Ciao a tutti!

Riporto qui alcuni articoli che ho trovato in giro per internet riguardanti i cosiddetti "paradisi fiscali". Io li ho trovati davvero interessanti...!

Ecco il primo articolo:



IL PARADISO ESISTE di Fausto Caffarelli
Si chiamano paradisi fiscali.
E in giro per il mondo ce ne sono parecchi.

Bahamas, Belize, Seychelles: luoghi esotici che evocano paesaggi straordinari e vacanze da sogno, ma anche «casseforti» a prova di bomba per chi vuole occultare dagli sguardi indiscreti del fisco e della legge i propri capitali.

Si chiamano paradisi fiscali, o più correttamente paesi off-shore (letteralmente al largo) (vedi scheda), e sono un pilastro fondamentale del sistema economico odierno nel quale l’economia di carta conta assai di più rispetto a quella reale.
La loro crescita è esplosa negli ultimi trent’anni anni, favorita dalla totale libertà di movimento dei capitali, dalle innovazioni tecnologiche e dalla nascita di nuovi prodotti finanziari, sotto lo sguardo compiaciuto e connivente dei grandi stati. Due anni fa un rapporto delle Nazioni Unite ne aveva individuati 48, ma altre stime parlano di un numero più rilevante, che varia tra i 60 e i 90, tra cui, per limitarci all’Europa, compaiono stati come la Svizzera, Andorra, Malta e il Principato di Monaco.

Chi entra in paradiso
I motivi per cui i patrimoni approdano nei «paradisi» sono essenzialmente due: il risparmio fiscale e la ripulitura del denaro sporco che deriva da attività illecite. Vediamo il primo caso. Oggi più che mai le aziende, per stabilire dove insediare le loro produzioni, attuano quella che si chiama «pianificazione fiscale», che in parole povere significa studiare i diversi regimi d’imposizione in giro per il mondo allo scopo di individuare quelli che presentano i vantaggi più rilevanti.
La struttura operativa che viene utilizzata per massimizzare il risparmio fiscale è costituita da una società madre (controllante) e da alcune società figlie (controllate). Che succede in pratica? È facile. La madre sta in un paese ad alta tassazione e le figlie risiedono in qualche paradiso fiscale a tassazione leggera e operano tra loro in modo tale che la maggior parte dei costi gravino sulla prima (più costi, meno base imponibile, meno imposte), mentre i ricavi siano ad appannaggio delle seconde (la base imponibile aumenta, ma i tributi pesano poco) che, in un secondo tempo, distribuendo il dividendo ai soci - quindi principalmente alla casa madre - faranno ritornare il reddito alla società controllante.
Tutto legale, o ai limiti della legalità, comunque, a differenza del riciclaggio del denaro sporco che deriva da attività illecite come il commercio di droga, la vendita di materiale nucleare e di armi, il traffico d’immigrati clandestini e la corruzione. L’Interpool ha stimato in tremila miliardi di dollari l’anno i profitti di questo losco giro d’affari.
La «ripulitura» ha un percorso che si dipana attraverso tre tappe. Il prelavaggio è la fase in cui il denaro entra nel circuito legale. I sistemi sono diversi, ma uno semplice semplice è quello di prendere il malloppo che mi brucia tra le mani e di frazionarlo in piccole somme, meno sospette, che andrò a versare su diversi conti bancari da cui - è il passo successivo del lavaggio - alimenterò altri conti aperti in centri off-shore, assai refrattari a fornire informazioni in caso d’indagini giudiziarie. La tappa finale è il riciclaggio, che mi consente di diventare il faccendiere più onesto del mondo: attraverso società di comodo costituite nei paradisi fiscali acquisisco, in modo legittimo, immobili, catene di ristorazione, partecipazioni azionarie e il giochino è fatto.

Un sistema perverso
Ma questo, come quello dell’elusione fiscale, è un giochino in cui la collettività intera paga e ha pagato una posta altissima. Ci troviamo di fronte a un’economia drogata, nella quale l’entità del denaro di origine criminale è in grado di alterare i meccanismi della concorrenza, di disturbare il movimento dei capitali con il rischio di gravi crisi finanziarie com’è già successo nel passato (basterebbe citare solo il caso della Russia post-comunista) e di destabilizzare interi sistemi bancari.
I mancati introiti fiscali, invece, hanno accelerato, insieme ad altri fattori, la crisi del Welfare State indebolendo la capacità dei governi di soddisfare i bisogni dei cittadini. La fuga dei capitali italiani all’estero ha provocato in questi anni minori entrate per circa 230 miliardi di euro e minori investimenti per 400 miliardi di euro (fonte: http://www.ares2000.net, sito internet di Ares2000, associazione di ricerca socio economica). Se ciò non fosse accaduto avremmo potuto ridurre fortemente il debito pubblico, la disoccupazione non avrebbe mai toccato le cifre che conosciamo e il deficit dell’Inps godrebbe oggi di una salute migliore.

