Pattern italiana”. L’altra fonte fondamentale, questa volta orale, è il senatore democristiano Graziano Verzotto, presidente dell’Ente minerario siciliano, cui l’Eni di Cefis aveva impedito la costruzione di un metanodotto tra l’Africa e la Sicilia. Legami pericolosi, di cui Pasolini era ben conscio, tanto da dire nell’ultima intervista a Furio Colombo, uscita postuma l’8 novembre 1975:

    «Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona [...] continuo a dire che siamo tutti in pericolo».

    Verzotto riuscì a sfuggire a un attentato nel 1975 (tetra coincidenza), e così affermò all’epoca il suo legale Ludovico Corrao: «Siamo convinti di trovarci al centro di una congiura spietata, con obiettivi di giustizia sommaria». La stessa al cui centro si trovò Pasolini (si pensi, a riprova del tutto, che De Mauro venne eliminato per molto meno).
    Delle dinamiche che avevano portato all’agguato in cui cadde Pasolini si sono già occupati con dovizia di particolari Gianni Borgna e Carlo Lucarelli nel numero di Micromega dedicato a Pasolini (n. 6, 2005), e D’Elia non manca di tornarci: il furto delle pizze del film Salò e la relativa promessa di restituzione furono la trappola che attirò il poeta fino a Ostia. Lì la carneficina. Il “concorso di terzi” era risultato così evidente dalla perizia del professor Durante e da altre incongruenze da essere subito riconosciuto nel primo grado di giudizio - e poi inspiegabilmente respinto in seguito. E comunque nel maggio 2005 Pino Pelosi, ritrattando, lo ammise.
    Dunque i tasselli pian piano stanno tornando; ne mancava uno, il più delicato, incerto e pericoloso: il motivo. D’Elia raccoglie una serie di elementi estremamente probanti, che se non sono il suggello - questo spetterà alla giustizia: a questo punto parrebbe doverosa la riapertura del caso e l’acquisizione del libro di D’Elia agli atti - sono comunque un passo in avanti decisivo per uno dei casi più scandalosi di depistaggio nella storia d’Italia.
    Questo il quadro d’insieme, poi ci sono tanti singoli punti che non tornano, e non fanno che rafforzare i sospetti: che dire, ad esempio, del paragrafo, a quanto pare risolutivo, “Lampi sull’Eni”, dato da Pasolini per già scritto in un passaggio del romanzo, e invece mancante? Venne trafugato? Secondo la testimonianza di Guido Mazzon, cugino del poeta, sì, e fu Graziella Chiarcossi, nipote ed erede di Pasolini, a dirglielo («sono venuti i ladri, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo»). Di recente la Chiarcossi si è affrettata a smentire il tutto e ribadire, con singolare insistenza, che di Petrolio non manca una virgola. Perché tanta sollecitudine?
    Dal libro di D’Elia esce il ritratto di un’Italia ignobile, che mente su se stessa, si autoassolve, corrompe e falsifica. Il primo danneggiato è il cittadino, che a tutt’oggi non ha un quadro nitido degli anni di piombo e delle stragi di massa. Così, per concludere, facciamo nostra la richiesta dell’autore: che il prossimo governo abolisca finalmente il segreto di Stato per i reati di strage e di terrorismo.



    da Liberazione, 10 maggio 2006

  2. #2
    Hanno assassinato Calipari
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    inquietante.

 

 

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