“La nuova “frontiera” del capitalismo: l’imperialismo agricolo”

di Andrea Genovali *


Non è ancora un fenomeno molto diffuso e, soprattutto, conosciuto ma la nuova frontiera dell’imperialismo è quello dell’agricoltura. L’impennata dei prezzi dei generi alimentari, la crescita della popolazione mondiale e la sempre più accentuata scarsità dell’acqua, hanno dato vita ad un vero mercato di accaparramento dei terreni coltivabili da parte dei paesi ricchi, specialmente medio orientali che hanno terreni inadatti alla coltivazione sia perché aridi sia perché troppo esigui in estensione.

Sul Magazine del New York Times è apparsa la notizia che l’Arabia Saudita fortemente preoccupata di una crisi alimentare nel paese ha iniziato a pensare di poter impiantare coltivazioni di riso e di altri generi alimentari in alcuni paesi africani. Fra questi figura il Senegal, il Mali, il Sudan e l’Etiopia. E’ il tragico paradosso di un continente, l’Africa, che pur essendo ricco di risorse naturali, energetiche e potenzialmente alimentari non solo non riesce ad esportare ma milioni di suoi abitanti muoiono per fame e denutrizione. Adesso gli sceicchi sauditi hanno pensato di investire i loro petrodollari per impiantare coltivazioni proprio là per sostenere i propri sudditi.


I deboli, e spesso corrotti, governi africani spinti dall’idea di avere tecnologie adatte, infrastrutture adeguate, lavoro e denaro sia per loro stessi che per la popolazione cedono facilmente alle richieste di acquisto di pezzi rilevanti dei loro territori per la coltivazione per conto terzi. Uno studio della Fao ci dice che il 90% delle terre escluse foreste e ecosistemi molto delicati, sia già sfruttato. Una riserva di grandi proporzioni di terreno inutilizzato pare esserci in un settore dell’Africa che attraversa 25 paesi, fra cui i paesi già elencati poco sopra che ne avrebbero la parte principale.

Il Magazine del N.Y. Times ci dice che il Kenya ha già chiuso l’affare con oltre 40 mila ettari quadrati di terreno dati in leasing al Qatar in cambio del finanziamento per la costruzione di un porto.

Lo scorso anno pare che anche la sudcoreana Daewoo abbia firmato un accordo con il Madagascar per poter gestire la metà del territorio coltivabile dell’isola africana con l’idea di coltivare mais e olio di palma da esportare. Questo fatto colossale ha scatenato violente proteste da parte della popolazione che hanno contribuito alla caduta del poco amato presidente Marc Ravalomanana.

Altri, e ancor più succulenti, affari rimangono però segreti. In ogni caso, come anche la Banca Mondiale ha ammesso, in Africa, ad eccezioni delle monoculture quali zucchero o thé, l’agricoltura su scala industriale destinata alla esportazione non ha mai avuto successo. Come dire che grandi investimenti quasi mai risolvono problemi reali.

Mentre dall’Africa, culla dell’umanità, e in special modo dal Sahel ci viene un esperimento di grande importanza che sta avendo successo e ci sta dando indicazioni per un diverso approccio alla questione agricola africana.

Questo modello ha la sua forza nel fatto che viene esteso attraverso un passa parola da contadino a contadino, da un villaggio all’altro e l’entusiasmo cresceva man mano che i risultati si possono apprezzare empiricamente. Tecnicamente esso si rifà ad un antico metodo usato nella agricoltura tradizionale di quei luoghi che è stata riadattata alle necessità odierne. Si scavano dei pozzi poco profondi, ma molto più grandi rispetto al passato, per raccogliere le acque piovane e per farle confluire nelle radici dei raccolti e nell’acqua viene mescolato del concime durante il periodo secco. Questa miscela naturale ha fatto aumentare la quantità dei raccolti che i contadini neppure lontanamente si aspettavano. Ma il dato più importante è che a causa dei semi che erano all’interno del concime utilizzato fra il sorgo e il miglio sono iniziati a crescere degli alberi che, con il passare degli anni, è divenuto palese che grazie ad essi la produttività del terreno aumentava notevolmente, in alcuni casi del 50%.

Per molti studiosi questa “rigenerazione naturale assistita”, così come viene chiamata, può rappresentare la più importante trasformazione ambientale di tutta l’Africa! E la cosa che la rende sostenibile è che sono i contadini ad avere in mano la tecnologia e il sapere necessari a realizzarla. Lo sfruttamento è quasi immediato e non necessita di capitale straniero o statale e neppure dell’intromissione da parte di ong o altre organizzazioni più o meno umanitarie, come al contrario è necessario nei metodi “moderni” esportati dall’occidente in Africa.

Questo modello è lo stesso praticato in tutto il Sahel occidentale e le risposte sono molto positive. Ancora una volta l’Africa ci indica una strada percorribile e, soprattutto, ci dice che se noi occidentali la lasciassimo in pace liberandola dalla mannaia del debito, dallo sfruttamento delle multinazionali, dai folli dogmi del neoliberismo e delle sue aberranti istituzioni i popoli africani saprebbero fare molto meglio di quello che i cosiddetti paesi “avanzati” hanno fatto fino a questo momento.

L’Africa è non solo il futuro d’Europa ma potrebbe essere anche il futuro di un mondo migliore, diverso e senza lo sfruttamento rapace del capitalismo.


* direttore di Oltre Confine


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