Prima e dopo l'11 settembre
Un sistema del genere è stato tollerato per anni e la responsabilità è da attribuire alle grandi potenze che non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di fare ordine nell’arcipelago off-shore, anche se, a onor del vero, qualcosa si sta finalmente muovendo e una brusca accelerazione, almeno nelle intenzioni, è stata data dalla tragedia dell’11 settembre. «Solo prosciugando le fonti di approvvigionamento e interrompendo i finanziamenti, si possono sterilizzare le azioni dei terroristi», ha scritto il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in una sua newsletter personale. «Bin Laden ha potuto agire grazie ai suoi soldi. Li tiene - depositati o investiti - nelle banche dei soliti paradisi fiscali: Cipro, Panama, Isole Cayman, ma soprattutto a Vaduz nel Liechtenstein, a Nassau nelle Bahamas e a Riad, in Arabia Saudita».
Prima del crollo delle Torri Gemelle esistevano due linee di pensiero, una più dura, vicina alla filosofia dell’Unione Europea, secondo la quale era ormai inevitabile modificare in senso più restrittivo le deboli legislazioni dei paradisi fiscali; l’altra, più soft, rappresentata dall’amministrazione statunitense ai cui occhi i paesi off-shore non apparivano così pericolosi. Solo nel luglio 2001 il presidente George W.Bush aveva respinto al mittente un piano del Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale dell’Ocse (Gafi) che prevedeva misure severe nei loro confronti.
Oggi appaiono tutti più determinati, anche se è bene nutrire più di un dubbio visto che nelle 76 pagine della nuova strategia americana contro il terrorismo, partorita subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, solo una è dedicata alla caccia dei capitali illegali.
Il problema è solo di pura volontà politica, perché se si è riusciti a imporre pesanti piani di aggiustamento strutturale a grandi paesi come il Brasile e la Russia, di là delle conseguenze nefaste che ciò ha provocato in queste nazioni, è inverosimile che non si possa limitare l’immunità finanziaria e fiscale di piccoli stati. Basterebbe, per esempio, decretare che tutte le operazioni finanziarie con i paradisi fiscali sono nulle o sanzionare imprese e istituti bancari che utilizzano centri off-shore e il circuito elusivo/illegale riceverebbe un colpo mortale.
È evidente, quindi, che la pressione di alcune lobby internazionali è stata talmente forte da impedire di assumere decisioni che andassero verso una regolazione del fenomeno. Da questo punto di vista la responsabilità delle multinazionali, che concentrano gran parte delle loro ricchezze nei paradisi sparsi per il globo, è enorme. Hanno trovato la gallina d’oro che centuplica i profitti, perché dovrebbero abbandonarla?

Il ruolo dei cittadini

Una risposta importante sta arrivando, invece, dalla società civile che, di solito, di fronte alle grandi questioni di carattere economico rimane ammutolita, perché pensa di non aver alcuna voce in capitolo e tanto meno gli strumenti per incidere sulle scelte dei suoi governi. Il 3 giugno 1998, a Parigi, sulla spinta di un articolo pubblicato da Le Monde diplomatique intitolato «Disarmare i mercati», è nata l’Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie per l’aiuto ai cittadini (Attac), ormai estesa a livello internazionale. Giornalisti, sindacati, associazioni, semplici cittadini ritenendo che di fronte ai guasti provocati da una globalizzazione dissennata non si potesse più rimanere inerti, da quel giugno hanno dato corpo a una serie d’iniziative (la più nota è il Forum Sociale mondiale di Porto Alegre) tese a mobilitare l’opinione pubblica internazionale.
E sul tema dei paradisi fiscali non hanno mancato di esprimere posizioni molto nette, proponendo una serie di misure urgenti per arginare il fenomeno tra cui l’applicazione delle leggi antiriciclaggio senza limiti territoriali, una maggiore trasparenza delle grandi banche internazionali, l’obbligo di cooperazione dei paradisi fiscali con il resto del mondo, con relative sanzioni nel caso di mancato rispetto (ad esempio, taglio dei canali informatici), la definizione del crimine internazionale d’impresa. La parola d’ordine è una sola: chiudiamo le porte ai paradisi.
Fausto Caffarelli

Per un approfondimento:
Attac.it, I paradisi fiscali ovvero la finanza fuorilegge, Asterios Editore 2001; Susan Strange, Denaro impazzito, Edizioni di Comunità 1998.

