Vino, verità e vita
La Stampa, 10 settembre 2006
In una società in cui “si conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna”, anche una fatica e una gioia umana antichissima come quella della vendemmia rischia di essere ridotta a cifre: ettolitri di vino prodotto, gradazione media, bilanci e aspettative dei mercati, prezzi delle bottiglie di annata... Poco o nulla sembra ormai trasparire di quella attività agricola estremamente concreta e altamente simbolica che è la coltivazione della vite e la trasformazione dell’uva in vino. Eppure i progressi tecnologici poco hanno influito sul cuore di antico lavoro dell’uomo che resta tra i più pregnanti nel suo rapporto tra coltura e cultura, tra coltivazione della terra e sapienza di vita: la natura, infatti, ha bisogno della cultura per donare frutti preziosi e buoni per gli uomini.

Sarà perché sono nato e cresciuto in un paese del Monferrato le cui case sparse sulle colline sono tenute insieme dai filari dei vigneti e convogliate verso il cuore dove, l’una accanto all’altra, troneggiano la chiesa parrocchiale e la cantina sociale; sarà perché in mezzo a quelle cangianti schiere di viti e di tralci sono passato mille volte a piedi in ogni stagione dell’anno per andare e tornare da scuola; sarà perché i discorsi degli anziani attorno al focolare d’inverno e i giochi dei ragazzi nelle strade assolate avevano come sfondo immancabile la vigna, le sue fatiche e le sue gioie; sarà per tutto questo, ma di fatto ogni anno al tornare della stagione della vendemmia, mi ritrovo a ripensare non solo alle mie radici, ma al patrimonio di sapienza umana che da sempre trasuda dai filari di uva e che ha addirittura impregnato centinaia di versetti della bibbia come della poesia universale.

La vendemmia, più ancora che lo spillare il vino nuovo a primavera, è il vero culmine della coltivazione della vite, l’evento che condensa in poche giornate il successo o il fallimento del paziente lavoro di un anno intero. Lì, in quei grappoli dorati di moscato, viola cupo di barbera, rosso intenso di brachetto, è raccolta tutta la vita della vigna e tutta la fiduciosa fatica del vignaiolo: la paziente attesa dell’inverno colmata dalle lacrime di sofferenza della potatura, l’umile chinarsi dei tralci per lasciare che il sole baci i grappoli, la muta invocazione a scongiurare la grandine, tempesta di pietre che in un istante può far scorrere sangue nei solchi, il sempre precario equilibrio tra l’acqua che gonfia gli acini e il sole che dà loro colore, gusto, forza. E non sono solo le attese di un anno a essere raccolte e caricate sui carri per essere spremute: è il frutto di una pazienza ben più antica. La vigna, infatti, a differenza dei cereali e anche di molte piante da frutto, non è una coltivazione immediatamente produttiva: piantare una vigna è gesto di grande speranza, che non a caso la bibbia pone come il primo gesto compiuto da Noè dopo il diluvio; significa stipulare un’alleanza con un pezzo di terra, affermare che lì, in quel posto preciso, si vuole dimorare, che ci si prende il tempo di attendere lì e non altrove i frutti del proprio lavoro: coltura e cultura “radicalmente” diversa da quella nomadica è quella della vigna, una sorta di patto nuziale tra l’uomo e la natura senza il quale non può nascere la “civiltà”.