GLOSSARIO
Base imponibile: è l’importo al quale si applica l’aliquota per il calcolo dell’imposta. Semplificando al massimo, in un’impresa è la differenza tra costi e ricavi.
Dividendo: quota dell’utile di una società per azioni che viene distribuito per ogni azione posseduta.
Elusione fiscale: comportamento del contribuente che, facendo leva sulla complessità delle norme fiscali, si sottrae in modo legale al pagamento delle imposte
Società di comodo: società commerciali che di fatto non svolgono alcuna attività, costituite al solo scopo di intestare ad esse determinati beni come immobili e pacchetti azionari, per nasconderne la proprietà reale.
Welfare state: sistema sociale con il quale lo stato garantisce ai suoi cittadini un livello minimo di reddito e alcuni servizi ritenuti essenziali (scuola, sanità).
Piani di aggiustamento strutturale: complesso di riforme economiche (riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni, svalutazione della moneta) che il Fondo Monetario Internazionale impone ai paesi che non sono in grado di pagare i debiti verso l’estero.
PAESI OFF-SHORE
Nella pubblicistica corrente si è soliti parlare di «paradisi fiscali» anche per indicare, in realtà, territori che non fanno perno solo sulla leva fiscale per attirare capitali dall’estero. Nel corso dell’articolo ci adeguiamo a questo criterio per esigenze di leggibilità, ma è bene ricordare che esistono anche «paradisi societari», ovverosia paesi dove è difficile penetrare i segreti delle società costituite e «paradisi finanziari» in cui è possibile trasferire e custodire denaro senza dichiararlo. Tutto questo arcipelago è quello comunemente detto dei paesi off-shore, definizione che nasce negli Stati Uniti d’America durante gli anni Venti quando, per aggirare il proibizionismo, vennero allestite delle navi ancorate fuori dalle acque territoriali americane e sulle quali si poteva bere alcolici e giocare d’azzardo.

LA VORAGINE PARMALAT E I PARADISI FISCALI
La grave vicenda della Parmalat ha alla radice il sistema dei paradisi fiscali, un arcipelago infernale di paesi che viene tollerato e che, abolendo la tassazione dei capitali e garantendo un completo segreto bancario, è responsabile di uno «scippo planetario» a danno dei sistemi fiscali dei vari stati ma, soprattutto, degli stati più poveri. Perché non si vuole capire la gravità di questo fenomeno?
Quanti casi Enron, Cirio e Parmalat devono accadere affinché la richiesta di una tassazione internazionale dei capitali (Tobin Tax) diventi patrimonio di tutti?
La voragine Parmalat - sono tutti d’accordo - rende drammatico il problema dei paradisi fiscali che bisognerebbe regolamentare.

Dal sito web http://www.dimensioni.org

Ecco il secondo articolo:

Anche l'Italia in Paradiso
Dal libro: «Paradisi fiscali», a cura di ARES 2000 – Malatempora
Al boulevard Prince Henry di Lussembrugo, capitale dell’omonimo granducato, al nr. 13, tutte nello stesso palazzo si possono trovare le sedi di Pirelli, Mondadori, Tosi, Merloni Ariston e, 50 metri più in là, Meccanica Finanziaria, Lucchini, Autogrill, Franzoni, Gazzoni Frascara e Valentino.
E che cosa ci fa il gruppo Mediaset a Malta? E l’Istituto Mobiliare Italiano a Madeira?
E perché quasi il 50% (112 su 250) delle società quotate in borsa ed il 25% (22 su 88) dei gruppi bancari hanno partecipazioni, quasi sempre di controllo, in società residenti nei paradisi fiscali?
Molti di questi paradisi si sono appunto specializzati nella gestione dei patrimoni ed hanno sviluppato enormemente secondo le tecniche più sofisticate, (e spesso truffaldine) l’attività di gestione di fondi di investimento. Chi, in Italia o in Europa, attraverso il proprio istituto di credito cittadino, investe i propri risparmi in fondi comuni e simili, sappia che quei soldi hanno discrete possibilità di entrare nel giro di investimenti praticato dalle società che hanno sede in un paradiso fiscale (in Lussemburgo, o alle Bahamas), sappia che quei soldi entreranno in contatto con altro denaro di dubbia provenienza facilitando operazioni di candeggio o riciclaggio molto redditizie per le banche off shore e per le mafie internazionali…
Occorre a questo punto sottolineare come il nostro «rispettabile» apparato creditizio, l’insieme delle banche italiche di nobili casati non sia affatto immune dalle tentazioni e dalle lusinghe esercitate dall’arcipelago off shore. Risulta infatti che molti istituti di credito italiani, dal San Paolo all’Unicredito, dalla Banca Nazionale del Lavoro alla Banca di Roma, dalla Comit alla Banca Popolare dell’Emilia, siano titolari di società off shore con sede in paradisi fiscali, dove possono tranquillamente operare al di fuori di ogni controllo del fisco, e al di fuori della legge.

Breve storia dei paradisi fiscali
I «paradisi fiscali», il cui numero varia, secondo le stime, da 60 a 90 unità, sono dei microterritori o degli stati le cui legislazioni fiscali sono volutamente lassiste o inesistenti. Si può parlare di stati che commercializzano la propria sovranità offrendo un regime favorevole, una totale deregulation ai detentori di capitali, indipendentemente dall’origine di questi ultimi.
Ecco il estrema sintesi la loro storia:
1800 – all’origine alcuni di questi territori non erano che dei porti dove potevano trovare rifugio le navi dei grandi imperi europei, al riparo dalla intemperie e dai pirati. Quest’epoca corrisponde ad una prima fase di attribuzione della bandiera di nazionalità britannica o francese alle isole dei Carabi che si trovano al largo dell’America Latina.
1920-1930 – Incominciano ad apparire dei nuovi territori che si specializzano nella formulazione di legislazioni destinate a sottrarre i patrimoni alla imposte: Bahamas, Svizzera, Lussemburgo.
Dopo il 1945 – La Seconda guerra mondiale è decisiva per lo sviluppo dei paradisi. I territori sotto il dominio europeo non ricevono dopo la guerra gli aiuti economici sperati e vengono tagliati fuori dal piano Marshall. Alcuni territori così, invece di continuare a produrre materie prime che non garantiscono più la stabilità economica, si specializzano nell’accoglienza di flotte cui forniscono una bandiera ombra, e nell’offrire ai detentori di capitali un asilo sicuro istituendo il segreto bancario e l’assenza di tassazione.
1960-1970 – Un nuovo trampolino di lancio per l’attività dei paradisi fiscali viene fornito dall’emergere del mercato degli eurodollari negli anni 60 e dei petrodollari negli anni 70. Le grandi banche, le grandi imprese e la City di Londra, che attira tutte le grandi società finanziarie, appoggiano lo sviluppo di queste strutture, avendo tutte da guadagnare nel poter disporre di zone con debolissima imposizione fiscale. A Bahamas, Svizzera e Lussemburgo si aggiungono, in questo periodo il Liechtenstein, le Isole del Canale, le Isole Cayman, Bermuda, Panama.
1980-2000 – Nel corso degli ultimi trent’anni, proprio grazie alla liberalizzazione finanziaria che ha incoraggiato l’assenza di controllo sui movimenti di capitale su scala internazionale, il numero dei paradisi fiscali cresce vertiginosamente. I movimenti di capitale sia di origine legale trovano nei paradisi un singolare luogo di convergenza, e questo favorisce soprattutto la criminalità che ha tempo e modo di ripulire le proprie ricchezze, riacquistando verginità ed onorabilità.
L’attività dei paradisi fiscali è oggi caratterizzata da un giro di affari stimato in oltre 1800 miliardi di dollari l’anno. Nei soli paradisi europei sono registrate più di 680.000 società e un numero più che doppio di trust.
La vicenda dei paradisi fiscali rivela come le potenze industriali siano state fin dall’origine implicate nella creazione di queste oasi del riciclaggio. I paradisi hanno contribuito e contribuiscono alla fortuna delle potenze finanziarie. Difficilmente dunque le potenze accetteranno di disfarsene.


Dal sito www.disinformazione.it

1 Saluto a tutti!!!

Wardriver!