Certo, molte cose sono cambiate in questi ultimi decenni: reti e cannoni antigrandine hanno soppiantato l’aspersorio e le giaculatorie del parroco, senza tuttavia incrementare molto l’efficacia; i trattori hanno preso il posto dei buoi davanti alle bigonce; vasche, ingranaggi e condotte d’acciaio hanno rimpiazzato il tino per la pigiatura a piedi nudi; braccianti venuti dall’oriente d’Europa e dal mezzogiorno del mondo si chinano tra i filari, così come altri di loro in città si chinano prendendosi cura dei nostri anziani e dei nostri bambini... Ma tutto questo non ha fatto scomparire l’ansia festosa di chi si affretta a raccogliere, alzando ancora una volta lo sguardo al cielo a scrutare che una pioggia inclemente non annacqui proprio all’ultimo mesi di fatiche; non ha cancellato il colore e il gusto inebriante della gioia che scorre tra filari e strade nei giorni di vendemmia; ha solo mischiato suoni nuovi ai canti e alle grida che si rincorrono da un pendio all’altro delle colline. Così il brulicante intrecciarsi del lavoro di tutta la famiglia su un pezzo di terra ereditata dai padri si incontra oggi con il sodo impegno di chi lavora pensando a una terra e a una famiglia lontana: ciascuno impegnato a dare ciò che può per ottenere ciò che tutti attendono. E il riposo serale attorno a un pasto frugale e a un bicchiere di vino accomuna nella serena tranquillità chi assapora il gusto del frutto del proprio lavoro.

Sì, il vino: è lui, non l’uva, il vero “frutto” della vigna. E come la vigna, è ricco di doni concreti e, al contempo, denso di rimandi simbolici. Da sempre, “dai tempi di Noè” appunto, accanto al pane del bisogno, al pane che sfama, al pane quotidiano necessario per vivere, l’uomo ha avuto il vino della gratuità e della festa: una bevanda non necessaria alla sopravvivenza, ma preziosa per la consolazione, la gioia condivisa, l’amicizia ritrovata... Il vino: bevanda che, bevuta in solitudine, ne stordisce l’amarezza solo per accentuarne la tristezza, ma anche bevanda che, gustata nell’intimità di un’amicizia, ne esalta il sapore e ne affina il piacere. Bevanda esigente, anche, perché richiede a chi la beve lo sforzo di liberarsi dalla schiavitù dell’efficienza esasperata per abbandonarsi alla gratuità senza la quale la vita è priva di sapore; bevanda che invita a cantare la vita, a immettere nella consapevolezza della morte la volontà di dire di sì alla vita.

Forse è per tutti questi aspetti – oltre che per il discernimento che richiede nel conoscere se stessi, i propri limiti e quelli degli altri – è per questa lettura dell’esistenza nel segno della gratuità e della gioia condivisa che il vino è divenuto nella bibbia e in altre tradizioni spirituali il simbolo della sapienza. Sapienza perché dà “sapore” alla vita, ma anche perché il vino sa sciogliere il cuore e farne emergere ciò che davvero lo abita, sa trasformare la semplice assunzione di cibo in un banchetto, così come la fermentazione ha trasfigurato l’umile succo d’uva in bevanda inebriante. E accanto alla sapienza, altri due elementi indispensabili alla vita piena dell’uomo sono simboleggiati dal vino: l’amore e l’amicizia. Non a caso l’intera vicenda amorosa narrata nel Cantico dei cantici si snoda sul registro delle vigne, dei grappoli d’uva, del vino, fino a consumarsi nella “cella vinaria”; non a caso il Siracide ricorda che “l’amico nuovo è come il vino nuovo: bevilo quando sarà invecchiato”; non a caso nel banchetto promesso per la fine dei tempi ci saranno cibi succulenti e vini eccellenti; non a caso Gesù stesso porrà il suo primo “segno” alle nozze di Cana sotto il sigillo di una gioia condivisa grazie al vino migliore e lascerà ai suoi discepoli il comandamento nuovo dell’amore attorno al “segno” di un pane spezzato e di una coppa di vino versato perché tutti abbiano la vita in pienezza.

Sì, la sapienza, l’amicizia, l’amore, questi doni che non hanno prezzo ma di cui conosciamo il valore inestimabile, sono simboleggiati da una bevanda che proprio la sapienza dell’uomo e il suo amore per la terra hanno saputo scoprire tra i doni postigli innanzi da una natura che non attendeva altro che di essere trasformata in cultura di vita e per la vita.

Enzo Bianchi